Si può vivere bene anche se non si continua a crescere? Sì, si può. E questo è l’insegnamento migliore – il più intelligente – che è arrivata dall’esperienza di quest’anno all’ADE. Per molti anni l’universo della musica elettronica legata alla club culture è stata abituato a crescere, crescere, crescere: è il più giovane dei fenomeni, ricordiamolo, perché per certi versi ha senso far datare la sua nascita ai primi anni ’90, ed è anche quello che ha segnato la crescita più incredibile e tumultuosa, riuscendo a passare da fenomeno strettamente underground – con economie e dinamiche da underground – a fenomeno sociale e trasversale capace di generare fatturati giganteschi ogni fine settimana. Il tutto poi a modo suo, senza snaturarsi troppo: la sfera hip hop, tanto per fare l’esempio di una cultura “cugina”, ha dovuto cambiare molto di più il suo DNA originario nel momento in cui il suo successo lo ha catapultato nella sfera pop a livello sia di numeri che di immaginario, mentre la club culture è cresciuta a dismisura venendo sempre coperta poco e maluccio dai media mainstream: la “vera” techno e house a parte rare ed episodiche eccezioni non è mai passata dalle principali radio, dai principali network televisivi, dalle pagine dei più grandi organi di informazione stampati, eppure è riuscita a diventare un fenomeno enorme, gigantesco, facendosi vera e propria industria. Lo diamo per scontato, ma scontato non è. Il risultato è che ci siamo abituati troppo bene. Scusate, lo scriviamo due volte, perché è un concetto troppo importante: ci siamo abituati troppo bene.
Ci siamo abituati troppo bene anche perché nel momento in cui techno, house e dintorni avevano raggiunto la loro “maturità di mercato” (leggi: hai raggiunto probabilmente il massimo possibile della tua massa critica), è arrivato il ciclone statunitense dell’EDM: con molti difetti, con più di una stortura, ma comunque ha rimesso energia ed impatto straordinari nella crescita numerica e nell’appeal di tutto ciò che è musica e socialità “da ballo”. Come previsto da più parti – a partire da noialtri di Soundwall – non era una svolta epocale che avrebbe cambiato per sempre la fisionomia delle dance, ma più una moda, però per qualche anno ha mantenuta viva l’impressione quasi inconscia che tutto ciò che la dance toccava sarebbe diventato oro, e sarebbe stato travolto da un destino di crescita totale, assoluta, perenne. Tant’è che più di una persona, cresciuta facendo la paladina del clubbing originario wannabe underground, si è tuffata a corpo morto nel magnificare le “magnifiche sorti e progressive” (cit. Leopardi) del nuovo corso tutto effetti speciali e fuochi d’artificio e Dimitri Vegas & Like Mike, perché a queste persone interessa(va) prima di tutto sentirsi parte di una cresta dell’onda in continua piena, dando dei piagnoni rompipalle a chi invece ci teneva a sottolineare che esistevano delle differenze di fondo tra techno, house ed EDM – quello che sono, quello che comunicano, quello che rappresentano.
Possono e devono esistere e coesistere entrambe, sia chiaro; ma, come diceva un mio professore di economia all’università, “non bisogna confondere le mele con le pere”. L’ADE, con pragmatismo tutto olandese, ha fin dall’inizio messo tutto sotto lo stesso cappello: ma non per “imporlo” come fosse la stessa cosa, quanto invece per far sì che dal punto di vista imprenditoriale ci si facesse da stimolo a vicenda. Perché alla fine l’ADE nasce come piattaforma imprenditoriale, non dimentichiamolo: una felice intuizione della Buma – la Siae olandese, e magari la Siae italiana si facesse venire in mente idee del genere – per far sì che l’interesse attorno a qualsiasi tipo di musica sia ottimizzato e massimizzato. Ma all’ADE, proprio per questo motivo, c’è sempre stato spazio per tutti, nel senso che ognuno aveva facoltà e diritto di esserci, ma ad ognuno veniva lasciata la libertà di fare del proprio meglio. Il trionfo dell’EDM, dell’Amsterdam Music Festival all’Ajax Arena, non è mai stato fatto passare come “…la techno è una cosa dell’altro ieri, è superata, la musica di oggi è l’EDM”. Mai. Sono sempre state offerte pari opportunità per tutti, non si sono mai fatti figli e figliocci, non si è mai cavalcato in maniera “escludente” per gli altri le nuove mode, e anche quando l’ondata di Guetta e soci pareva al suo massimo non sono mai mancati panel e focus su “ferrivecchi” come l’hardcore, la trance vecchio stile, la techno storica, l’house seminale degli americani.
(L’Amsterdam Music Festival quest’anno e la Top 100, il momento topico del caravanserraglio più legato ai numeri; continua sotto)
Questo equilibrio si è confermato quest’anno. E si è aggiunto un altro equilibrio: capire quando è il momento di fare un po’ di downsizing, quando necessario. Ci sono stati tanti piccoli segnali di questo: un tempo il braccialetto conteneva un microchip, costosa supermodernità che permetteva un sacco di performance in più a livello di big data, nell’edizione 2019 il braccialetto era un braccialetto di stoffa; in altri anni, complice anche l’intervento di munifici e poderosi main sponsor, la presenza in città era davvero pervasiva, tipo occupare militarmente Rembrandtplein, quest’anno invece a parte i classici bandieroni di fronte alle venue non si è visto molto. Ma anche gli organizzatori “privati” hanno in qualche modo fiutato l’aria: l’Awakenings ci aveva sempre lasciato a bocca aperta per gli allestimenti al Gashouder, quest’anno per quello che abbiamo visto diciamo che erano “normali” (ovviamente, il “normale” di Awakenings resta qualcosa di notevole e maestoso, ma ecco, è mancato il “WOW effect”); oppure Audio Obscura, l’organizzazione più sulla cresta dell’onda, che nel prendere gli spazi sotto la stazione centrale di Amsterdam ha fatto degli allestimenti a livello da festa delle medie (…poi ok, aveva altri eventi della madonna sparsi per la città).
