Amsterdam. Interno di un albergo a cinque stelle. Atmosfere ovattate. Ma ritmi da catena di montaggio: siamo all’ADE, c’è tutta l’industria e tutti i media di mezzo mondo presenti, e se un artista vuole prendere seriamente la propria promozione allora deve sottoporsi ad un fuoco di fila terrificante di interviste. Ali Shirazinia, alias Dubfire, è uno serio. Tanto più che si trova in Olanda per presentare il suo nuovo progetto live, “Hybrid”, un ambizioso – e dobbiamo dire molto riuscito – set audio/video in cui cavalca con sicurezza e con rinnovata ispirazione i canoni stilistici minimal in chiave tech-house. Quindi ecco: non nega interviste a nessuno. Ritmi da catena di montaggio. Però con noi per qualche strano motivo – non abbiamo avuto nemmeno il tempo di squadernare quelle due o tre amicizie in comune che potevano aiutare a guadagnare un po’ di fiducia – scatta un’empatia particolare. Lui alla fine si complimenterà per l’intervista, dicendo che è una delle migliori che abbia avuto da tempo a questa parte. Ma il merito non è nostro, nelle nostre domande (che sono alla fine abbastanza ovvie e prevedibili), il merito è tutto nelle sue risposte. Che non sono di circostanza.
Allora Ali, stasera presenti all’ADE “Hybrid”, questo nuovo progetto live anche piuttosto complesso. Preoccupato? Un po’ di paura?
Guarda, un po’ di preoccupazione e di paura ne avevo prima dello show di Budapest, che era una specie di rodaggio per questo show; una volta visto che quello è andato, ed è andato per giunta in modo molto liscio, praticamente senza problemi, mi sono molto tranquillizzato. Perché ho visto davanti a me la conferma totale che ho un grandissimo team di persone attorno a me, assolutamente super. Con loro, sono al sicuro; con loro, ho la certezza che lo show data dopo data può solo migliorare, di sicuro non peggiorare. Il problema di presentarlo qui all’ADE è un altro: qui sai che a vederti ci saranno amici, colleghi, soprattutto gente dell’industria musicale – promoter, agenti, eccetera.
Aspetta aspetta, vuoi dirmi che dopo tutto questo tempo e con la posizione che ti sei guadagnato hai ancora paura del giudizio di promoter e agenti? Ma che, veramente?
Non è tanto che mi preoccupi il loro giudizio o le conseguenze che esso può avere, è semplicemente una questione di… come dire… farfalle nello stomaco. Nel senso: so che, con loro in mezzo, comunque ho persone che mi osserveranno e giudicheranno con attenzione. Quindi sarò sotto attento scrutinio, ogni mio gesto e ogni mia scelta lo sarà. Questo non cambia in alcuna maniera il mio modo di fare, ma al tempo stesso so che questo mio modo di fare è sotto sistematica osservazione da parte di persone non banali, non qualsiasi. Un po’ come quando suono ad Ibiza, in serate importanti in cui ci sono anche molti miei colleghi in line up, che poi restano a sentirmi: il loro giudizio per me conta, ci tengo a fare bella figura davanti a loro. Insomma, quello di cui ti sto parlando è una paura positiva: una paura che non ti spinge a cambiare quello che faresti comunque, piuttosto ti spinge a farlo il meglio possibile.
Hai mai avuto la sensazione di trovarti in un punto, diciamo così, morto o almeno incerto della tua carriera? Momenti in cui non sapevi bene che direzione artistica prendere?
