Alessandro Cortini era “l’italiano che stava nei Nine Inch Nails” (…e basterebbe questo). Ma da qualche anno, con sempre più decisione, Alessandro Cortini viaggia da solo ed è una voce sempre più riconoscibile ed affascinante nel panorama della musica elettronica contemporanea – quella più eterea, più legata al “respiro” dei synth. Già “Avanti” uscito qualche anno fa e che ci aveva permesso di fare questa bella chiacchierata era stato un gioiello; ma con “Volume Massimo”, in uscita in questi giorni su Mute (ehi, la label dei Depeche Mode, o del Moby dei tempi d’oro, o ora di Apparat…), ha veramente tirato fuori un piccolo capolavoro di bellezza ed intensità. Uno dei dischi preferiti del 2019 per tutta la redazione di Soundwall. Obbligatorio allora tornare a scambiare un po’ di parole e pensieri, con lui, anche perché a breve – tra pochi giorni – sarà uno degli headliner dell’edizione 2019 di roBOt Festival, che quest’anno mette in campo una line up davvero di alto e sofisticato spessore. In più, Alessandro è persona di rara cortesia, intelligenza, umiltà. Assomiglia alla musica che fa: e nel suo caso, è davvero il migliore dei complimenti.
Allora, aspetta, prima di tutto, ho perso il conto: dove sei ora? A Los Angeles o da altre parti?
Berlino, Berlino. Ormai è la mia nuova città, per me e mia moglie. Già da due anni…
Ah, allora l’hai fatto! Perché l’altra volta che ci siamo visti, nel backstage di un concerto a Verona, mi ricordo che era ancora un semplice progetto per voi questo trasferimento, non una certezza acquisita… anche se stava proprio per succedere, anzi, tempo che poi ti intervistammo poco dopo forse eri già sotto la Porta di Brandeburgo.
Sì, ora siamo berlinesi! Chiaramente io per lavoro vado e vengo ancora abbastanza spesso con l’America, ma ora sono di nuovo europeo, finalmente…
Bello questo “finalmente”, direi che significa un sacco di cose.
Non che ci fosse niente di male nel vivere negli Stati Uniti, attenzione; però ecco, dopo vent’anni di là, soprattutto dopo vent’anni a Los Angeles… diciamo che ci sono diversi motivi per essere contenti del ritorno in Europa. Prima di tutto, L.A. è veramente una città difficile dal punto di vista umano: i contatti sono veramente pochi, alla fine passi gran parte del tuo tempo in macchina o a casa tua. Nel momento in cui abbiamo iniziato a venire abbastanza spesso in Europa, e a Berlino in particolare come nel caso dell’Atonal, mi sono reso conto che c’erano davvero davanti aspetti della vita banalmente giornaliera all’europea che stando a Los Angeles non mi erano più accessibili e che stavano iniziando a mancarmi. Quando mi sono trasferito in California avevo un’altra età ed ero molto focalizzato sul lavoro; ora, col passare del tempo, riscopro l’importanza di pianificare cose della tua esistenza che siano in relazione non solo con la carriera e la produttività ma che siano anche, in qualche modo, più ad ampio raggio, più per un benessere diffuso in quello che fai e come lo fai. Poi sai, a Berlino è molto più facile non solo trovarsi in giro con gli amici ma anche avere accesso all’arte e a un certo tipo di intrattenimento ben specifico di mio gusto che a Los Angeles, invece, devi andare a cercare con una certa fatica e non è certo immediato, costa parecchi sforzi riuscire a trovarlo. Aggiungiamo – e volendo è un discorso collegato – che negli ultimi cinque, sei anni ho iniziato a fare un tipo di musica che è decisamente meglio recepito in Europa che in America, e il quadro è completo. Anche solo per il fatto che ora posso fare i concerti nel weekend, prendere un volo di una o due ore ed essere di nuovo a casa per la domenica. In America, no: per motivi logistici dovevi sempre organizzare dei veri e proprio tour mettendo in fila le date e stando assente per giorni e settimane da casa tua… anche perché per un certo tipo di proposta artistica l’infrastruttura negli Stati Uniti è ancora molto limitata, quel poco che c’è lo devi cogliere e concentrare in poco tempo, e spostarsi altrove richiede appunto un certo tipo di pianificazione.
