“Comincio a vedere la nuova Italia. Nella politica non la vedo. Ma da altre parti sì, a partire dalle robe che ci riguardano, dal clubbing. Ragazzi che si mettono insieme, che si organizzano, che collaborano. Creano gruppi. Creano community. Serate come Fragola, Hund… Hanno capito che, se ti organizzi e ti unisci, le cose le fai funzionare, e bene. Incredibile ma vero”. Questa lunga, lunghissima e bellissima chiacchierata con Alex Neri è avvenuta prima delle elezioni. Deciderete voi se queste ultime hanno fatto intravedere una “nuova Italia” o se saremo sempre nelle solite paludi, ma su tutte le faccende di clubbing il parere di Alex Neri vale più di quello di una persona qualsiasi. Per i suoi vent’anni e passa di esperienza. Per le mille cose che ha vissuto, nel bene e nel male. Per le mille cose che ha fatto, nel bene e nel male (e lui il male non lo nasconde). Per il Tenax, che lui ha “costruito” assieme ai suoi soci così come lo vediamo adesso. Per i Planet Funk, atipica creatura dance-pop di cui lui è uno dei fondatori. Per il fatto che ad un certo punto il deejaying italiano sembrava retto sempre e solo da una sacra triade: lui, Ralf, Coccoluto. Di questo e di molto altro ancora si parla – senza risparmiare nulla e nessuno, né Garnier, né Troxler, né molti dei meccanismi che governano la club culture italiana oggi. E allora dicevamo: “Se ti organizzi e ti unisci, le cose le fai funzionare, e bene”…
Qual è l’errore fondamentale da evitare? Intendo: quando ti metti a lavorare nel campo del clubbing. Ma in realtà, non solo in quello. Perché certi principi valgono anche nella vita, nel nostro modo di stare al mondo.
Il problema da evitare è sempre quello: l’ego. L’ego dei singoli, ma anche l’ego dei gruppi – tipo quando un gruppo comincia a sentirsi troppo più bravo degli altri.
Ah be’. L’ego. Nel nostro mondo, quello del clubbing, figurati: come fa a non esserci? In fin dei conti noi abbiamo a che fare con una faccenda legata all’edonismo, e l’edonismo, lo stare euforicamente bene è spesso strettamente collegato a, come dire?, una grande fiducia in se stessi…
Verissimo. Resta il fatto: l’ego distrugge tutto. Tra i gruppi in competizione fra loro, così come all’interno dei gruppi stessi. Sai, bisognerebbe capire che in un gruppo, per forze di cose, c’è sempre qualcuno che è più illuminato, che ha insomma più carisma. E’ normale, punto. Il segreto è da un lato quando il gruppo capisce che quelli con più carisma sono indispensabili, dall’altro quando quelli con più carisma capiscono che tutti i membri del gruppo a cui si appartiene, anche quelli apparentemente meno utili, sono indispensabili. Siamo tutti un meccanismo interdipendente, ogni elemento è diverso, ma ogni elemento è funzionale all’altro. Vuoi un esempio? I tedeschi. Loro questa cosa l’hanno capita perfettamente. Hanno capito perfettamente quanto è fondamentale fare gruppo. Che poi, credi: prova a metterli insieme, tre di loro – sono delle vipere…. se vai oltre l’educazione e le doverose pubbliche relazioni, si sparlano a vicenda peggio di noi, sono dei gossipari totali. Loro però sono abituati, in modo quasi ingegneristico, a far parte di una macchina, una macchina in cui tutti gli elementi sono fondamentali l’uno per l’altro. E quindi c’è il senso del gruppo, dell’aiuto reciproco, o almeno del “non rompo i coglioni a te, perché so che se lo faccio allora faccio prima di tutto del male a me”. Loro questa cosa l’hanno capita.
Noi no, eh?
Qualcuno l’ha capita. Le realtà che ti citavo sopra, altre cose viste a Milano, a Roma. Dobbiamo però tutti tornare a ricordarci che il mondo del clubbing, ovvero ciò che accade di notte, era prima di tutto questione di rompere schemi prestabiliti. Negli anni ’80 e nei primi anni ’90 questo è successo: si sono rotti degli schemi, si sono create cose nuove, anche a costo di andare alla ricerca di scontri, di disarmonie, di rischi. Guarda pure alla musica: le cose nuove più interessanti nascono proprio dalla contaminazione, quindi dalla combinazione e collaborazione di diversi elementi. Questi sono i due aspetti che dovremmo sempre tenere a mente, e che troppo spesso dimentichiamo: rompere gli schemi da un lato, collaborare dall’altro.
Vorrei però tornare un attimo sulla questione dell’ego: sinceramente, ci sono stati momenti in cui ne sei stato vittima anche tu?