Quanto senso di delusione ha lasciato tutto questo? Zero. Ha lasciato invece, e scusate il gioco di parole, il “senso del buon senso”. A questo aggiungiamo il fatto che questo downsizing totale globale, ovvero non solo dell’ADE ma di tutta la sfera dance, visto che techno e house hanno smesso di crescere esponenzialmente come fatturati da anni ma ora sta succedendo lo stesso anche con l’ultimo “golden boy” ovvero l’EDM, ha portato ad una scrematura anche delle persone che gravitano attorno alle mammelle di questo universo: abbiamo visto per le strade di Amsterdam e davanti ai luoghi “strategici” (il De La Mar, il Pulitzer…) molta meno gente inutile, molti meno improvvisati pronti a far la questua di attenzione. L’impressione netta è che, nel 2019, il messaggio è stato “Chi è in grado di lavorare bene resiste ed insiste, gli altri si sono fatti da parte”.
E infatti: i party sold out non sono mancati. In primis quello del Circoloco, il vero dominatore di questi anni, il “king maker” del clubbing attuale prendendo in questo il testimone dal Berghain: e lo è per alcune scelte e qualità ben precise. Tipo, il fatto di fiutare prima e meglio di altri il flirt fra clubbing techno/house e il fashion system, che oggi dona un sacco di aura, profilo &prestigio, ma anche e soprattutto la capacità di fare ottime scelte e livello musicale, ottime e non scontate. Ad esempio, piazzare Bedouin nello slot principale del Main Stage: un’intuizione per nulla scontata, ma che ha pagato parecchio, in quanto i due brooklyniano hanno fatto un set assolutamente all’altezza delle loro qualità e hanno dimostrato che sì, il sapore prossimo venturo della cassa in quattro è quello che incorpora elementi medio-orientali o comunque non occidentali. Più in piccolo l’ha fatta un’altra realtà che pur’essa ha festeggiato l’ennesimo sold out, ovvero Life&Death: la scelta di mettere Omar Souleyman in line up sulla carta e un po’ anche nei fatti era un gigantesco “WTF?!”, poi però sul dancefloor ha pagato eccome, s’è visto un entusiasmo e una presabbene giganteschi quando il nostro cialtronissimo eroe è salito sul palco. E il tutto ha donato colore e calore in più che si è propagato anche a momenti più tradizionali&prevedibili, come il back to back tra il padrone di casa Dj Tennis e Axel Boman.
(Ad Amsterdam comunque il modo in cui trattano le location varie resta spesso da paura, foto di Laura Siliquini; continua sotto)
Altri highlight della nostra sortita all’ADE 2019: il Radion si è confermato un club della madonna, e ora che ha aperta anche la sala superiore, con tanto di gradoni dove potersi sedere, ha davvero una marcia in più. Abbiamo avuto la fortuna e il privilegio di vederci uno dei non tantissimi set di Circle Of Live, l’incredibile progetto di Sebastian Mullaert – ex Minilogue – di improvvisazione radicale. Come ha avuto modo di spiegare dal vivo il giorno prima in un bel panel, si sale in console senza parti già pronte, senza sezioni di musica già predeterminate, e si procede seguendo il filo dell’ispirazione e dell’emozione. Certo, in un progetto del genere bisogna “entrarci”: nella prima mezz’ora il tutto ci è sembrato un po’ seduto, casuale e sfilacciato, per quanto carino, ma una volta che si entra nel flusso e si entra in un contatto quasi telepatico con le persone sul palco (l’organico di Circle Of Live è variabile, ormai più di una ventina di producer sono stati coinvolti in varia maniera nel progetto) l’esperienza diventa davvero vertiginosa e magica. E’ stato fantastico. Tanto che ci siamo letteralmente dimenticato che al piano di sotto c’erano prima Carista (che brava, che brava) e poi Ben UFO in grandissima forma.
Nell’altra decina abbondante di party che abbiamo percorso in tre giorni di Amsterdam, non abbiamo visto nulla di incredibile, o di particolare; magari c’è stato e ci è sfuggito, ma all’ADE più che in qualsiasi altro contesto capisci che il dono dell’ubiquità è qualcosa di irrealizzabile. Ma appunto, nonostante l’impressione pervasiva del downsizing non ci abbandonasse, non avevi l’impressione di stare nel cuore di un impero in declino. No. Avevi invece la percezione di essere in mezzo alla celebrazione di un sistema, di un arte, di una cultura che “tiene”, regge, ha una sua consistenza che prescinde dai saliscendi delle mode e del mercato. E questa è la più grande delle vittorie. Poi certo, se uno pensa che l’unica via sensata possibile sia quella in cui si fa un sacco di soldi faticando poco, e dove il guadagno si moltiplica anno dopo anno quasi per magia senza che tu ci debba mettere troppo del tuo, allora è rimasto negli anni ’90 o nei primi 2000, oppure è ancora abbagliato dalla crescita impetuosa che ha avuto la bolla EDM nell’ultimo decennio. La vera sostanza è la persistenza nel tempo. Non l’essere i dominatori del momento.
(Foto di copertina di Mark Richter)