Quarant’anni di carriera. Anzi: quaranta, più uno. Perché si sa: la pandemia ha un po’ sballato i conteggi e creato dei “buchi neri”. Ma gli Africa Unite, la band capitanata da sempre da Bunna e Madaski, è un’istituzione che non ha certo paura di uno o due anni di stop, dopo aver resistito tutto questo tempo restando sempre viva, rilevante, pulsante. Poco meno di un mese fa è uscito il loro nuovo lavoro da studio, “Non è fortuna” (e il titolo vuole proprio dire: se siamo ancora qui, non è certo solo perché abbiamo avuto culo), e con questa scusa ne abbiamo approfittato per fare una lunga e bella chiacchierata coi due. Come facile immaginare, Bunna è quello tranquillo ed accomodante, Madaski quello caustico e corrisivo: ma in realtà l’interplay fra i due è meraviglioso, anche quando non sono d’accordo (o fanno finta di non essere d’accordo)
Avete spiegato già più volte, in varie interviste in giro, il significato del titolo dell’album. Vorrei però allargare un attimo la prospettiva, e chiedervi: ma la fortuna che ruolo ha nelle scene musicali in generale oggi?
Bunna: Buona domanda… Sicuramente oggi lo scenario è molto diverso rispetto a quando avevamo iniziato noi. Noi avevamo un unico metodo per provare a diventare popolari: suonare, suonare, suonare. Oggi una cosa del genere è superatissima dal tempo. Oggi ci sono i talenti, ci sono i social network, ci sono moltissimi modi per catturare l’attenzione. Un tempo, invece, suonare era l’unica.
Madaski: Vero, ma penso che anche quando avevamo iniziato noi la fortuna comunque avesse un ruolo non secondario. E’ la fortuna che ti permette di suonare nel posto giusto al momento giusto: un incrocio di condizioni favorevoli che contava allora così come conta adesso. Ecco, se vuoi una differenza, ti posso dire che noi quando abbiamo iniziato eravamo più ingenui, più primitivi; chi inizia a fare musica oggi è invece, in modo naturale e ogni tanto addirittura quasi inconscio, molto più scafato. Quando noi abbiamo iniziato, era la fortuna che doveva venirci a cercare – non eravamo noi che andavamo a cercarla.
Bunna: Questo è un album che racconta tanto di come per noi sia importanti lavorare, essere dedicati a quello che facciamo: chiaro che questo atteggiamento nasce anche dal fatto di essere venuti fuori in un determinato momento storico per la scena musicale italiana. Probabilmente nascessimo oggi, col nostro modo di fare e il nostro modo di vedere le cose avremmo meno possibilità.
Madaski: Sei sicuro, Bunna? Perché magari invece ne avremmo di più…
Magari se aveste vent’anni oggi sareste comunque ben sincronizzati coi tempi, come lo eravate allora. La chiave è la sincronia con quello che succede, non quello che si fa in sé: la butto lì come ipotesi.
Bunna: Di sicuro però decidere ad un certo punto di cantare in italiano è stata una scelta fondamentale, perché arrivata esattamente nel momento in cui scoppiava la curiosità verso un certo tipo di scena, e di approccio. Ma questa sincronia è stata casuale; è stata, lei sì, in buona parte fortuna. Su questo – nel fare la cosa giusta al momento giusto – siamo stati fortunati.
Leggo nel vostro comunicato una puntualizzazione, anche abbastanza ironica e tagliente, sul fatto che voi non vi siate mai sciolti per poi celebrare una reunion. Mmmh, questa Mada mi sa che è farina del tuo sacco…
Madaski: Chiaro che sì! (risate, NdI) …Le reunion di comodo sono una delle cose che odio di più. Non so se oggi funzionino ancora così tanto come qualche anno fa, ma ad un certo punto proprio le vedevi certe band che si dicevano “Cosa facciamo oggi? Ci sciogliamo! E cosa facciamo domani? Ci rimettiamo insieme! Così abbiamo la scusa per fare un bel tour, magari facendoci pagare un po’ di più rispetta a quanto ci sarebbe stato dato se fosse stato un tour normale…”.
Ma ci sono stati dei momenti in cui gli Africa Unite hanno rischiato di sciogliersi?
Madaski: No.
Bunna: Assolutamente no.
Madaski: Vedi, il nostro sodalizio è proprio inscindibile a livello umano. E poi, viviamo a Pinerolo: che altro potremmo fare a Pinerolo? Se ci sciogliessimo, come potremmo fare ad ignorarci l’uno con l’altro in un paese così piccolo? Anche lo volessimo fare, scioglierci non sarebbe una scelta particolarmente intelligente… (risate, NdI)
Ci sono però dei momenti in cui vi siete annoiati, come Africa Unite?