Oh sì, assolutamente. Per capire bene quanto è una cazzata farsi sopraffare dall’ego, devi passarci pure tu, è inevitabile. Ho avuto dei momenti in cui il successo mi ha dato alla testa, eccome. Io di base sarei e sono una persona molto umile, ma non ho problemi a dire che ci sono stati dei momenti in cui mi sono sentito troppo pieno di me. Troppo. Per fortuna sono riuscito, dopo poco tempo, a rendermene conto. E a darci un taglio. Con delle azioni ben precise, non solo a parole.
Tipo?
Parliamo di lavoro, parliamo del mio lavoro di dj? Ecco. Cocoricò, pista grande, 5000 ragazzini di fronte a me; all’improvviso mi sono guardato dentro e mi sono detto “No, non sono soddisfatto”. Avevo lì accanto il mio Federico: “Non ci siamo”, gli ho detto scuotendo la testa… Lui mi ha guardato strabuzzando gli occhi come a dire “Ma sei scemo? Che diavolo stai dicendo? Guarda il delirio di fronte a te!”. Io invece proprio in quel preciso istante ho capito che dovevo dare un taglio a un certo tipo di percorso per iniziarne invece un altro, fatto di club più piccoli, di numeri più bassi.
Avere davanti 5000 persone e non 500 stava facendo del male a te come artista? Mi stai dicendo questo?
Sì. Al di là di tutte le cazzate che colleghi e clubber vari possono dire, se hai 5000 persone davanti stai tranquillo che almeno l’80% non ha la minima idea di quello che stai suonando, è lì solo perché vuole vivere un’emozione. Quando hai davanti 5000 persone, è normale che tu diventi un dj di massa: perché quello che hai davanti è massa, ed è con lei che stai interagendo. Semplice così. Devi scendere a compromessi. Ecco, io di quel tipo di compromessi mi ero improvvisamente stancato. Ci sono stati, sia chiaro, periodi in cui invece quel suono lì, per le grandi arene, mi andava benissimo: perché sì, perché ero stufo di certe nicchie, perché volevo lavorare in grande, eccetera. Ma la pura verità è che l’unico che non scende a compromessi in certi contesti è Ricardo Villalobos. Può avere davanti anche 8000 persone lui, ma non gliene frega un cazzo: suona quello che vuole, come vuole. Per questo, oh, si è preso anche dei gran fischi. E l’ho visto svuotare parecchie piste. Tra l’altro non è che sia d’accordo con questo suo approccio: se suoni davanti a 8000 persone devi tenerne conto, perché il tuo compito è accontentarli, farli star bene, fargli passare una bella serata; se non lo fai, vuol dire che stai mettendo te stesso davanti a loro. E non è giusto. Ecco: per evitare di ritrovarmi in questa trappola, in questa situazione in cui qualunque cosa tu faccia sbagli, sono tornato a suonare in club medio-piccoli. Dove mi sento più a mio agio. Dove posso vedere e salutare le persone quasi una per una.
Hai mai invece l’impressione che stai diventando vecchio, che ti stanno sfuggendo delle cose, dei suoni, del meccanismi? Tipo: “Il suono sta cambiando e io non me ne sto accorgendo, accidenti”. In fondo ormai sono tantissimi anni che sei in consolle…
No. Assolutamente no. Prima appunto c’era stato un periodo in cui volevo fare un suono meno ricercato, più adatto alla massa, più electro, più festoso, anche più comodo perché quando segui la corrente è molto più facile stare a galla, poi un giorno – dopo una mia serata ad Ibiza – mi sono imbattuto in un set dei Wighnomy Brothers. Oh, mi hanno aperto un mondo. Un mondo che evidentemente prima mi era completamente sfuggito – e sai perché?, perché mi ero fatto abbagliare dall’ego e non riuscivo ad andare al di là di esso, non vedevo nient’altro oltre a quello.
Eh caspita, i Wighnomy. Se vuoi il mio parere, loro sono stati fra i pochi a fare minimal veramente interessante. Una minimal che invece spesso e volentieri è stata semplicemente un parcheggio per gente priva di idee, soprattutto da un certo momento in poi.
Giusto. Ti do completamente ragione. Punto. Niente da dire, è come dici te, la minimal ad un certo punto è diventata per lo più il nulla. Ma loro no, loro mescolavano la minimal con funk e jazz in un modo assurdo, lo facevano anche quando tutto attorno era solo piattume e quindi era pure folle e controproducente fare cose che non fossero piattume. Sono impazzito, la prima volta che li ho sentiti. Li ho invitati poi al Tenax, ovviamente: a fine serata abbiamo fatto un after in studio da me… e maledizione, lì ho capito quanto cazzo bevono! Oh, è impossibile stargli dietro! Comunque ecco, quello è stato un incontro musicalmente decisivo. Da lì in poi, non mi è mai più capitato di sentirmi indietro, né mi sta capitando oggi. E’ la critica, al massimo, che decide da un giorno all’altro che tu sei obsoleto. Soprattutto in Italia: più sei famoso, più per forza sei “vecchio”, superato. Dove è scritto? Eh? Credimi, non sto facendo questo discorso solo per tirare l’acqua al mio mulino.