Comunque ci hai preso gusto vedo a fare la “tua” musica: dall’uscita dell’album precedente, “Avanti”, di tempo ne è passato abbastanza poco. Sono due album in poco tempo. E in più, se “Avanti” poteva sembrare più una specie di primo “esperimento” per vedere l’effetto-che-fa, e comunque oltre alla parte musicale era molto importante nel progetto anche la componente visuale che si prendeva grande spazio nell’economia del progetto, mi pare che “Volume Massimo” sia invece uno statement molto forte, molto deciso, molto sicuro di sé.
Grazie, mi fa piacere che tu la veda così. Io faccio fatica a parlarne, e a descrivere per bene quanto faccio: ma non perché non ci dia peso o non rifletta su quello che creo, quanto piuttosto perché quando lavoro non ho già in mente il risultato finale, quello è solo la conseguenza fisiologica di un lavoro che viene, invece, costruito mattone dopo mattone… è su quello che mi concentro. Prendi “Avanti”: anche in quel caso, il disco è venuto fuori come è venuto fuori non perché l’avessi deciso io a tavolino prima di iniziare a lavorarci sopra. Io ho iniziato a dare forma al tutto, senza schemi; poi, alla fine, è diventato un disco con una direzione precisa, direzione di cui sono ancora oggi molto soddisfatto, direzione che parla molto delle mie origini, della mia famiglia. Ma io mi sono limitato a radunare via via le idee che mi nascevano davanti e, ad un certo punto, ho visto che avevano una coerenza interna, ho visto che creavano un certo tipo di discorso: lì il tutto ha preso forma come progetto specifico. E questo vale anche per il lato visuale di “Avanti”: siamo partiti da spunti anche un po’ vaghi che poi però, collaborando strettamente con mia moglie Emilie, sono diventati sempre più precisi, fino a trasformarsi in quello che voi tutti avete potuto vedere nei miei show dal vivo degli ultimi anni.
Tra l’altro, non so se sono io che mi sono auto-suggestionato – potrebbe anche essere – ma mi pare che col fatto che “Volume Massimo” esce su Mute ci ritrovo tutta una serie di elementi che sono stati peculiari per questa etichetta quando ha iniziato a diventare davvero iconica, ovvero negli anni ’80: un’elettronica raffinata ed essenziale ma pure capace di momenti epici… “Volume Massimo” mi pare un disco molto più deciso ed “affermativo” rispetto ad “Avanti”.
Curioso: perché la stessa cosa mi è stata chiesta qualche giorno fa da un giornalista giapponese. In effetti è vero, in “Volume Massimo” la personalità melodica è molto più rafforzata, fino quasi ad avere dei passaggi maestosi, da inno. Ma tutto questo nasce da una circostanza molto semplice: inizialmente il materiale di “Volume Massimo” poteva essere una continuazione del percorso iniziato con “Avanti”, solo che ad un certo punto ho iniziato a sentire l’esigenza di sostenere ancora di più la forza, l’impatto emotivo di certi passaggi aggiungendo più strumenti, e non lavorando solo per sottrazione come in passato. Il risultato pratico è che se c’è una melodia o un tema che già di loro hanno un contenuto emotivo abbastanza pronunciato, in “Volume Massimo” vengono ulteriormente enfatizzati dall’aggiunta successiva di vari elementi in sede di registrazione. A parte questo discorso più tecnico, essendo cresciuto negli anni ’80 con un certo tipo di background e legato a un certo tipo di scena in effetti credo sia giusto quello che sostieni, perché è inevitabile che ci sia stato un determinato tipo di influenza – influenza di un periodo storico dove nella musica la melodia aveva caratteristiche ben precise. Anzi, fammi dire che è un peccato che gli anni ’80 vengano tirati fuori nei revival concentrandosi più su questioni di suono, colore, arrangiamento – che è un po’ solo la “superficie” delle cose – e non si dia invece la giusta attenzione al grande lavoro melodico che è stato fatto in quegli anni, non solo nel pop ma anche in molti altri generi legati a quel decennio.