Bunna: Da parte mia, assolutamente no. Se poi vogliamo parlare di musica, in fondo ogni nostro disco è stato un’entità a sé stante, con delle sue regole, delle sue idee, dei suoi tentativi specifici. Anche questo ha sempre aiutato a tenere lontana la noia.
Madaski: Io invece devo dire che qualche volta sì, mi sono annoiato.
Bunna: Davvero? (sembra sinceramente sorpreso, NdI)
Madaski: Specialmente alla fine dei grandi tour. Quelli dove ti ritrovi a ripetere lo stesso concerto tipo 90/100 volte in un anno. Alla fine diventa davvero: due palle. E se la serata partiva bene subito, comunque questo senso di noia e di ripetizione almeno lo superavi agilmente, perché entrava in campo l’euforia e la felicità del suonare, del rapporto col pubblico; ma se partiva male… Dopodiché lo capisco, eh: se hai una scaletta che funziona, è stupido pensare di cambiarla, di stravolgerla ogni volta. Diciamo che invece musicalmente io mi sarei messo ancora più in discussione, anche se – come dice Bunna – lo abbiamo fatto un po’ ad ogni album. Forse potevamo farlo ancora di più.
(Gli esperimenti, anche feroci, di Madaski in libera uscita solista; continua sotto)
Bunna: In effetti la dinamica è sempre Mada che tira un po’ più verso la contaminazione, io quello che cerca di restare più vicino ai canoni del reggae…
Madaski: Ma guarda, non è solo quello. Non parlo tanto di scelte musicali, quanti di meccanismi che si vengono a creare quando suoni live, quando organizzi un tour. Che poi, se ripenso proprio a quei meccanismi lì, oggi quasi li rimpiango: perché la realtà dei fatti – non solo per noi ma direi per tutti – è che oggi per fare una cosa che possa essere considerata “tour” possono bastare dieci date; un tempo invece potevano essere anche novanta, cento, come si diceva… ed era tutto più rock’n’roll, ecco, non so se mi spiego. Anche per noi: che non suonavamo certo rock.
(Ecco l’album uscito a maggio 2022; continua sotto)
Comunque trovo che “Non è fortuna” sia un disco veramente ispirato, uno dei vostri migliori degli ultimi anni. E intendo ispirato in primis come scrittura. C’avete messo poco tempo a farlo, o…?
Madaski: C’abbiamo messo molto meno del solito. Forse è per questo…
Bunna: …che ti sembra un disco ispirato.
Madaski: Rispetto al solito, mi sono fatto molte meno paranoie sui suoni, sui mixaggi: almeno il 50% in meno rispetto al proverbiale “perfettinismo” madaskiano. Abbiamo deciso quasi fin da subito di stare su un certo tipo di suono, molto “nostro”, molto riconoscibile, senza stancarci troppo nel cercare delle alternative. Forse è per questo che abbiamo potuto dedicarci alla scrittura con più serenità e scioltezza.
Dal punto di vista dei testi, invece?
Madaski: Abbiamo seguito il nostro solito schema di lavoro. Inizia Bunna buttando su una serie di idee, però rigidamente in inglese, su delle basi molto scarne ed essenziali. Io poi ci lavoro sopra, inizio a registrare, scrivo i testi in italiano. Testi che a quel punto lui ricanta. E lì c’è un ulteriore passaggio a cui ci dedichiamo assieme, perché una canzone solo se la canti capisci se sta in piedi, dal punto di vista dei testi. Ci sono delle parole che sulla carta possono sembrare perfette ed anche metricamente azzeccate; ma una volte che le devi cantare, ti rendi conto che non vanno bene, che c’è qualcosa che non torna.
Bunna: La parte testuale è comunque quella che arriva sempre per ultima, nei nostri brani. In questo disco però c’è una traccia su cui ho lavorato subito con l’italiano.
Quale?
Bunna: “Bilancio inutile”. Che è anche una storia un po’ autobiografica.
Un testo che inevitabilmente colpisce l’attenzione è anche quello de “La grande truffa del millennio”.
Madaski: La grande truffa del millennio è esattamente quello che stiamo vivendo: la truffa dei grandi gruppi, dei grandi conglomerati media, delle notizie preconfezionate che ci arrivano di continuo. Pensaci: nell’arco di un attimo basta Putin per cancellare come d’incanto il Covid. Ti pare normale? Quale sarà il prossimo colpo di bacchetta magica? Un gioco perverso a cui si prestano politici, tuttologi da televisione, giornalisti: tutte persone che dovrebbero sentire la responsabilità di una informazione corretta, invece se ne fregano altamente. Il risultato è che alla fine l’informazione è sì ovunque ma è corrotta, inquinata. Ed è dappertutto: perché ora c’è anche internet. Il posto dove tutti fanno a gara a truffare se stessi.
