I The Blaze sono arrivati sulla scena musicale mondiale grazie a due video incredibili e che tutti dovreste avere visto almeno una volta: “Territory” e “Virile” (che ha permesso a Guillaume e Jonathan Alric di vincere il prestigioso premio Film Craft Grand Prix Award al Cannes Lions International Festival of Creativity). Il connubio perfetto di musica e immagini (sono sempre loro due a occuparsi di entrambi gli aspetti) ha reso un progetto ancora sconosciuto immediatamente rilevante.
Fa strano dirlo, ma esiste un prima e un dopo The Blaze e basta anche solo guardare in casa nostra per rendersene conto (prendete a esempio Liberato e noterete delle affinità evidenti nell’estetica sia musicale che cinematografica, come un lungo filo rosso che collega la Banlieu e Scampia).
Ora, dopo un fortunato EP d’esordio, e dopo avere calcato alcuni dei palchi più importanti del mondo (dal Coachella al Primavera), arrivano finalmente a tagliare il traguardo dell’atteso primo vero album. “Dancehall” è uscito lo scorso 7 settembre e sta già facendo parlare ovunque.
Per definirlo, il New York Times si è divertito a giocare con la definizione di EDM, qui intesa come “Emotional Dance Music” e forse non ne esiste una che sia più calzante di questa.
Arrivo sul luogo dell’intervista e subito vengo apostrofata così da Guillaume: “Y a Malì qui reviens dans la famille!”. E sì, sono davvero tornata in famiglia: ci conosciamo da tanti anni, ne abbiamo passate tante insieme, e anche se di strada ne è stata fatta tanta, è stato divertente e spontaneo ritrovarsi e tornare al tempo in cui quel miscuglio di suoni eterei e cassa dritta era solo un’idea e tutto doveva ancora succedere.
Come nasce il progetto video-musicale di The Blaze?
Jonathan: Per tre anni ho frequentato la scuola di cinema di Bruxelles per la quale dovevo scegliere se fare un cortometraggio o un video musicale, all’inizio avevo scelto il cortometraggio, ma l’idea non era buona così ho deciso di riprovarci con il videoclip, ispirandomi ai lavori di Romain Gavras, Koutrajmé e registi di questo tipo. Avevo quindi bisogno di una musica che si adattasse alle immagini che avevo in mente e di un musicista disposto a ritoccare la sua musica in base alle mie idee, così ho pensato a mio cugino Guillaume, che all’epoca faceva musica Dub, che è molto difficile da filmare, è troppo lunga, i pezzi durano dieciminuti e manca di azione, dunque non calzava con il mio progetto. Così durante le vacanze di Natale, a casa del nonno, dove ogni anno si ritrova tutta la famiglia, abbiamo iniziato a remixare un pezzo già esistente di Mayd Hubb, “Mellowmoon” rendendolo più corto ed energico. In seguito ho realizzato il clip che funzionando bene e mi ha incoraggiato. Poi tutto è avvenuto in maniera fluida e naturale, sono sceso a Dijon (dove abitava Guillaume ndr) per vedere un suo concerto e ci siamo ripromessi di fare qualcosa insieme. Così ci siamo indirizzati verso l’Elettronica e abbiamo dato vita al progetto The Blaze.
Allora è così che è avvenuto il cambiamento musicale di Guillaume?
Guillaume: Anche nella musica dub mettevo un po’ di elettronica ma non è proprio la stessa cosa, non aveva quell’impatto emozionale che riesco a rendere oggi con la musica di The Blaze. Per questo tipo di progetto, avevo bisogno di musiche dall’effetto cinematografico, che emozionino, anche perché la fusione tra musica e videoclip è alla base di tutto il progetto sin dal principio. “Kiss” è il primo video firmato The Blaze, ma non è più reperibile sul web perché dopo che siamo stati ingaggiati dall’etichetta Bromance Records, ufficialmente il nostro debutto è “Virile“.
Il New York Times dedicandovi un articolo afferma che avete inventato un nuovo genere: Emotional Dance Music. Cosa significa per voi?
G: Questo termine riassume bene quello che facciamo, perché ci sono due cose importanti per noi: le emozioni e il far danzare. Quando creiamo musica pensiamo sempre a chi ci vuol ascoltare a tutto volume nel suo salone per far ballare i suoi amici.