Sono d’accordo al cento per cento.
Ci si concentra molto sulla strumentazione, sui sintetizzatori vintage eccetera, e va benissimo, sono sonorità bellissime e molto valide ancora oggi, ci sta siano oggetto di revival e vengano riutilizzato di nuovo parecchio, ma mi pare che invece per quanto riguarda la melodie d’impatto, “decise”, ci sia una certa paura nel tornare a riapprocciarle. Io sono cresciuto guardando film tipo “Momenti di gloria”, ti ricordi la sonora com’è?
Bella epica.
Esatto. Ma guarda, anche pure “Top Gun”, facciamo pure degli esempi più “bassi”… C’era un sacco di musica, in quel decennio, che si basava parecchio su una melodia semplice e comunicativa ma al tempo stesso dalla personalità molto forte. E in realtà non scontata. E’ molto probabile che, in effetti, questo aspetto abbia giocato un ruolo nel far venire fuori “Volume Massimo” così come è venuto fuori. Poi, io resto sempre un artista legato alla sperimentazione, ovvio, ma questa componente nel fare questo disco penso che in effetti non sia mancata.
(Un album davvero bellissimo, uno dei nostri album dell’anno; continua sotto)
Ecco, questo è uno spunto notevole. E ti chiedo allora: hai l’impressione che ogni tanto la scena più di nicchia e sperimentale finisca col rinchiudersi in se stessa, senza volersi mai confrontare con l’”esterno”, impigrendosi così artisticamente?
In generale, non credo esista una maniera “giusta” o “sbagliata” di approcciare la creazione musicale. Sia essa sperimentale, o pop. Poi sai cosa, credo che quando ti ritrovi in un gruppo dove ti trovi bene, dove ti senti a tuo agio e dove c’è anche un collante ulteriore come l’essere “scena musicale” o comunque il sentirsene parte, è difficile che tu ti metta ad andare in una direzione contraria dando ascolto a tue interne esigenze creative e buttando a mare tutto il resto. Io l’ho fatto, ma non lo dico perché così mi sento superiore o migliore di altri. Il punto è che ogni volta che provo ad agire con razionalità, a fare la cosa più “logica”, alla fine non sono soddisfatto dell’output finale, lo trovo decisamente non all’altezza. Quindi soprattutto da quando stanno uscendo album a mio nome, cioè a partire da “Sonno e risveglio”, cerco di fare essenzialmente le cose che in quel preciso momento mi rappresentano, mi piacciono, mi fanno stare bene: cose che riescano a farmi stare meglio di come stavo prima che iniziassi a farle e a dar loro luce. Non penso all’etichetta, non penso alla casella di genere in cui potrebbero venire incluse, e questo se vuoi è abbastanza irresponsabile: perché dovrei stare più attento a costruirmi un presente e un futuro, no? Poi però vedo che proprio da quando ho deciso di agire in questa maniera “sconveniente” le cose hanno iniziato ad andare bene come non mai. “Avanti” è andato benissimo, sono stato chiamato a suonarlo in giro per tre anni buoni; e pure i primi feedback su “Volume Massimo” sono piuttosto buoni. La gente deve aver capito che c’è molta sincerità in quello che faccio. Cambia magari la grammatica, da disco a disco, ma sono sempre io.
Abitando ora a Berlino, ti capita di vederti in giro altri musicisti? Lì è davvero pieno…
Mah, sì e no. Ci sono alcuni buoni amici qui, certo, e con loro ci si incontra e si parla un sacco di strumenti ed equipaggiamento da studio – che sorpresa, vero? (ride, NdI) Però io di mio sono molto un eremita: e proprio per questo infatti sono contento di stare a Berlino, perché a Berlino non rischi mai di diventare troppo eremita, è una città molto facile, accessibile, ci sono sempre cose da fare, una mostra d’arte, un museo, un concerto, un parco da andare a vedere, un posto da andare ad esplorare in bici; un eccesso di eremitaggio può sfociare nella depressione e nell’ossessione, qui questo rischio è appunto facile da evitare. Se senti che la negatività sta prendendo possesso di te, hai mille modi per bloccare il circolo vizioso e rigenerarti. Da quando sono a Berlino, cerco di essere più sociale e più socievole – e mi pare che la cosa funzioni. Lingua tedesca a parte, lei è ancora un ostacolo, ma ci sta, ho passato gli ultimi vent’anni negli Stati Uniti a parlare inglese, un po’ di assestamento ci sta.