In effetti credo anche io che non sia obbligatorio essere sempre pronti a stare sopra l’ultimo fenomeno, tanto per far vedere che si è sempre aggiornati e sempre sull’onda più cool.
E’ che noi italiani siamo fashion victim.
Solo noi italiani? O tutto il carrozzone del clubbing, con la sua ossessione per il suono del momento?
Secondo me noi italiani siamo fra i peggiori, se non i peggiori. Io negli anni ’90 andavo spesso a Londra, mi confrontavo coi dj stranieri: bene, quando facevo i miei dj set se non mettevo almeno un centinaio di promo inediti non ero contento, ricordo che andavo da Fabietto del Disco Inn prima di partire e gli dicevo “Oh Fabio, vado a Londra, devi darmi tutti i promo migliori, possibilmente quelli che non sono ancora in giro”. Questo ero io. Agli inglesi, di tutto questo, non gliene fregava nulla: facevano il loro set, quello e semplicemente quello. Io da buon italiano cafone li guardavo un po’ schifato e un po’ supponente dicendo “Pfffft, questo io l’ho suonato già due mesi fa, questo addirittura due anni fa”. Cazzo vuol dire? Che idiota che ero: se un disco è bello, è bello. Punto. Anzi. Se si mette a fare una ricerca a ritroso nel tempo per arricchire di contenuti e di espressività il suo set, è ancora meglio.
E’ quello che dovrebbe fare un dj.
Io l’ho capito tardi. Ma l’ho capito. Sì, è quello che dovrebbe fare un dj.
Ma lo stanno capendo i venti, venticinquenni che oggi stanno iniziando a fare i dj?
Sì. Credo di sì. C’è stato un momento, quello nel massimo splendore della minimal, in cui quelli delle generazioni più vecchie, a partire da me, erano tutti da rottamare. Manco era da rivolgerci la parola, a noi vecchi, perché darci anche un minimo di attenzione era da sfigati. Invece, poi ad un certo punto arrivi a capire che pure l’esperienza è importante. Non basta Traktor, per mandare avanti un club. Ora c’è tutta una generazione di ragazzi più giovani che è tornata a cercarci, che vuole avere un confronto con noi, che apprezza il nostro patrimonio di conoscenza e di esperienze. Accettano insomma l’esistenza non solo del nuovo, dell’ultimo fenomeno, ma anche di ciò che è classico. Capiscono che non c’è nulla di male in questo. Perché c’è spazio per tutti. L’importante è mettere cuore e passione.
Insomma, ormai sei un “classico” anche tu. Ma in modo più specifico, come ti definiresti come dj?
E’ difficile, ho vissuto tantissime fasi…
Già. Infatti te lo chiedevo apposta.
Io sono un appassionato di musica. Ho avuto tantissimi eroi, ho amato otto milioni di generi musicali, da ragazzo tutto quello che c’era di nuovo ho provato a prenderlo e ad amarlo. Io però, se devo scegliere una definizione, scelgo quella di “dj house”. Ma ti spiego perché: nel 1987 la house era tutto, ma anche quello che è arrivato dopo per me era e restava house – techno, trip hop, drum’n’bass, 2 step, quello che vuoi… tutti i generi che sono nati e si sono sviluppati sui dancefloor dal 1988 in avanti per me sono house. Perché tutto quello che è sperimentazione, che nasce dalla sperimentazione, è musica house: perché la house di suo nasce come sperimentazione estrema, come rottura degli schemi, come innovazione profonda. Capisco che questa mia impostazione possa suonare strana, semplicistica o superata ad un ragazzo più giovane. Per me la prima techno detroitiana era house. Era cioè house sì, ma vista con la sensibilità detroitiana; esattamente come c’era la techno (o house, appunto) vista con la sensibilità tedesca, inglese, francese, eccetera… Già, perché devi andarci nei posti. Se lo fai, capisci meglio certe sfumature, certe attitudini stilistiche. Noi italiani per dire siamo in fondo sempre stati fra i più festaioli e meno seri: l’italiano oggi magari vuole anche fare il tedesco, tutto serio e impettito come scelte musicali, ma di suo resta essenzialmente un festaiolo…
Ecco, scusa: come mai improvvisamente, nella scelta dei suoni, l’italiano ha voluto giocare a fare il tedesco?
Negli anni ’90 c’era l’Inghilterra, Londra. Oggi c’è Berlino. Città dove c’è fermento, dove si ritrovano diverse nazionalità ed etnie. Una società evoluta, dove la diversità viene subito integrata ed apprezzata. Mica come da noi: abbiamo quattro extracomunitari e ne siamo terrorizzati, guardandoci bene dal volerli integrare… Nulla di strano che ad un certo punto i giovani vogliano scappare. Vogliono andare lì dove ci sono le idee, le intuizioni, le nuove energie. Berlino poi, al contrario di Londra, ti permette anche di sopravvivere con pochi soldi: puoi esprimerti senza doverti per forza vendere, o svendere, al primo offerente. Londra invece è molto esigente, come soldi.