J: Non si tratta solo di danzare ma anche di viaggiare con la mente, di chiudere gli occhi e di evadere, di lasciarsi trasportare dall’immaginazione…
Che è sempre stato uno degli scopi della ricerca artistica di Guillaume far viaggiare la mente del pubblico attraverso la sua musica…
G: Sì infatti anche prima avevo questo tipo di ricerca ma è molto diverso perché nel dub è un percorso più spirituale e intellettuale mentre quello che facciamo ora è più emozionale e nostalgico…è una musica che parla più al cuore che al cervello…
J: il Dub serviva più a fare viaggiare con la mente mentre ora cerchiamo di raccontare delle storie. Ascoltando i nostri pezzi, se lasci andare la fantasia, puoi benissimo immaginare di raccontarti la storia che preferisci.
Infatti la vostra musica sembra molto una colonna sonora…quali sono quindi le vostre principali fonti d’ispirazione?
J: E’ buffo che tu dica questo perché anche noi ultimamente abbiamo notato che i nostri clip sembrano quasi delle pubblicità, sopratutto l’ultimo che abbiamo fatto (“Queens”). Le nostre ispirazioni musicali sono molto variegate, entrambi fin da bambini, grazie ai nostri genitori, abbiamo ascoltato molta musica classica, che è stata una nostra fonte di ispirazione poiché non avendo parole, è molto passiva ed evocativa, come cerchiamo di fare con i The Blaze. Poi ovviamente c’è l’influenza del dub di Guillaume, con il basso preponderante a cui proviamo ad aggiungere dei ritmi sudamericani, peruviani, salsa, senza che si notino troppo però! Ascoltiamo veramente di tutto, Guillaume ascolta più rap francese di cui io non sono super fan, comunque spaziamo su vari generi.
Ci sono anche delle influenze dalle sonorità inizi anni 2000? Per esempio ho trovato delle ispirazioni dal videoclip di “Pass this On” dei The Knife del 2003
G: Moltissimo sia nel suono che nel video.
J: “Mellowmoon“, il nostro primo lavoro insieme, è proprio ispirato a quel video.
G: Però quello che cerchiamo di fare da sempre è filmare un’umanità che non si vede spesso nei clip, cerchiamo di mettere in luce gli «emarginati», i diversi, per mostrarne l’umanità e poeticità.
Come mai in tutti i vostri videoclip c’è una sorta di esaltazione della virilità?
G: Quello che cerchiamo di fare è di creare un contrasto tra la virilità e la dolcezza, come in “Territory”, l’attore principale, molto virile, come compare in scena piange, e questo crea un forte contrasto tra la potenza della mascolinità e la debolezza delle lacrime. Un uomo che si accetta per quello che è non ha paura delle emozioni, può piangere, ridere e danzare senza vergogna.
Ma è sempre l’uomo inteso come maschio il protagonista assoluto…
J: Ci chiedono spesso perché parliamo sempre di maschi e di gioventù, ma noi siamo maschi, più o meno giovani e tutto ciò ci viene spontaneo visto che quello che ci interessa nella musica e nei clip è la poesia e il nostro modo di esprimerla si basa sui contrasti. Come diceva Guillaume, fai piangere un uomo virile e crei un paradosso pieno di poesia senza che ci sia una vera ricetta. Anche “Queens“, l’ultimo video, l’ abbiamo girato presso un campo nomadi, una comunità che ci ha sempre interessato e affascinato molto, che volevamo mettere in luce da tanto tempo, abbiamo cercato di farli uscire dai tanti cliché e stereotipi di cui sono vittima, rendendoli più umani al pubblico. Per noi cercare la poesia negli “emarginati” vuol dire raccontare l’umanità che sprigionano.
Sapete di aver un gran riscontro tra il pubblico gay?
G: Molti pensano che siamo omosessuali e arabi! I nostri clip suggeriscono una sorta di omosessualità ma non è sempre voluto, abbiamo preferito lasciare lo spettatore libero di interpretare un videoclip come “Virile” e decidere se i due protagonisti siano omosessuali o meno, perché comunque non è questo il tema principale, per noi sono solo due ragazzi in un appartamento che vivono un momento semplice e bello, poetico proprio nella sua semplicità.
Poi quando si fanno il soffietto (le labbra avvicinate per fumare insieme una canna ndr) alcuni l’hanno interpretato come un bacio, ma ognuno è libero di pensare ciò che vuole, e noi incitiamo a farlo.