(Una delle hit storiche degli Africa Unite; continua sotto)
I pozzi dell’informazione erano così avvelenati anche negli anni ’90, che è il periodo in cui siete diventati popolari?
Bunna: Mi verrebbe da dire di no. O almeno, non c’era questo tipo di percezione.
Madaski: Negli anni ’90 non esisteva la rete, o meglio, esisteva, ma veniva utilizzata in tutt’altro modo. Era una nicchia. Oggi invece è quasi l’unico mezzo di scambio di dati e di comunicazione.
Bunna: Negli anni ’90 forse c’era un po’ più d’attenzione a far parlare solo chi potesse avere un po’ di cognizione di causa, su determinati argomenti. Oggi parlano tutti, i tranelli sono tanti, e spessi ci si casca.
Madaski: Ma più che altro negli anni ’90, almeno da parte dei musicisti, c’era un po’ più di coscienza politica e un po’ più d’attenzione nello scegliere gli argomenti e il modo per portarli avanti. I testi nascevano con l’idea di offrire un significato, mentre oggi mi pare si pensi solo a dare una serie di significanti. Il risultato? Oggi forse la gente ascolta con meno attenzione.
Bunna: Se pensi al movimento delle posse, era molto importante ciò di cui si parlava: era proprio una scelta d campo.
Madaski: E’ che all’epoca c’erano anche delle distinzioni ben precise. C’erano i generi musicali. Oggi non i generi non esistono più.
Così come ormai è trasparente ed impalpabile la differenza tra underground e mainstream, in primis come attitudine.
Madaski: C’è un unico obiettivo che accomuna tutti: quello del cash. Pronto guadagno, su un pronto prodotto. Un prodotto che è talmente “pronto” però che spesso diventa marcio in due secondi…
“Nell’arco di un attimo basta Putin per cancellare come d’incanto il Covid. Ti pare normale? Quale sarà il prossimo colpo di bacchetta magica?”
Però a questo punto vi chiedo: tutta la consapevolezza che ha investito – e con cui avete investito – il vostro pubblico negli anni ’90, grazie a voi e a molti altri vostri colleghi, alla fine non è servita a nulla? Non ha attecchito? Non ha lasciato nessuna traccia o influenza nelle generazioni successive?
Madaski: A qualcosa forse è servito. La verità è che il pubblico è cambiato con la stessa velocità con cui sono cambiati i modi proporsi al pubblico: alta, molto alta. Oggi tutto si rinnova molto velocemente. Credo siano in pochi, ma molto banalmente proprio per questione di vita vissuta, quelli che ci seguono ancora instancabilmente dagli anni ’90; ma ci sta. Noi stessi siamo arrivati ai sessant’anni, e nemmeno ce ne siamo accorti: gira tutto vorticosamente. C’è stato un istante in cui siamo riusciti a dire le cose giuste al momento giusto, e questo istante in realtà è stato molto più di un istante. Oggi però è più difficile imbroccare questo allineamento: anche perché rispetto al passato esso dura pochissimo, dura millisecondi. La velocità della comunicazione oggi è tale per cui anche questa risposta che ti sto dando ora, domani risulterà facilmente troppo vecchia ed inadeguata.
Bunna: Negli anni ’90 c’erano forse molti più gruppi che dicevano delle cose: il pubblico aveva voglia di riconoscersi in qualcosa, e cercava quindi delle idee. La musica attuale molto meno. Negli anni ’90 ci sentivamo tutti coinvolti in questa battaglia per dare alla musica underground ed alternativa un’importanza che mai prima aveva avuto. Siamo addirittura arrivati a Sanremo, come scena, pensando di poterlo cambiare noi e non viceversa. Ma appunto, c’era questo senso di battaglia collettiva. Tutti si sentivano coinvolti, sia artisti che pubblico, sotto uno spirito ben preciso. I concerti erano spessissimo sold out.
C’era un grande senso di appartenenza.
Bunna: Bravo, esatto. Oggi l’appartenenza si manifesta in un altro modo. Oggi l’appartenenza è condividere lo stesso balletto trovato su TikTok. E’ in questa maniera che oggi si esprime il desiderio di comunità.
Aggiungo, riprendendo una cosa a cui si accennavi prima per sottolinearla, perché trovo sia un concetto focale: oggi chi era nell’underground arriva molto più facilmente al mainstream, ma ci arriva adeguandosi subito ad esso e non portando invece avanti le sue istanze e i suoi stilemi originari.
