Partiamo da un assunto essenziale: questo evento non può essere analizzato come fosse una qualunque serata di musica elettronica dentro a un club, e neanche può essere accomunato a un festival ricorrente a cui si lega un certo tipo di vibe riconoscibile. Non tanto perché non sia un format nato e sviluppato all’interno di quei contesti, quanto perché mi sembra evidente – senza volerci per forza allegare un giudizio – che sia stata imboccata una direzione differente e netta. Una direzione che soprattutto ha portato dividendi, e che tendenzialmente potrebbe continuare a farlo.
C’è voluto un pochino più del solito per metabolizzare l’esperienza vissuta lo scorso 21 Settembre all’Ippodromo di San Siro, a Milano, ma fin da subito è parso chiaro cosa Afterlife potesse permettersi di rappresentare oggi nel panorama musicale non nostrano, ma mondiale: potenza, pura e semplice. Basterebbe quella di fuoco – siamo entrati in un contesto dove i costi di produzione iniziano ad annusare i sei zeri, e si vedono tutti sul campo – ma è impressionante anche quella dell’immaginario che il team dietro questo gigantesco monolite ha saputo crearsi e coltivare negli anni. Un immaginario che permette di raggiungere cifre un tempo impensabili per certi generi musicali alle nostre latitudini.
E’ stato uno show a tutti gli effetti, più vicino a un concerto che a un festival di musica elettronica, dove sopra tutto e tutti torreggiava un autentico gigante di led, a dettare i ritmi come un prode direttore d’orchestra, e che invogliava prepotentemente a scaricare la batteria del proprio cellulare in attesa della prossima animazione tridimensionale. Certo, il discorso dei telefoni – per altro affrontato anche in estate proprio su queste pagine – è uno dei prezzi da pagare quando si esce da un certo tipo di cultura e si scavalla pesantemente nel presenzialismo e nella FOMO da social media. Dava fastidio l’oceano di cellulari sempre alti in pista? Personalmente tantissimo. Cambiava particolarmente il mood del dancefloor? A dirla tutta no, anche perché la sensazione è che si ballasse molto poco – pare sia ormai un dato di fatto in certi contesti molto grandi – e si passasse la maggior parte del tempo col naso all’insù godendosi lo show nella sua totalità. Non ho visto quasi nessuno lamentarsi di questa cosa, anzi la sensazione era che tutto fosse parte del normale canovaccio dell’esperienza. Un po’ come si trattasse appunto di un concerto, dove questa pratica è sicuramente più “nella norma” rispetto al clubbing.
(C’è chi si è preso la briga di registrare tutto dal pubblico; continua sotto)
Quindi, vi stiamo dicendo che la musica non contava niente? Non proprio. Anzi, ad esempio, ho trovato che un progetto serio e ambizioso come Anyma di Matteo Milleri, così come era stato quando vi avevamo raccontato HOLO di Eric Prydz, non possa prescindere – e infatti non lo fa – da una componente sonora solida e altrettanto interessante, pure per chi non necessariamente sarebbe attirato da tutto il filone della melodic techno. Uno show con un percorso transmediale ben studiato e ben proposto, dove audio e video sono egualmente importanti per ottenere un impatto profondo. Meno incisivo, forse, il progetto MRAK di Carmine Conte, che sembra non aver ancora trovato una direzione chiara, e che forse potrebbe dare vero spazio alla componente strumentale rispetto a quella digitale, in modo da differenziarsi realmente da tutto il resto della produzione.
Certo poi, sarebbe facile fare i duri e puri e dire che la musica sia stata forse secondaria nelle valutazioni di fondo rispetto, chessò, a una componente visiva di enorme impatto che potesse convogliare anche molti curiosi – paradossalmente di questo evento ho sentito parlare soprattutto persone “non della musica”. Forse non consiglierei Afterlife a chi cerca un dancefloor infuocato di vita e un suono innovativo e ricercato. E’ difficile mettere assieme queste componenti quando si ambisce a certi numeri che sono l’esatto opposto della nicchia a cui apparteniamo. La questione è che di fronte a un sold out da molte migliaia di persone, a oltre cento Euro a biglietto senza contare quelli Premium, con un’umanità che andava dai ragazzini siciliani venuti apposta con la bandiera della Trinacria, fino ai fighetti stranieri di mezza età appena usciti da qualche sfilata della Fashion Week, l’unica cosa ragionevole da fare per chi – come noi di Soundwall – questo mondo lo bazzica e lo rispetta profondamente da anni, è togliersi il cappello e dire BRAVI.
Quando riesci a coinvolgere e a mandare a casa soddisfatta una forbice umana di questa ampiezza, quando riesci a incuriosire e a convincere a spendere soldi veri anche chi non è fan del tuo prodotto musicale, entri in un campionato differente e decisamente più tortuoso, ma anche quello in cui si fa veramente la storia. OK, magari non si tratterà necessariamente di un ecosistema così legato ad alcuni dei valori fondativi della club culture, e questo è un fatto inequivocabile, ma eventi come questo possono comunque essere qualcosa di fondamentale per rendere tutti noi – sì, anche voi che fate no con la testa mentre leggete – un settore economico su cui magari sarebbe anche ora di far convogliare qualche investimento (e soprattutto un po’ di rispetto) in più. Poi, se vogliamo continuare a incancrenirci sulla posizione del mainstream e dell’underground, dei buoni e dei cattivi, dei ricchi scemi contri i poveri virtuosi, siamo sempre liberi di avere ragione tutti. Chi invece volesse cedere alla curiosità e dare un’occhiata dall’altra parte della barricata potrebbe anche tornare indietro con qualche certezza in meno ma qualche speranza in più.