Ed ipercompetitiva.
Sì, e poi i tedeschi sono stati dannatamente bravi nel marketing, non c’è un cazzo da fare. In quello sono dei geni.
Tant’è che appunto hanno colonizzato l’immaginario del clubbing di casa nostra.
Vero, però oggi come oggi sappi che siamo arrivati all’anno zero. Io la vedo così, magari sto prendendo un abbaglio, però ho vent’anni ormai di esperienza nei club e un po’ di sensibilità per capire come vanno le cose l’ho messa su. Siamo all’anno zero, non vale più nulla, è tutto da ricostruire, secondo regole, nomi e suoni nuovi. E non sarà più Germania… anche perché c’hanno preso per il culo già abbastanza. Gente naturalmente brava con le tecnologie e l’elettronica, i tedeschi: e infatti sono quelli che hanno sfruttato al meglio internet. In più, come dicevamo prima, sono bravissimi a fare gruppo, a mettere su un meccanismo perfettamente funzionante. E quello che non potevano avere, alla fine se lo compravano. Vedi le pubbliche relazioni italiane.
Comprate?
Le hanno intortate per bene. Prendi Made In Italy, ad Ibiza, serata che andava eccezionalmente bene: è arrivata Cocoon e si è comprata in pianta stabile tutta i pr. La Terrazza Cocoon l’ha fatta l’Italia. Perché noi siamo bravissimi nelle pubbliche relazioni. Bravissimi. Ma non siamo bravi nell’organizzarci, nel lavorare ordinatamente e seriamente accettando delle direttive di un capo che ti aiuti a progredire sempre di più e ad essere sempre più scupoloso e professionale. O meglio, l’accettiamo questo capo ma solo se è straniero; allora sì, allora ci va bene tutto e rendiamo al meglio. Infatti io l’Italia la affitterei a qualche leader politico straniero per qualche anno, così la rimette a posto… Ma ecco, tornando al clubbing: siamo bravi a far nascere le feste, ma non siamo capaci di farle diventare una cosa seria, ben organizzata. In questo siamo proprio negati.
Guarda, la percezione dall’esterno era che Made In Italy fosse una gran commercialata, ma forse ero io…
No, no: lo era. Era una gran commercialata. Ma non era commerciale la musica che noi mettevamo, attento: era commerciale tutto il resto, ma perché Ibiza è commerciale, assolutamente commerciale e basta. Le uniche eccezioni sono il DC10, che è nato così e morirà così, e l’Underground, un localino che non fa nemmeno i nomi dei dj che suonano in consolle. Ma il resto dell’isola… Space, Pacha, Amnesia: tutta roba profondamente commerciale.
Con prezzi assurdi, roba che spendi se ti va bene 150 euro a serata.
Guarda che per un sacco di tempo questi soldi non finivano mica nelle tasche dei dj, che erano degli sfruttati e basta: a loro andava bene, perché Ibiza ti dava una popolarità che poi rivendevi da altre parti. Ora, ok, forse le cose sono cambiate. Ma vorrei tornare un attimo su Made In Italy: anche a me, prima di entrarci dentro, guardandola da esterno, era una serata che non faceva certo gola. Poi però quando ci sono entrato, soprattutto i primi due anni con Ralf in Terrazza, le cose avevano cominciato a prendere una certa forma, piuttosto interessante. Il problema era tutta l’organizzazione che c’era dietro: fatta di persone che non ascoltavano musica, e che comunque non avevano l’organizzazione che poteva avere, per dire, lo staff del Cocoon. Con un minimo di organizzazione in più e anche con un po’ più di attenzione alla qualità in tutti i suoi aspetti, oggi Made In Italy sarebbe un brand di valore mondiale, ne sono convinto.
Non ti viene voglia di riprenderlo in mano?
Ogni tanto ci penso. Ma non ho più l’energia. Vorrei poi che i miei interlocutori fossero così maturi da venire loro da me, e non viceversa. E dovrebbero venire non solo da me, Ralf e Coccoluto; dovrebbero rivolgersi anche ad Alfieri, Grazzini, Alicante, Silvie Loto, dovrebbero cioè rivolgersi a noi tanto quanto a tutti questi ragazzi giovani e in gamba. Perché loro, i ragazzi, avrebbero comunque bisogno di noi, soprattutto all’inizio, per capire come si fa a far ballare la gente lì. Ibiza ha un suono tutto suo, sai.
Domanda apparentemente antipatica, ma parti dal presupposto che sono comunque due persone che stimo moltissimo: non pensi che Ralf e Coccoluto siano rimasti un po’ vittima del circuito commerciale, ad un certo punto?
