Prendi un posto di una bellezza maestosa, l’Accademia Tedesca a Roma, negli spazi di Villa Massimo. Prendi una delle label più rispettate in assoluto al mondo nel campo dell’elettronica/techno più “arty” e sperimentale, la Raster-Noton. Metti insieme: avrai l’Electric Campfire, una specie di raduno annuale nato quasi per caso, come ritrovo fra pochi amici e compagni d’etichetta, ma diventato passo dopo passo uno degli eventi europei dell’anno per gli appassionati di musica di un certo tipo. Arriviamo poi noialtri di Soundwall: non solo per goderci la serata e i workshop del giorno prima, ma anche per mettere attorno al registratore due dei fondatori della Raster-Noton, Carsten Nicolai alias Alva Noto ed Olaf Bender alias Byetone, e uno dei suoi artisti più di lungo corso ed atipici, quel Robert Lippok già colonna dei seminali To Rococo Rot. Il risultato? Una chiacchierata lunga lunga e di notevole spessore, dove emergono un sacco di concetti interessanti, di idee forti, di prese di posizioni precise e di tre caratteri molto diversi fra loro. Che però adorano stare e lavorare assieme.
Beh, iniziamo dalla domanda più banale possibile: come nasce questo Electric Campfire? E’ qualcosa di leggermente diverso da un banale “festival di una label”: mi pare di capire che sia al tempo stesso qualcosa di meno e molto di più…
CN: E’ una faccenda che nasce ancora molti anni fa e che soprattutto nasce da un’idea ben precisa: sentivamo davvero il bisogno di creare qualcosa che facesse incontrare tutti gli artisti dell’etichetta (…o insomma, quasi tutti) e che lo facesse in un modo particolare, non convenzionale. Le prime edizioni erano ovviamente nella nostra zona d’origine, a Chemnitz nella ex DDR, dove io e Olaf vivevamo in una grande fattoria… quindi molto spazio a disposizione. Vicino a questa fattoria c’è anche un posto che veniva usato come club – incastro perfetto. Ma il format stabilito era, attenzione: venite, venite tutti, nessuna scaletta predefenita, chi ha voglia di suonare bene, chi invece vuole solo godersi la serata bene lo stesso.
OB: Sentivamo tantissimo l’esigenza di creare un clima che fosse veramente “di famiglia”. Qualcosa che se ci pensi è molto difficile ritrovare in un contesto lavorativo, dove tutto è giocoforza molto preciso, contingentato, scalettato. Considera che già ai tempi dei primi Electric Campfire io avevo già figli, molti dei nostri artisti erano sposati, insomma, eravamo davvero in tanti a masticare la dimensione “famigliare”…
Sin dall’inizio gli Electric Campfire erano aperti anche al pubblico, come adesso, seppure ad inviti?
CN: Sì. C’era una parte diciamo più aperta e libera, tendenzialmente il sabato sera; poi il giorno successivo era una faccenda più intima, tra noi, i rispettivi partner e gli amici più stretti. Un lungo pranzo tutti assieme. Poi il formato si è esteso, fino a quello che puoi vedere qua a Roma. Tutto è nato da una mia residenza d’artista qui a Villa Massimo, su invito direttamente dell’Accademia, una residenza andata talmente bene che siamo rimasti sempre in contatto continuo. Da lì la mia proposta di fare proprio a Roma un Electric Camprire: il primo anno arrivarono centocinquanta persone, e già così eravamo tutti molto contenti…
…mentre quest’anno i 1500 inviti sono andati esauriti in dieci minuti o giù di lì.
CN: Ecco, sì.
Quindi anche l’Electric Campfire è diventato una cosa seria. Ma risalendo alle origini: quando vi siete resi conto che la Raster-Noton sarebbe diventata una realtà così forte e strutturata da essere la vostra vita?
CN: Per me e Olaf era chiaro fin dall’inizio.