No, direi di no. Però ho avuto – quello sì – dei momenti in cui sapevo di essere creativamente in stallo. Ma vedi, in quei momenti ho una consapevolezza che mi salva, e che mi fa ripartire: il sapere di essere uno “schiavo della tecnologia” – la tecnologia ha sempre guidato i miei impulsi creativi. Ha cioè sempre fornito ispirazione: le innovazioni tecnologiche – che seguo sempre con attenzione – mi hanno sempre ispirato ad un certo punto nuove idee, e fatto ripartire quando ero entrato in una fase di stanca sotto l’aspetto creativo. Poi, c’è il mio gusto della collaborazione, del confrontarmi: anche questa è la mia salvezza. Ogni collaborazione mi ha sempre stimolato molta creatività, ogni disco che mi è stato mandato o consigliato da persone di cui mi fido e che conosco da tempo mi ha aperto nuovi orizzonti e ravvivato nuovi entusiasmi. Insomma, sai qual è il punto fondamentale? Farsi circondare sempre da qualcosa che ti spinga verso la creatività. Una creatività a cui non sempre arrivi in modo immediato, non sempre riesci a tradurla subito in qualcosa di concreto; ma, se insisti, prima o poi trovi la chiave. Prima o poi trovi la porta giusta. E questa sfida è bellissima, credimi… Giocarla può essere per certi versi più importante ancora e più soddisfacente del vincerla.
Quando ad un certo punto hai dovuto mettere il “tuo” pubblico di fronte all’evidenza che non eri più Ali dei Deep Dish ma Dubfire, hai dovuto faticare? E’ stato un processo complicato?
Lo è stato, lo è stato, non nascondiamocelo. E’ stato un passaggio molto, molto difficile. Lo sai bene anche tu: la comunità techno può essere molto chiusa (o, diciamo così, “protettiva”): chi arriva da fuori viene spesso visto con scetticismo. Ci sta. Ci sta meno quando questo resta un atteggiamento di chiusura preconcetta e cronica… e succede, va detto, perché ci sono ancora persone per cui io sono e resterò sempre “quello dei Deep Dish” e in funzione di questo non mi verrà mai data una patente di serietà ed autorevolezza, mai!, qualsiasi cosa io possa fare o incidere. Negli anni ho dimostrato di saper fare il mio lavoro, come Dubfire, e di portare rispetto verso la musica? Beh, a loro non importa. Pazienza. Sorrido. E continuo ad avere molta fiducia in quello che faccio. Anche perché so che io ho iniziato a fare musica arrivando dall’underground, e underground è sempre stato il piglio con cui ho approcciato il mio produrre musica; che poi i Deep Dish abbiano avuto un successo tale da venire catapultati, quasi loro malgrado, in contesti commerciali è una cosa che è accaduta al di là del mio controllo e delle mie intenzioni. Io di mio nasco sempre “alternativo”, dal punto di vista dell’indole musicale: lo ero da ragazzino – quando giravo con la cresta – credo di continuare ad esserlo adesso.
In effetti so che i tuoi primissimi ascolti erano punk. D’altro canto arrivi da Washington, la città dei Fugazi, dei Minor Threat… hai detto niente… e so che erano band che amavi.
Esatto! E soprattutto in quegli anni ascoltare quella musica e quei gruppi era una scelta di campo ben precisa, sai? Quindi capisci quanto possa essere frustrante per me, e per certi versi noioso, dover dimostrare la mia credibilità e la purezza delle mie intenzioni a certe persone dentro la comunità techno… Ma pazienza. Persone come Loco Dice e Chris Liebing, che mi conoscono bene e sanno quel è la mia vera attitudine, mi hanno subito dato totale credito e mi hanno aperto un sacco di strade, appoggiandomi totalmente nella mia incarnazione artistica come Dubfire. Questi sono dati di fatto che nessuno può negare, e nessuno mi può togliere.
Però ecco, tornando un attimo indietro: hai tirato fuori tu per primo il termine “underground”. A questo punto ti chiedo: ma possiamo darne una definizione precisa? Sai, ormai è diventata una parola talmente “elastica”, per non dire ambigua…
Molto ambigua, vero. Forse “underground” è un termine che non andrebbe più usato e basta, tanto si sono mischiate le carte. Prendi Marco Carola: se uno conosce un minimo la sua storia, sa benissimo che è sempre stato un producer rigidamente underground. Ora però lui è uno dei re di Ibiza: cosa significa, che non è più underground? Ah sì? Anche se il suo approccio produttivo e da dj è più o meno sempre lo stesso? Attenzione: non voglio fare finta di ignorare che sì, esiste una differenza underground e mainstream – una differenza di pubblico, di gente che ti viene a sentire, di come ti viene a sentire, di come l’industria si rapporta con te e del tipo di supporto che ti dà. La differenza c’è…
…però forse oggi è meno netta?