Loro sono un po’ più vecchi di me, dei tre io potrei essere il figlio e loro i padri, o i fratelli maggiori. Di solito mi accomunano a loro perché siamo noi tre gli ultimi a essere riusciti a fare qualcosa di grosso, di importante e serio anche come numeri, prima dell’arrivo dei tedeschi. Ma tra me e loro c’è una grandissima differenza, ed è generazionale: loro sono più vecchi di me, all’inizio sono stati abituati a fare da soli, erano isolati, e quindi sono naturalmente accentratori. Io sono arrivato dopo. Io, per dire, quando ho “costruito” un mio club, i giovani li ho fatti suonare; non solo, gli facevo fare le chiusure assieme. Ralf ora a Perugia ha iniziato a farlo pure lui, ok, ma in passato non aveva mai scelto di farlo. Nemmeno con me, per dire: perché quando io sono arrivato al Cocoricò, non ci sono certo arrivato perché mi ci aveva portato Ralf, ma per i meriti che mi ero acquisito da solo. Claudio effettivamente invece con me l’aveva fatto, inizialmente mi aveva teso un po’ la mano, mi ha aiutato; poi però siccome c’erano stati dei problemi con gli Angels Of Love, con cui io lavoravo, non c’è stato più modo di fare cose assieme… ma di lui non posso che dire bene, con me è sempre stato buono – oltre al fatto che è una persona con una bellissima testa. Comunque ecco, in generale, diciamo che noi tre ultimamente abbiamo visioni diverse sulle cose, ci siamo tutti un po’ allontanati. Ma non è un problema. Io, oggi, a quarant’anni, ho bisogno di più dei giovani. Ho bisogno delle loro idee, della loro incoscienza – perché io di mio non le avrei più. Mi fa bene stare con loro, mi dà freschezza, mi fanno scoprire delle tracce che io di mio non avrei mai filato di pezza. Non so se loro prendano qualcosa in cambio da me, la cosa che conta è che di sicuro io prendo molto da loro. Non mi voglio vedere come Gesù, eh: ma cerco di essere aperto, di far crescere le persone. Il brutto è che li cresci e poi magari li perdi, perché poi ti scontri con colossi internazionali che cambiano le regole del gioco.
Chi, fra gli italiani, non ha avuto il successo che meritava?
Andrea Gemolotto. E’ uno dei più grandi talenti che abbiamo in Italia. E non ha ricevuto niente. Un po’ per come è fatto lui, visto che è una testa matta… ma davvero, non ha assolutamente avuto quello che meritava. Nemmeno dalle nuove generazioni, che ora magari potrebbero riparare al torto ma non lo fanno. Con tutto quello che Andrea ha dato: alla scena, a me personalmente… Io facevo chilometri per andarlo a sentire. E tuttora, credimi, è uno dei più grandi. Però non se lo incula nessuno: lo vedo dal fatto che anche oggi nessuno me ne parla, pur con tutta l’attenzione di ritorno che c’è sugli anni ’90. Peccato, peccato davvero: lui all’Italia ha dato tantissimo, è stato uno di quelli che ha sperimentato di più, che ha rivoluzionato. Una specie di Ricardo Villalobos italiano. Mi ricordo al Cocoricò infatti – certe scene… suonava il cazzo che voleva! Robe assurde! Ci penso sempre, a lui. Quando posso cerco anche di tirarlo dentro, eh. Poi però ti scontri con la realtà dei promoter: nessuno vuole rischiare. Nessuno. Piuttosto, ti fanno suonare, che so, un Dj W!ld: e chi cazzo è? Cioè, lo so bene chi è. Ma non mi piace come produttore. Solo che, ecco, me lo trovo sempre in mezzo. Per giochi di agenzie. Col risultato che alla fine non c’è più spazio per far suonare un Gemolotto, che invece avrebbe così tanto ancora da dare e da insegnare; uno che, se è ispirato, ti stacca letteralmente la testa. Tipo dei set fatti solo coi vinili ma perfettamente intonati, ti rendi conto? Roba che vuol dire che per costruirli c’hai messo dietro almeno una settimana di lavoro, mica come oggi che fai tutto lì sul posto coi programmini.
Passando invece ai media, al rapporto che puoi avere con loro: mi ricordo uno dei nostri primi incontri, ero arrivato lì per intervistare i Planet Funk e c’eri, ovviamente, anche tu. All’inizio eri sospettosissimo. Stavi lì, ok, rispondevi pure alle domande, ma avevi lo scetticismo disegnato in faccia.