OB: No, dai, magari non era così chiaro… Ma sia io che Carsten che Frank (Bretschneider, altro co-fondatore della label, NdI) sapevamo che nella nostra vita non avremmo mai voluto fare un lavoro “normale”. Aprire un’etichetta? Fondare una galleria d’arte? Altro ancora? Le abbiamo provate tutte! Non sapevamo fin dall’inizio che gestire una label sarebbe diventato così importante nelle nostre vite (per la cosa in sé, per le opportunità che ci ha aperto), questo no, quindi sotto questo punto di vista do ragione a Carsten: non abbiamo aperto la Raster-Noton con l’idea, anzi, con la certezza che sarebbe stata la soluzione dei nostri problemi. L’abbiamo aperta e basta: uno dei nostri tanti tentativi per portare avanti una vita che ci piacesse. Però no, non avevamo nessuna garanzia e nessuna convinzione che questo sarebbe stato sufficiente…
Eppure l’avete fatto. Comunque un po’ ci credevate.
CN: Volevamo indipendenza. Volevamo vivere una vita senza la costrizioni sistemiche più classiche. Come riuscirci? Non lo sapevamo bene, e in realtà non lo sappiamo bene nemmeno oggi; ma di sicuro questo è quello che volevamo e che vogliamo ancora oggi, ora che molti anni sono passati. Che poi, onestamente, la label oggi è più un atto d’amore che una impresa commerciale redditizia: a dire le cose come stanno, calcolando il tempo e le risorse che investiamo nella Raster-Noton in confronto a quello che è il ritorno effettivo si potrebbe tranquillamente dire che ci stiamo sfruttando da soli. E’ più quello che diamo che quello che riceviamo. Ma se volessimo strutturare la label secondo criteri di efficienza commerciale, con un planning ben preciso, efficace, ben strategico e ben studiato, sono convinto che falliremmo dopo poco tempo: perché non è la roba nostra. Noi riusciamo ad essere efficaci, ispirati e produttivi solo se ci ritroviamo in un meccanismo che è prima di tutto un atto d’amore, una comunità, una famiglia.
OB: L’asticella della Raster-Noton è sempre stata: sopravvivere. Stop. La sopravvivenza ci vuole, eh – quello è un traguardo ineludibile, una necessità da guardare sempre in faccia, lo standard minimo. Siamo stati fortunati abbastanza da poterci riuscire fino ad oggi, e ormai sono passati vent’anni o giù di lì. Se ci ritroviamo con qualche soldo in più, è scontato che ad andiamo ad investirlo per un altro progetto.
CN: La cosa migliore dell’avere più soldi a disposizione è, semplicemente, che in questo modo possiamo investire in più progetti. Alla fine andiamo sempre in pari. Che di questi tempi è già ottimo, sia chiaro.
Ma sentite il peso delle aspettative, attorno alla Raster-Noton e a ciò che lei sforna? Perché c’è. E’ un’etichetta da cui in qualche modo ci si aspetta sempre standard di un certo tipo e alla quale non concedere passi falsi.
CN: E’ un fattore che non ci interessa.
OB: No dai, non è vero che non ci interessi. Non siamo ciechi, ci rendiamo conto di certe cose: sappiamo che la gente ha un certo tipo di opinione su di noi e, di conseguenza, un certo tipo di aspettative. Il punto però non riguarda tanto la Raster-Noton, riguarda proprio la scena elettronica in generale: quando si iniziò, se ci pensi la musica “nostra” era una faccenda dove la produzione era quasi anonima, i nomi d’arte erano mille e cambiavano di continuo, c’era quasi una gara a non farsi riconoscere. Oggi invece siamo molto più calati in un meccanismo da star system, che richiama gli anni ’70. Non so perché si sia arrivati a questo; ma so che oggi la gente da un determinato dj e producer o da una determinata etichetta vuole delle garanzie, delle rassicurazioni, come se fossero dei brand.
Anche la Raster-Noton lo è diventata, su.
OB: Vero. Ma per noi il punto è sempre stato sopravvivere e farlo in modo indipendente. Nient’altro. Sì: mi rendo conto che in qualche modo anche noi siamo diventati un brand. Ti posso però dire che questo però non è stato mai e poi mai l’obiettivo primario per noi. Certo, c’era e c’è l’orgoglio di fare le cose in modo molto personale, riconoscibile; ma non siamo mai stati, come dire?, “in gara”. Prendi ad esempio la faccenda dei visuals: siamo stati i primi a proporre dei set che erano inderogabilmente sia audio che video, no? Oggi lo fanno in molti, moltissimi; e parecchi di loro hanno dei visuals che oggi sono molto più impattanti e spettacolari dei nostri, hanno lavorato duramente su di loro, questo lo diciamo senza il minimo problema. Il nostro spirito è diverso: introducemmo la parte visuale nei concerti non per stupire e sedurre la gente sempre più, ma per aumentare il grado di intensità sensoriale, fino a raggiungere il livello di esperienza che avevamo in mente per il pubblico. Capisci che in questi due approcci delle differenze di fondo, beh, ci sono.