Sì, il tedesco non è proprio la lingua più semplice del mondo.
Vero, ma stando a Berlino questo è un problema minore.
In effetti, parlano quasi tutti inglese se necessario.
Esatto. Questa città è un insieme di cultura, un misto, e io sono un grande sostenitore del fatto che la forza e la ricchezza di una nazione o di una città si basano sulla maturità nel saper aprire i confini e nel far sì che diverse culture portino le loro influenze: questo rafforza la cultura di un luogo, invece di indebolirla. Ma mi rendo conto che questo è un discorso che oggi, in questi nostri tempi, è impopolare.
Senti, tocca farti la domanda finale, lo schedule promozionale è impietoso, anche se resterei qui a parlare con te delle ore… Allora: un tempo il musicista faceva il musicista, se era fortunato trovava un’etichetta che lo metteva sotto contratto e se questo accadeva allora ci pensava l’etichetta stessa a fare tutto il necessario dal punto di vista pratico. Oggi questi passaggi “obbligati” sono venuti a cadere, uno può essere il discografico di se stesso – o comunque gestire in prima persona tutta una serie di aspetti correlati all’essere musicista. La domanda è: quanto è rischioso per un musicista oggi essere così più vicino a tutta una serie di aspetti pratici di business? Rischia di essere una distrazione rispetto alla musica, rispetto alla purezza del processo creativo, una forma di “inquinamento”? O, al contrario, è la grande opportunità di avere un controllo integrale su ciò che si fa, senza condizionamenti, senza compromessi?
Nel modo vecchio di fare le cose c’erano oggettivamente dei problemi, delle difficoltà: tu firmavi, e venivi davvero espropriato dalla possibilità di avere il controllo su tutta una serie di aspetti. Vero. Aggiungo: oggi, se sei in grado di approcciare con un minimo di maturità e consapevolezza gli aspetti legati al marketing e alla promozione e di trasformarli magari in parte integrante del processo creativo a cui stai dando vita, puoi ritrovarti in una situazione molto fertile, molto interessante. Ma fare tutto da solo può anche portarti a perdere qualcosa, e lo sto vedendo io ora: uscire per una label come la Mute è davvero una bella esperienza, per me. Mi sta permettendo di conoscere certe dinamiche e certi metodi portati avanti che lavorano nel settore discografico da una vita.
Insomma, stai imparando da loro.
Assolutamente. Aggiungi a questo il fatto che loro comunque sono molto aperti al dialogo: non è un problema per loro che io ogni tanto dica che certe cose per me sono fondamentali anche se loro inizialmente non le hanno considerate, e al tempo stesso sono molto pazienti nello spiegarmi perché certe cose funzionano, sono efficaci e anzi proprio necessarie. Per me da sempre il modo migliore per approcciarsi a qualsiasi tipo di situazione è quello di farlo con un buon bagaglio di umiltà: quella che ti porta ad essere pronto ad ascoltare e ad imparare. Quindi sì, posso anche dire “Questa cosa voglio che venga fatta così, Mute o non Mute”, ma contemporaneamente c’è in me una grande voglia di dare ascolto alle loro conoscenze e alla loro esperienza, perché sono sicuro che possano farmi capire ed imparare cose che prima da solo non avrei né capito né imparato. Tutto questo è una grande ricchezza. Ed è un traguardo in sé. Perché la musica dev’essere un percorso fatto di tappe, scoperte e sorprese, non invece un obiettivo finale a cui giungere, e se poi non giungi inizi a vivertela male, ad essere frustrato.
Ha collaborato Giulia Matteagi
(foto di Emilie Elizabeth)