Posso dirlo? Io credo che uno dei gruppi che più abbia contribuito a renderla meno netta siano stati, a suo tempo, i Deep Dish. Eravamo un gruppo devoto alla deep house, alla musica nei club, che improvvisamente si trovava a remixare Paula Abdul, tanto per dire una delle cose più pop dell’epoca: capisci? Però ecco, io sono cresciuto da ragazzino in un’età in cui l’elettronica erano cose come i Kraftwerk, come i Depeche Mode: progetti che riuscivano ad essere pop da un lato e atipici dall’altro – quindi “underground”, come attitudine – tutto quanto assieme. Ma poi, andando avanti di qualche anno: guarda gente come Masters At Work, Todd Terry, David Morales… chi più underground di loro? Hanno sempre vissuto nel circuito dei club, non del pop mainstream, e a quello si sono sempre dedicati; eppure la loro influenza sull’industria musicale più di consumo è stata enorme, ed è un’influenza che loro hanno portato senza dover cambiare nemmeno un’unghia del loro approccio e del loro modo di fare musica. Insomma, se vuoi la mia: mainstream ed undeground hanno sempre convissuto, ci sono sempre stati dei reciproci vasi comunicanti.
Ma fammi dire: ti sei mai stufato di certe situazioni un po’ troppo “alla Ibiza”? Per intenderci: cose tipo corte dei miracoli in consolle, vippini e vippettini…Dai, ci saranno stati dei momenti in cui avrai trovato tutto questo un po’, come dire?, eccessivo. O inutile. Se non addirittura dannoso.
Dipenda dal posto in cui stai. Diciamoci la verità: a tutti piace essere trattati come dei vip. Chi lo nega, nove volte su dieci mente. E’ bello vedere che tutti ti trattano ti rispetto, ti omaggiano, si dicono al tuo servizio. Quello che mi fa impazzire e che non mi piace per nulla, invece, è quando si creano divisioni all’interno del pubblico. Lì sì che provo fastidio. Quando cioè creano un’area riservata a sedicenti vip o semi-vip e la posizionano più vicino al palco, mentre tutto il resto della folla è tenuto più indietro, solo perché sono persone che hanno pagato di meno o non hanno amicizie abbastanza importanti. Ecco, questo è orribile. Anche perché praticamente sempre la vera festa la trovi proprio fra quelle persone “non vip”. Ecco, lì questo meccanismo pervasivo, che tenta di creare divisioni tra chi è vip e chi non lo è, diventa altamente stupido e dannoso.
Per un attimo ti chiedo di andare dietro con la memoria, e di rivederti com’eri quando avevi sedici, diciotto anni: com’eri, che sogni avevi, che approccio avevi. Fatto? Bene. Ora dimmi quel ragazzino lì quanto è diverso dai sedicenni / diciottenni che invece puoi incontrare oggi.
Avere sedici anni oggi e voler fare qualcosa nella musica è molto ma molto ma molto più difficile, ok? All’apparenza, non lo è: la tecnologia ha reso tutto più facile, hai un accesso prima inimmaginabile a strumenti per fare musica, a idee, stimoli informazioni… Tutto molto bello, sì, peccato che questa cosa abbia saturato il mercato in modo pazzesco. Già per me diventa difficile, oggi, farsi largo in questa giungla dove tutti e tutto possono aver cittadinanza; figurati quanto può esserlo per un ragazzo alle prime armi. La soluzione? Ai ragazzi di oggi che mi chiedono consigli, io dico sempre “E’ ok avere degli idoli a cui ispirarsi e da cui farsi ispirare, ma la priorità resta dare vita a qualcosa di tuo, a qualcosa che rispecchi te e solo te. E’ difficile. Per farlo ci vuole del tempo, molto tempo. Ma è necessario”. Sai, oggi sembra davvero sempre più difficile convincere le persone che è sempre meglio non affrettare i tempi: perché hanno tutti davanti il miraggio di quello che dal nulla, in pochissime mosse, si è ritrovato a girare per il mondo col jet privato. Se è questa la cosa che più ti colpisce, beh, significa che tu in questa faccenda ci sei finito per i motivi sbagliati. Noi, quando abbiamo iniziato, facevamo le cose solo perché amavamo la musica: non ci ponevamo nemmeno il problema di dove volevamo arrivare e cosa avremmo potuto ottenere. La nostra ricompensa non era monetaria o una fama generica; la nostra ricompensa era essere stimati dalla scena più vera, quella più autentica, quella che agisce per cultura e passione.