Olaf, prima hai usato la parola “scena elettronica”: qual è il significato di questa definizione, oggi?
OB: In effetti è un’espressione sempre più polivalente ed ambigua, da quanto le cose sono cresciute.
Voi a che “scena” appartenete?
OB: In generale penso che la Raster-Noton sia sempre stato un po’ un universo a sé. Guarda me, per dire: ho mai fatto parte di una scena specifica e ben codificata? Non credo. Perché io ho bisogno di contrasti: non potrei stare in un contesto dove tutti più o meno seguono una linea predeterminata. Non potrei seguire solo il grande filone techno, o quello dubstep, o quello IDM; ho un viscerale bisogno di combinare. La conseguenza piuttosto salutare di questo atteggiamento è che esco completamente dalle logiche del “questo è in, questo invece ora è out”. La cosa che sinceramente mi lascia un po’ sorpreso è che proprio in una congiuntura come quella attuale, dove le possibilità sono molto accresciute sotto vari punti di vista, la musica che gira attorno tende ad essere abbastanza standardizzata, secondo vari macrofiloni in cui tutto al suo interno un po’ si assomiglia.
CN: Noi non abbiamo mai voluto creare una “scena”. Siamo stati e sempre siamo convinti di lavorare in una nicchia. Raster-Noton ha una specificità importante: è una label portata avanti da artisti, non da discografici. Le nostre scelte vengono operate solo ed esclusivamente da criteri artistici e personali. Questo ci ha dato molta forza, tra l’altro senza che nemmeno ce ne rendessimo conto lì per lì. E’ una cosa di cui ti accorgi a posteriori.
RL: Quando vai in giro e suoni, e lo stai facendo portando in giro del materiale legato a Raster-Noton, un certo tipo di interesse, di aspettative, di responsabilità che ricadono su di te lo senti eccome. La Raster-Noton ha creato un profilo, un immaginario, una rispettibilità, una “attesa di intensità” davvero notevole attorno a sé. L’avverti davvero, questa cosa. Lo senti, che per molti “Raster-Noton” significa davvero qualcosa di speciale. Gente che ha tutti i dischi del catalogo. Gente che anche in mezzo a festival con mille artisti vuole sentire soprattutto te, perché fai parte di quella label. Gente che alla fine dello show sta lì e ti viene a cercare giù dal palco, perché ci tiene tantissimo…
Avete avuto mai il sospetto che la gente venisse ai vostri show solo perché, in qualche modo, faceva “figo” ed era di moda farlo?
CN: Sinceramente credo che non siamo mai stati davvero di moda. Riflettici: per lungo tempo noi eravamo quelli che suonavano nelle sale più sfigate, quelle con la gente più strana e le condizioni tecniche peggiori, ok? Oggi effettivamente ci capita sempre più spesso di essere chiamati sui palchi principali, lì dove c’è la situazione principale del festival – perché i festival negli anni sono cambiati, in questo sono molto migliorati. Però ecco, per arrivare a questo c’è voluto veramente molto. Ma davvero tanto. Abbiamo dovuto sopravvivere per anni e anni in condizioni difficilissime, perché comunque eravamo sempre nella strada più scomoda o giù di lì. Sì, penso che il nostro pregio principale sia stato quello di riuscire a tenere duro, senza derogare niente sulla qualità. Di sicuro, non ci siamo mai sentiti “di moda”.
OB: No però dai, in effetti c’è stato qualche momento in cui…
Insomma, oh, non credo di affermare una cosa assurda se ritengo che oggi uno si riempie anche un po’ la bocca a citare la Raster-Noton, pure se la segue poco e ne conosce in modo limitato il materiale.