Era esattamente così. Ma non a caso. Perché l’Italia non è un paese dove la musica è trattata seriamente, soprattutto quando entri nel contesto delle major, del pop, che era ed è quello a cui appartengono i Planet Funk. Quindi, quando ti ritrovi a fare interviste, hai quasi sempre davanti persone preparate alla cazzo di cane che fanno le solite banalissime domande che potrebbero fare a me e ai Planet come a qualsiasi altro musicista indistintamente; non hanno la minima idea di chi sono, di qual è il mio background, di cosa ho fatto in passato, di cosa rappresento oggi, del perché abbia voluto fare un disco come quello dei Planet Funk e del cosa può significare per me questo. Minima. Mi ricordo bene quella serie di interviste in cui ci siamo incontrati e guarda, l’unico a dimostrare di conoscere bene non solo chi fossi ma proprio la materia in generale eri stato tu – e non a caso dopo ci siamo messi a parlare molto, no?
Verissimo.
Ma in generale, oggi i giornalisti di musica scrivono solo perché glielo dicono le case discografiche. E non si impegnano assolutamente a studiare, ad approfondire. Non si impegnano nemmeno a provare ad incularti, te musicista: perché il vero giornalista dovrebbe metterlo in difficoltà, il musicista. Questo dovrebbe fare! Questo significa avere un approccio serio, approfondito; questo significa essere realmente interessati a me come artista. Se vedo che è così, che ti interessa veramente quello che faccio, anche se mi stai mettendo in difficoltà beh io ti do tutto.
Guarda, onestamente credo che pure fra i media specializzati del clubbing sia mancato per troppo tempo questo tipo di giornalismo: troppi articoli che sembravano quasi comunicati stampa, poca voglia di porre realmente critiche e problemi, di “sfidare” gli artisti.
E’ assolutamente così. Forse all’inizio Dj Mag c’ha un po’ provato, ma poi, boh, si sarà scontrato con la realtà dei numeri… Un portale web, probabilmente, ti dà più possibilità di esprimerti liberamente. In Soundwall, e non te lo dico perché ci sei tu qua davanti, ho trovato una preparazione e una passione verso la musica elettronica che mi ha esaltato, che mi ha portato indietro di vent’anni. Quei vent’anni fa in cui c’era la passione, ma magari non la preparazione e la conoscenza diffusa che c’è oggi. Queste sono cose che mi danno fiducia.
Ma invece, quanto ti ha dato fastidio non essere stato mai realmente accreditato da un certo tipo di “intellighenzia” della musica elettronica? Quella che si sente di rappresentare, magari anche a ragione, la parte più di qualità della nostra scena di riferimento?
Vero, non mi hanno mai considerato troppo. Anzi. Ma non mi è mai pesato. Sai, ci sono passato anche io dalla nicchia. La nicchia… quella nicchia di coloro che si reputano i veri esperti… quella nicchia che ogni anno ha un nuovo fenomeno da tirare su, per poi considerarlo bollito e sputtanato sei mesi dopo. Ecco: farsi apprezzare da quella gente lì, a me non me ne è mai fregato un cazzo. Anche perché quello, sai, è un ruolo facilissimo da presidiare: stai lì, apprezzi quello che non apprezza quasi nessuno, te ne vanti. E’ facile. Molto facile. Poi, quando la stessa persona o la stessa musica diventa popolare, non la apprezzi più. Ma questa non è “intellighenzia”, perché non è vera intelligenza. L’intelligenza non è saper criticare quasi tutto, che è una cosa moooolto facile da fare; l’intelligenza è saper ascoltare tutto, saper prendere da tutto. Poi io, personalmente, le critiche le accetto e le ascolto solo da persone che so che mi conoscono davvero artisticamente e di cui stimo l’attitudine. Sai, sentirsi dire “Tu non capisci, tu non sei bravo abbastanza, tu non sei capace” da uno che non vedi mai, e dico mai!, ad una festa per me è come parlare d’aria – non mi incazzo neppure. E’ troppo facile criticare senza conoscere davvero, senza mettersi in gioco, senza andare nei posti, nei luoghi e nei suoni che si criticano. Troppo facile.
Ti stai ponendo il problema di cosa farai tra dieci anni, o vent’anni? Continuerai a fare questa vita?
No no. Io a breve smetterò. Sicuramente a breve smetterò. Ma non perché sia vecchio – questa cosa dei “vecchi” ha rotto il cazzo, sinceramente: vedo infatti stranieri come Carl Cox o Sven che vanno sopra i cinquanta con una carica e una forza ancora intatti, la musica mantiene giovani fino a ottant’anni, se solo lo vuoi. Il mio caso però è diverso: sono io che voglio smettere, perché mi pare di aver vissuto vent’anni importanti, intensi. Io sono un entusiasta, faccio le cose bene solo se sono spinto dall’entusiasmo; se l’entusiasmo non c’è, inutile che pensi di andare avanti solo perché “è il mio lavoro”. Ora devo però ancora capire cosa vorrò fare da grande. Già nel mio essere dj, comunque, le cose sono un po’ cambiate: non suono ovunque, voglio poter scegliere dove esserci e dove no, suonare solo in posti dove mi trovo bene. Dove sono cercato, apprezzato, capito, dove sento che la gente mi vuole bene. Intanto sto facendo questo percorso… poi, si vedrà. Ma già so che non starò ancora a lungo dentro questo mondo del deejaying, me lo sento.