Ma anche in “Territory” c’è questa ambiguità…
G: Sì probabilmente perché raccontiamo una cultura mediterranea dove gli uomini hanno più contatto fisico tra di loro, corrono a torso nudo insieme sulla spiaggia ecc…in questo video non c’era l’intenzione di raccontare l’omosessualità, ma se le persone la percepiscono e si riconoscono, tanto meglio!
J: Abbiamo voluto parlare dell’amore con l’A maiuscola, non è importante l’orientamento sessuale. Quello che cerchiamo di fare nei clip è rimanere leggermente astratti così da lasciare libero il pubblico di interpretare la storia, in “Territory “c’è anche chi ci ha visto un uomo che torna dalla famiglia dopo anni di prigione. La realtà è che non c’è un vero messaggio, solo emozioni.
Con i clip create le stesse condizioni che con la musica, dando la possibilità di spaziare con la mente…
J: Sì ed è per questo che usiamo un linguaggio abbastanza universale, o almeno è ciò che proviamo a fare. “Virile” è stato girato in una periferia di Bruxelles ma potrebbe essere una periferia qualsiasi di una grande metropoli come Londra o Parigi ecc…Anche “Heaven” che è stato girato sotto un albero, potrebbe esser in qualunque luogo della terra. Per noi è importante rimanere vaghi e universali.
Come gestite i ruoli durante il processo di creazione?
G: Cerchiamo di lavorare il più possibile insieme, sia alla musica che ai video. Li scriviamo, dirigiamo e componiamo insieme, poi è naturale che a livello tecnico ognuno abbia più competenze nel suo campo, la cosa è molto stimolante perché ci scambiamo le nostre conoscenze imparando sempre l’uno dall’altro arricchendoci a vicenda.
Come avete concepito il vostro live e perché?
G: In questo caso è stato il nostro manager Manu Barron, che è anche il nostro direttore artistico, ad avere avuto l’idea della scatola che si apre, dei due schermi ecc… poi è LiveNation che ha realizzato il tutto.
Cosa potete dire del nuovo album?
G: E’ difficile dire qualcosa sul nuovo album visto che è ancora troppo fresco, ci abbiamo messo tutto ciò che abbiamo e ora attendiamo le reazioni del pubblico perché, per me, è molto difficile avere uno sguardo obbiettivo in questa fase. Comunque siamo soddisfatti del risultato.
J: Il fatto è che con The Blaze le cose sono accadute in maniera talmente rapida e intensa che ne siamo storditi e ora siamo già proiettati verso il prossimo progetto, tanto che in questo momento non riusciamo a dire qualcosa sull’album, speriamo solo che il pubblico lo apprezzi.
G: Ci è mancato il tempo materiale per fermarci a riflettere su tutto ciò che ci sta accadendo da un anno a questa parte, considerato che tutto arriva molto velocemente, non abbiamo il tempo di metabolizzarlo e questo aspetto è abbastanza duro. Abbiamo suonato al Coachella dopo aver fatto uscire solo un EP con cinque pezzi e ora, con l’uscita dell’album, partiamo in tour negli Stati Uniti e poi di seguito in Europa, quindi nuovamente non avremo il tempo di fermarci a riflettere e capire.
J: Il lato positivo di tutto ciò è che ci fa rimanere coi piedi per terra, non ci stiamo veramente rendendo conto di tutto quello che ci sta accadendo e quindi non ci montiamo neanche la testa.
E perché questo titolo?
G: In realtà non ha niente a che vedere con la dancehall reggae, serve più ad evocare i luoghi dove le persone si ritrovano per ballare, tipo le balere, o per mostrarsi nuovi passi di danza nelle periferie o nei vecchi edifici, lo scopo è quello di ridare al ballo uno scopo sociale e umano.
Cosa vorreste dire al vostro pubblico italiano? Quando vi potremmo vedere in concerto anche nello Stivale?
J: Tanto per cominciare gli chiediamo che ci invitino a suonare, perché noi verremmo super volentieri!
G: Sì, aspettiamo impazientemente quel giorno, siamo stati ormai in quasi tutta Europa ma l’Italia ci manca proprio.
J: Speriamo che, dopo l’uscita di quest’articolo, si muoveranno le cose anche da voi!!!