Madaski: Vero. Io continuo ostinatamente a pensare che sia più importante scrivere un testo che parli di qualcosa piuttosto che far sapere al mondo cosa ho mangiato a pranzo. Ma mi rendo perfettamente conto, numeri alla mano, che oggi alla gente interessa di più sapere cosa ho mangiato a pranzo. Ma anche Bunna ormai è così… (risate, NdI)
Bunna: A me i gossip interessano! (altre risate, NdI)
Detto seriamente: basta sapere che sono gossip. Sono, insomma, cazzate.
Bunna: Esatto. Il problema nasce solo quando si iniziano a spacciare per cose importanti quelle che di loro sono cazzate.
(Gli Africa Unite oggi; continua sotto)
Guardando indietro, qual è il disco più importante nella vostra carriera?
Bunna: Mada, rispondi tu?
Madaski: Sicuramente, i primi tre sono quelli che hanno messo le fondamenta di tutto. E non parlo dei primi due EP, che quello vabbé, erano ancora esperimenti, ma di “People Pie”, “Babilonia e poesia” e “Il sole che brucia”. E’ lì che lo zoccolo duro nostro si è costituito. Invece, è stato un po’ deludente il periodo quando siamo stati sotto contratto con una major, con la Polygram. Proprio per questo motivo “Mentre fuori piove”, il nostro primo disco post-major: eravamo un po’ delusi per aver visto terminare quell’esperienza, ma alla luce dei risultati di quel lavoro è stata la major in realtà a mordersi le mani per averci lasciato andare via. Quel disco, anche se aveva una distribuzione indipendente che copriva bene il nord Italia e meno bene tutto il resto, ha venduto comunque più di tutti i dischi usciti precedentemente su Polygram. In più, aggiungo che “Mentre fuori piove” ha figliato poi un tour davvero importante. L’altro disco importante nella nostra carriera spero sia proprio “Non è fortuna”: è un lavoro che arriva dopo un periodo difficile per tutti. Oggi non sappiamo nemmeno se abbiamo finalmente sconfitto un male, quello della pandemia, per cacciarci in un male ancora peggiore, quello bellico. Nel frattempo però si sono ributtati tutti in pista, col risultato che stiamo passando dal quasi zero degli ultimi due anni al mille di quest’estate. Sarà difficile farsi avanti, in tutto questo traffico. Ma noi un po’ d’esperienza ce l’abbiamo, dai.
Bunna: Altri due dischi che vorrei nominare sono “Vibra” e “Controlli”: quest’ultimo perché è stato veramente interessante il rapporto con la contaminazione elettronica, “Vibra” al contrario perché ci riavvicinava ad un approccio più ortodosso… e poi anche lui ha generato un tour notevole.
Madaski: Vabbé, ma così li abbiamo nominati quasi tutti…
Ve ne cito uno io, per sapere oggi con che occhi lo guardate: “Punto di partenza”.
Madaski: Sinceramente non è un disco che mi affascina. Secondo me, col senno di poi posso dire che con questo disco ci siamo limitati a svolgere il compitino. Era necessario fare un disco, avevamo un ottimo contratto per quanto riguarda i live, e per far partire un tour c’era appunto bisogno di un’uscita discografica. Però ecco: oggi, se noti, nei nostri concerti non riproponiamo praticamente mai pezzi da quel disco lì.
Non sono tanti i musicisti che, parlando dei propri lavori, rispondono con questa sincerità. E di quel disco chiedevo infatti non a caso…
Madaski: Ma se le cose stanno così, perché non dirlo? Chiaro, non è che te ne rendi conto subito: lì per lì ti pare di aver fatto il miglior lavoro possibile. E’ quando lo riascolti un po’ di tempo dopo, che ti dici – ma qua quanto c’è di realmente valido? E avendo la fortuna di poter scegliere tra un repertorio di 400/500 canzoni, non è che per forza dobbiamo scegliere quelle che non ci convincono al cento per cento.
400/500: tantissimo. Ed è un numero evidentemente destinato a crescere, giusto?
Bunna: Ci divertiamo a suonare. Tutto qui.
Madaski: Ecco, questa è una cosa che dovrebbero capire bene i musicisti più giovani. Suonare tanto, macinare chilometri. La parte più bella e soddisfacente del nostro mestiere è questa. Per come la vediamo noi, meglio fare cento concerti da 1000 persone che dieci concerti da 10.000 persone. Oggi però vediamo che si sta puntando esattamente al contrario. Ed è un peccato.