Beh, in una posizione del genere e con sensazioni del genere, non ti viene ora l’ansia di massimizzare i profitti prima di mollare tutto?
No, assolutamente no. Ho l’ansia legittima di mantenere i miei figli, questo sì – qualunque padre mi capirebbe. Ma un’ansia così, di massimizzare i guadagni, non ce l’ho e non ce l’ho mai avuta. Quando ho iniziato a fare questa cosa, eravamo una mandria di disgraziati che non sapeva nemmeno quello che stava facendo e quanto era importante quello che stava facendo. Oh, all’inizio il dj guadagnava tanto quanto un barista: 80.000 lire per una festa. E se non facevi ballare la gente, dopo due minuti arrivava il proprietario del locale a dirti: aria. Vattene a casa. Subito. Ecco, questo dovrebbero capirlo i ragazzi. Oggi che invece il dj può permettersi di arrivare e dire, magari pure disdegnosamente, “Io faccio la mia musica”: se oggi puoi permetterti di comportarti così, come è giusto che sia, è grazie a quelli come me, che hanno abbattuto un sacco di barriere. Non ci fossimo stati noi, che abbiamo cambiato la mentalità dei proprietari dei locali, col cazzo che potevi fare la “tua” musica. Il dj era far ballare la gente, stop.
Qual è oggi il dj che stimi di più?
In Italia, ne parlavamo prima. Di stranieri, ho come mito Dj Harvey. Lui incarna quello a cui ho sempre aspirato: essere eclettici, curiosi, capaci di cambiare.
Sai che lui originariamente era uno che suonava anche nelle band come percussionista? Quando lo conobbi, parliamo di più di quindici anni fa, girava coi Jamiroquai…
Ha suonato pure con noi, con i Planet Funk, durante un concerto ad Ibiza! E’ salito con noi sul palco, perché eravamo diventati amici. Lui è uno dei più grandi dj della storia per me, uno che riesce a mescolare miliardi di generi diversi. Un altro genio è poi Andy Weatherall: uno poco conosciuto dalla massa, ma davvero un dj di livello superiore. Poi, andando invece più nel mainstream, io ho adorato Little Louie Vega: faceva il suo genere, quello e solo quello, ok, ma quanto era bravo… Un altro che mi piaceva molto, ma oggi non più, è Garnier.
Come mai?
E’ diventato un po’ troppo pieno di se stesso. E poi non dà più quello che poteva dare anni fa. Recentemente l’ho sentito un paio di volte, e non m’è piaciuto in modo particolare. Ma sempre tanto di cappello, sia chiaro.
Anche perché lui quando suona oltre alla musica mette sempre in campo un entusiasmo impressionante, un’energia pazzesca, una totale e coinvolgente immedesimazione in quello che suona. Con lo status e l’età che ha, potrebbe permettersi di fare asciuttamente il suo e arrivederci. Invece ci mette sempre tutto se stesso.
Ma guarda, è così per tutti quelli della vecchia scuola, sai? Perché partono da un approccio diverso. Fare il dj, allora, non era l’apparire, la carriera, i soldi. L’ambizione era inesistente: che ambizione potevi avere?! Chi sospettava che il dj sarebbe potuto diventare un ruolo anche solo lontanamente importante? Niente, c’era solo la passione e basta. La pura passione. Oggi invece… Guarda ho visto in giro un po’ di articoli e classifiche sui supposti guadagni dei dj più famosi, boh, è una roba impressionante, senza senso. Che poi, sia chiaro, io non ce l’ho mica con quelli che prendono tutti quei soldi: se glieli danno, vuol dire che è così che oggi va il mondo. Solo che personalmente questo mondo non mi piace e non mi appartiene; quindi, in finale, io me la vivo molto serenamente. Io nella mia carriera ho guadagnato benissimo. Sono anche uno che ogni tanto ha fatto dei compromessi, guadagnando così ancora di più, ma ad un certo punto devi renderti conto che c’è un limite nei compromessi che puoi accettare e nei guadagni che puoi avere. Anche perché devi ricordarti che per stare bene tu, anche economicamente, devono stare bene quelli che ti stanno attorno.
Quali sono gli artisti che, negli anni, hai chiamato al Tenax e che alla prova dei fatti ti hanno un po’ deluso?
Garnier è uno di questi, quando è venuto al Tenax non mi è piaciuto per niente. Ma ti dirò, mi hanno deluso in tantissimi.
Addirittura.