OB: E’ vero. Ogni tanto è una cosa che avverto anche io. Ma ci sono due ragioni per cui non siamo mai stati e, credo, mai saremo realmente di moda: la prima è che la nostra musica non è dritta abbastanza! Tutto ciò che è Raster-Noton, chi ci segue lo sa, ha la drammatica mancanza di una caratteristica fondamentale se si vuole raggiungere il grande pubblico: offrire un messaggio chiaro, univoco, semplice. Punto. Seconda ragione, per certi versi correlata alla prima: noi siamo sempre stati molto attenti a sfuggire al momento in cui vieni codificato ed immortalato secondo una categoria ben precisa. Ci siamo andati vicino, ci andremo vicino immagino moltissime altre volte; ma quando sta per succedere, beh, quasi istintivamente facciamo qualcosa che in parte spariglia le carte. Ti faccio un esempio molto concreto: ad un certo punto sembrava fossimo diventati più importanti per la qualità estetica e l’originalità dei nostri packaging che per la musica in sé, hai presente? Il rischio e la tendenza erano: diventare quella cosa per cui finisci esposto nei musei, nelle gallerie d’arte newyorkesi… “No, non vogliamo diventare quella cosa lì!”: ed infatti quello è stato il momento in cui la Raster-Noton, non casualmente, ha iniziato a far uscire cose leggermente più club oriented, volevamo cioè riportare il potenziale di seduzione immediata più verso la musica. Noi siamo così: non vogliamo diventare “troppo” qualcosa di ben definito, di canonizzabile, ecco. Poi se guardi tutto in prospettiva ti viene quasi da sorridere su certe cose: un tempo la nostra scelta di produrre copertine in cui non appariva la faccia dell’artista era considerata quasi folle, un’eccentricità pretenziosa da snob, oggi invece è la regola praticamente anche nel pop, figurati.
CN: Molte delle nostre idee iniziali, quelle che erano un nostro marchio di fabbrica, sono diventate direttamente o indirettamente uno standard piuttosto diffuso. Anche il packaging fuori formato, per dire: quella è una scelta che facevamo fin dall’inizio perché amavamo il design, l’”oggetto” per noi meritava cura tanto quanto il contenuto musicale, amiamo l’idea che un disco nella sua interezza fisica sia visto quasi come un libro d’arte; ma quando tutto questo ha preso ad essere adottato anche dall’industria su larga scala, abbiamo capito che rischiava di essere completamente sfruttato ed inflazionato come approccio, perdendo di importanza, perdendo il suo giusto significato e il suo giusto peso. Altro esempio: i visuals. Sai quante volte abbiamo dovuto litigare coi club, nei primi anni in cui andavamo in giro, “Sì venite a suonare ma non vogliamo i vostri cazzo di visuals, non sappiamo dove metterli, dove proiettarli, e poi non servono, abbiamo già il nostro luciaio”? Un’infinità. Oggi invece non è una sorpresa per nessuno che un dj/producer possa girare con dei propri visuals: è una cosa accettata da tutti. Ci sono voluti dieci, quindici anni però. Non cinque minuti. Noi abbiamo avuto un certo tipo di intuizioni comunque non per caso, perché non siamo mai stati solo interessati alla musica; fra i nostri interessi ci sono sempre stati l’arte, il design, le sperimentazioni scientifiche… Altro punto fondamentale: cercare non di lavorare sui singoli personaggi, ma credere sempre in un’identità collettiva della label come punto di forza primario. Questo è stato decisivo: perché ci ha permesso di costruire passo dopo passo un audience fedele ed appassionata, che non ci seguiva solo perché affascinata lì per lì dall’aura di questo o quell’artista ma perché aveva una fiducia vera in noi, in qualsiasi cosa facessimo. Sono molto ma molto orgoglioso di poter dire che le vendite Raster-Noton di un artista esordiente e semi-sconosciuto si discostano pochissimo da quelle che invece riguardano gli artisti più affermati del catalogo. Veramente in pochi hanno mantenuto questo approccio: a partire dalla Warp, giusto per fare un esempio, che nei suoi primi anni di vita aveva un’identità ben precisa – quella legata diciamo alla raccolta “Artificial Intelligence” – e che invece da un certo momento in poi ha iniziato a far uscire un po’ di tutto.