Ma questa deriva che stiamo vivendo oggi è irreversibile?
Chi lo sa? Perché di tutto questo – a chi devi dare la colpa? E’ colpa del gioco, o del giocatore? E’ colpa di chi accetta e anzi supporta questi nuovi meccanismi, a partire dal pubblico che è il primo artefice di tutto ciò, o è colpa dell’artista che a questi meccanismi si presta e non si oppone? Non credo esista una risposta. O ne esistono troppe.
Fino a che punto tornerete regolarmente in pista come Deep Dish, tu e Sharam? Avete ripreso a fare date assieme. Ma vorrei capire se saranno solo delle cose episodiche, o se si tratta di un ritorno “vero” e continuativo.
Erano già quattro, cinque anni che io e lui parlavamo di come fosse il caso di riprovarci, di tornare a fare cose assieme. Ci sono state molte false partenze, non te lo nascondo. Molte idee che poi abbiamo abortito, preferendo ripartire da capo e buttando nella spazzatura quanto avevamo prodotto, facendo finta non fosse mai esistito. Il primo impulso per tornare a fare cose assieme è arrivato da me, sono io che sono arrivato da Sharam sotterrando l’ascia di guerra: in fondo la storia dei Deep Dish era finita all’improvviso, senza spiegazione, e anche nelle nostre interviste rilasciate poi singolarmente abbiamo sempre accennato e basta ai motivi di questa separazione, senza approfondirli mai veramente. Insomma: non una fine degna e nemmeno una fine ragionevole per un progetto che, se ci pensi bene, ha avuto una importanza enorme, ha cambiato in parte le regole del gioco: perché una minima parte del successo mondiale di act come quelli del giro Swedish House Mafia nasce dal lavoro e dalle strade che abbiamo aperto noi, diciamolo. Quindi, ecco: siamo voluti tornare assieme facendo rivivere il sodalizio Deep Dish perché c’erano ancora dei capitoli da scrivere, fossero anche quelli conclusivi. E volevamo capire tutt’e due se l’aver seguito per anni delle strade separate, dedicandoci solo a se stessi, poteva aver fatto del bene anche alla nostra chimica creativa reciproca, una volta tornati lavorare assieme.
Mi pare di capire che ancora non sai se è veramente così.
No, ancora non lo so, ancora non lo sappiamo. Perché sai qual è la verità? Stiamo ancora imparando a suonare assieme di nuovo. Non abbiamo ancora trovato un equilibrio perfetto, stabile. I promoter ci chiedono: “Ma quindi ora, nel 2014, che suono hanno i Deep Dish?”. Ce lo chiedono i promoter, ce lo chiedono gli agenti, ce lo chiede anche il nostro pubblico… e ce lo chiediamo noi! Ancora non abbiamo trovato una risposta che ci abbia soddisfatto al cento per cento. Ma va bene così. E’ giusto così. E’ come ti accennavo prima: ogni cosa ha il suo tempo, ogni processo creativo ha bisogno di sedimentarsi senza fretta, in modo naturale, e se questo porta via dei mesi o degli anni – beh, allora aspettarai e aspetteranno tutti dei mesi e degli anni, che questo piaccia o no all’industria musicale (e per industria musicale intendo anche il nostro team, il nostro management: non facciamo sconti neanche a loro). Non abbiamo un album pronto. Non abbiamo nemmeno un singolo da mettere in giro. Eppure, abbiamo registrato tonnellate di musica assieme, una quantità sconfinata di demo: ma nulla che dopo attenta riflessione ci abbia convinto pienamente. C’è solo una cosa di cui siamo sicuri: se vogliamo tornare in gioco con nuovo materiale, vogliamo che sia musica in grado di resistere nel tempo. Musica che quindi se ne fotte della moda del momento. Tranquillo: non ci sentirai mai fare EDM…