Massì. La triste verità è che oggi la stragrande maggioranza dei dj te li pompano così tanto che poi, quando arrivano, hai veramente tante aspettative. Aspettative quasi regolarmente deluse. O almeno vengono deluse le mie, visto che io ho sentito migliaia di dj nella mia vita e ho almeno, come dire?, le orecchie allenate. Diciamo la verità: di tutti i dj delle ultime generazioni, l’unico che si può davvero definire tale è Villalobos. Tutti gli altri sono, boh?, selettori, intenditori della musica che selezionano, chiamali come vuoi – ma non sono dj, vedi un Seth Troxler, per dire, tanto per citare uno di quelli più idolatrati oggi. Non voglio essere drastico e polemico, ma il dj come lo intendo io oggi non c’è più, finito. Almeno: quel tipo di dj. Quello che c’è oggi è, ecco, un’altra cosa. Prendiamo Troxler, appunto (io i set al Tenax li registro tutti e poi me li riascolto): bei dischi, sì, ma chi oggi non ha dei bei dischi? Però tecnica zero.
Pochi rischi anche, secondo me.
Rischi proprio zero. Loro, i dj delle nuove generazioni, già a venti, venticinque anni sono dentro il compromesso – il compromesso di cui ti parlavo. Ma io a vent’anni non sapevo nemmeno lontanamente cos’era il compromesso, che aspetto aveva, come poteva presentarsi: semplicemente perché non c’era. Io a vent’anni piuttosto facevo parte di quella nicchia, di quella “intellighenzia” di cui parlavamo: quella che criticava, quella che c’aveva il complesso di superiorità, quella che noi siamo gli unici bravi e voi altri siete tutti delle merde. Oggi naturalmente non sono più così, non ho più quella chiusura bigotta; ma per un Troxler, paradossalmente, e per tutti i dj di venti, venticinque anni sarebbe più salutare essere oggi così. Dovrebbero sputare sui compromessi e sulle convenzioni più diffuse…
Anche perché avrebbero i mezzi artistici per farlo.
Dici? Non so, a me sta venendo il dubbio. Sì, i mezzi artistici li avresti, la conoscenza della musica pure: ma allora perché giochi sempre alle regole del gioco? Perché non provi a fare quel passo in più? Posso capire che dopo cinque, dieci anni ti adegui alla routine e pensi semplicemente a fare il tuo; ma oggi, che hai appena iniziato… perché ti adegui così? Perché ti limiti così? Te lo dico io perché: perché sono tutti, consapevolmente o inconsapevolmente, schiavi delle manovre d’agenzia. Agenzie che tirano su alcuni artisti, quelli magari che hanno un po’ più di talento e un po’ più di carisma della media, e poi gli insegnano a diventare solo ed unicamente della macchine da soldi. E’ così che funziona, dovremmo mettercelo in testa – e magari ci passerebbero un po’ di entusiasmi stupidi e superficiali per cose che non sono niente di che. Oggi preferirei sentire Mr. G, uno che fa dischi della madonna e dal vivo è un portento, peccato però che non se lo caghi nessuno. “E chi cazzo è questo Mr. G?”, ti diranno tutti. Poi invece senti invece i nomi hype del momento, e… che delusione, che noia, che banalità.
Insomma, la gente dovrebbe imparare ad essere più selettiva, più critica. E più smaliziata.
Io credo che la gente dovrebbe innanzitutto smetterla di fare fotografie, punto numero uno. Poi smettere di guardare il dj. Il dj si ascolta, lo si balla; non lo si guarda. Dopodiché, a set finito, dovrebbe dare un giudizio: mi sono divertito, mi è piaciuto, non mi è piaciuto. Nel dare un giudizio, dovrebbe confrontarsi col giornalismo, ma intendo il giornalismo serio. E dico confrontarsi, non seguirlo pedissequamente: perché fondamentale mantenere la propria autonomia di giudizio. Oggi invece vedo sempre più spesso le cose andare all’incontrario: questa ansia di fotografare il dj, appunto, pare una cazzata invece è un sintomo rivelatorio. Perché ti fa capire quanto oggi sia più importante il nome, l’aura del dj rispetto a quello che poi suona veramente. Pensaci, è paradossale: il nostro mondo dovrebbe essere radicalmente diverso rispetto al pop, in quanto underground, in quanto movimento che ha spezzato vecchi meccanismi consolidati, invece oggi il pop nei meccanismi e nei contenuti artistici spesso è molto più underground della club culture. Assurdo.
C’è spazio però per essere ottimisti, dai segnali che raccogli in giro?
Sì. Questa cosa dello star system finirà col rompere il cazzo, anzi, lo sta già facendo. La crisi in questo aiuta. La gente sopporta le cose meno facilmente. Quando tu arrivi lì, fai la star, prendi un sacco di soldi, e io invece sono sotto in mezzo alla calca, pressato, tutto sudato, non riesco a vedere, non riesco manco a ballare, probabilmente anche il ragazzino più stupido ed entusiasta comincia a dirsi “Oh, ma chi cazzo sei, ma anche basta”. Finirà lo star system. Ritornerà la voglia di divertirsi. In modo intelligente.