Beh Robert, quanto è difficile rientrare in questo perimetro stilistico targato Raster-Noton? Tu avevi una tua identità e una tua storia già definita, da musicista, quando ti sei avvicinato alla label.
RL: Oh, non è stato facile per nulla. E’ stata una grande battaglia. Tutto è iniziato, se ricordo bene, quando nel 2001 mi hanno invitato a fare un EP…
CN: In realtà i primi inviti ti erano arrivati già sette anni prima, ma ci avevi snobbato! (risate di tutti, NdI)
RL: Beh, sì, insomma, più o meno, cioè, non precisamente su… (ancora risate, NdI) C’è voluto un po’. Ma ancora oggi sono molto orgoglioso di come è venuto fuori quel primo EP, “Open Close Open”; poi però visto che eravamo tutti soddisfatti m’hanno chiesto di tirare fuori un album e, beh, prima di riuscirci sono passati dieci anni: dieci anni per capire, attraverso tocchi e ritocchi, quale fosse la “voce” giusta per essere sia me stesso che per essere perfettamente coerente col catalogo della label. Che poi attenzione, non è che devi seguire dei canoni predefiniti: anche una cosa completamente diversa rispetto a quello che è il catalogo dell’etichetta, se fatto al momento giusto e nel modo giusto, può infatti essere perfetto. C’è una cosa molto importante da dire: Carsten e Olaf sono due persone meravigliose, che sanno perfettamente come mettere a proprio agio un artista. Nei dieci anni intercorsi prima della consegna di questo album, non mi hanno mai e dico mai messo fretta. “Fai con calma, c’è tempo, non c’è nessuna premura”: questa è la migliore delle piattaforme per poter creare con serenità. Sono pochissime le label che si comportano così.
Cosa vedeva la Raster-Noton in Robert?
OB: Questa è una buona domanda. Il bello è che non ce la siamo mai troppo posti dal punto di vista strettamente artistico, stilistico. L’avessimo fatto, non avremmo avuto probabilmente una risposta chiara. Davvero. Ma era altro a colpirci. Era l’attitudine. L’approccio. Per noi è molto importante vedere nella musica della personalità. Oggi, beh, oggi abbiamo in musica un sacco di gente brava, preparata, altamente professionale, molto competente dal punto di vista tecnico: ma tutto questo in qualche modo è facile da ottenere… basta studiare, no? A noi non basta, o non è così importante; per noi è decisiva la personalità. Ovvero, la capacità di individuare una propria strada, e di perseguirla con coraggio e convinzione. Da un lato sì, la Raster-Noton ha una identità abbastanza definita e riconoscibile; dall’altro mi piace pensare che però ogni artista al suo interno abbia sempre come obiettivo quello di sviluppare una “sua” voce. Caratteristica che deve riguardare tutti? Non scegliere la via più facile. Ecco, quello sì, quello è fondamentale.
CN: Nel caso di Robert va detto che erano anni che seguivamo il suo lavoro. Fin dai suoi esordi. Nulla di strano, i motivi sono molteplici…
OB: …a partire dal fatto che arrivavamo tutti quanto dai territori della ex Germania Est, con quindi un background molto simile.
CN: O anche il fatto che, ad esempio, il primo disco della band cui era forza trainante, i To Rococo Rot, avevano presentato il loro primo disco in una galleria d’arte, e la primissima tiratura del vinile era un picture disc molto bello da vedere: segno che anche per loro, come per noi, c’era l’esigenza di un approccio globale, avvolgente, qualcosa che non si limitasse cioè solo alla musica e alle sue liturgie ed estetiche più classiche. Ma ancora: ad un certo punto Robert fece un’installazione in cui agiva direttamente su dei giradischi modificati, quindi anche questa componente di “intervento manuale creativo” per noi fu una lampadina che si accendeva all’istante. “Sì, questo è il tipo di artista con cui vogliamo collaborare”.
OB: Punto fondamentale numero due: non solo sentire affinità teorica con gli artisti, ma anche incontrarli per davvero ed essere rassicurati sul fatto che l’intesa è anche personale, la si respira a pelle. Vale per gli artisti e, per certi versi, siamo riusciti ad estendere questo principio anche verso il pubblico: vogliamo suonare di fronte ad un pubblico che possiamo sentire “amico”, vicino, con cui abbiamo un rapporto buono e di reciproca stima e conoscenza costruiti nel tempo. E’ sempre stato un aspetto molto importante per noi.
E col pubblico italiano che rapporto c’è, allora? Qualcosa di particolare?
CN: Oh sì, assolutamente sì. Il pubblico italiano è molto aperto, ed è molto entusiasta se apprezza qualcosa. Lo stesso in Giappone; e infatti Italia e Giappone sono i due pesi in cui suoniamo di più e più volentieri. Per qualche motivo, c’è una connessione culturale ed emozionale immediata.
Pubblico italiano molto aperto? Ovviamente mi verrebbe da dirti che è strano, ma si sa, ognuno si lamenta di casa sua e l’erba del vicino è sempre più verde…
CN: Ma è stato così fin dall’inizio, almeno con noi.
RL: Qua avete anche dei festival magnifici, che ci hanno sempre spinto tantissimo, capendo perfettamente quello che facevamo. Penso a Terraforma, ad esempio.
OB: O, andando indietro nel tempo, Dissonanze. Il compianto Giorgio Mortari è stata una delle primissime persone che che ci ha chiamati e fatti sentire importanti, gliene saremo sempre profondamente riconoscenti. Poi comunque all’Italia sono legati molti ricordi forti… penso ad esempio alla mia primissima data qui da voi.
Dove?
OB: A Bologna, in un club molto particolare e grande che ora non c’è più.
Intendi di sicuro il Link. Che c’è ancora, anche se oggi completamente diverso rispetto ad un tempo.
OB: Esatto!
CN: A dirla tutta: non era solo il primo live di Olaf in Italia, era proprio uno dei suoi primissimi live in assoluto. E infatti era molto nervoso. Tant’è che mi disse: “C’è un sacco di gente, sono molto nervoso, ti va di salire sul palco con me e mi dai una mano lì dove necessario?”.
OB: E tu lo facesti, e fu la primissima volta che ti vidi aizzare il pubblico a mani alzate!
CN: Beh, c’era un entusiasmo incredibile. Ma raccontala tutta…
OB: No, dai… (risate, NdI)
CN: In pratica al massimo dell’esaltazione collettiva in sala Olaf si volta verso di me e mi fa “Senti, io ho finito i pezzi, non ho altro materiale da suonare”. Io lo guardo e gli dico: “Ma sei matto? Guarda di fronte a te! Mica possiamo terminare qui!”.
Ottimo. E com’è andata a finire?
OB: Che ho praticamente risuonato tutto lo stesso set che avevo appena concluso! (risate, NdI) … e la gente apprezzò tantissimo anche al seconda volta. E’ proprio bella questa cosa del pubblico italiano del saperti mostrare supporto. Anzi, dirò di più: voi siete un pubblico tale che di base partite proprio a fianco dell’artista, lo supportate, deve suonare veramente male per costringervi a voltargli le spalle. In Inghilterra o in Germania non è così: non ti supportano finché non fa qualcosa di veramente clamoroso, solo lì si smuovono.
CN: Che poi magari è solo una questione di apparenze. Facciamo dei live da quelle parti dove per tutta la durata del set la gente resta immobile, inespressiva, poi arrivano da noi e ci fanno “E’ stato bellissimo, anni che non mi divertivo così”… Però ecco, da voi c’è sempre grande calore. E ce n’è non solo se parliamo di set dal vivo – prendi Facebook, gli italiani sono gli utenti più attivi, interessati ed entusiasti, per quanto ci riguarda. La mia impressione è che mentre nel resto dell’Europa c’è stata una contrazione, una piccola crisi, l’interesse verso un certo tipo di musica elettronica qui da voi è invece in grande crescita. Magari è per la grande popolarità che ha raggiunto la techno: così grande, da permettere che ci sia spazio ed interesse anche per variazioni più di nicchia, più sperimentali, come la nostra. Vedo molti ragazzi giovani, in Italia più che in qualsiasi altro paese, che iniziano ad appassionarsi ex novo ad un tipo di elettronica essenziale, atipica e sperimentale come la nostra. Un pubblico nuovo. Questo è un segno di grande vitalità che non può che farci piacere – e che credo possa fare piacere pure a voi. Vero?