Una parete digitale di 50 metri squarcia la navata dell’Hangar Bicocca di Milano. Una parete geometrica senza inizio né fine, in cui ritroviamo cadenze ritmiche causate da frequenze minimali, che si uniscono in variazioni e ripetizioni seriali che creano la frammentazione psichica e la destrutturazione del suono. Così prende forma “Unidisplay”, interagendo spazialmente con “I Sette Palazzi” di Anselm Kiefer, osserviamo un lavoro ottico-cinetico che indaga con approccio scientifico i meccanismi percettivi e i principi costruttivi delle forme. Partendo dall’unione dell’interazione tra i principi della teoria cinetica e dallo studio della psicologia della Gestalt, si crea un rapporto segno-suono di grande impatto. Lo spettatore avrà di fronte a sé una parete rigorosamente minimale, con una concettualizzazione di tipo scientifico dove ci sarà una possibile fruizione di tipo ludico-cinetico sperimentale. Non abbiamo di fronte a noi un’opera d’arte tanto meno un’architettura completa ma un sunto del lavoro di Nicolai dove ci offre un’unica performance di valore estetico-sensoriale inestimabile, immersa nell’oscurità dell’Hangar ritroviamo una meditazione ipnotica, un luogo mentale.
Carsten Nicolai (Karl-Marx-Stadt, 1965) conosciuto con lo pseudonimo di Alva Noto, fondatore fra l’altro dell’etichetta raster-noton, è una figura di riferimento assoluto nello scenario delle arti elettroniche del passaggio fra anni ’90 e decennio successivo. Tra i numerosi interventi sonori all’interno di spazi museali, è da ricordare quello presso il Guggenheim Museum a New York nel 2000, la maestosa retrospettiva alla Schirn Kunsthalle di Francoforte nel 2005 e le partecipazioni a mostre collettive fra cui Documenta X, TATE Modern di Londra e ben due Biennale di Venezia. Ma quello che più colpisce dalla sua biografia è la fitta rete di scambi e collaborazioni con altri artisti contemporanei, di cui quella con il pianista giapponese Ryuichi Sakamoto (che abbiamo avuto l’onore di intervistare) è solo l’esempio più noto. La seconda è l’ecletticità del suo impegno e dei suoi interessi. Il suo esplorare connessioni tra visione, suono, architettura, scienza e tecnologia, spaziando dalla musica alla videoarte e realizzando installazioni e performance che sono vere opere multisensoriali, difficili da catalogare.
La mostra è ridotta all’essenza, in cui il visitatore è chiamato a non interpretare, ma solo a farsi coinvolgere. I punti rimangono punti, le linee rimangono linee, le onde rimangono onde e i bit bit. Lo schermo diventa una grande tavola con un susseguirsi di suoni e immagini che scivolano via, uno dopo l’altro, lenti e veloci, ordinati e scomposti. Esiste solo il ritmo, la variazione e la casualità di forme che vogliono essere pure matrici. Le proiezioni sono rigorosamente in bianco e nero, eleganti e ritmiche. La durata di ciascuna sequenza è variabile, così come la continuità delle forme, ora spezzate da un suono greve, ora inceppate da un ronzio sordo e poi rese fluide da suoni più lunghi e regolari. Lentamente lo spettatore comincia a perdere la percezione del tempo e dello spazio e si ritrova in un flusso di immagini che via via aderisce fino a combaciare con quello coscienziale. Ciascuna forma assume un significato o lo perde a seconda di come viene assorbita in quell’istante. Così linee tubolari diventano sbarre, rettangoli per un momento allineati si trasformano in finestre illuminate di un palazzo, altre linee verticali bianche che si intersecano, una barra orizzontale scomposta i cui pezzi si rifondono ricorda uno scambio cellulare, un dna. Poi silenzio, buio. E di nuovo qualcosa sulla superficie, di nuovo un suono. Una continua ripetizione. La struttura è costituita da alcuni pattern di base come “magnetic field”, “vertical line rotation”, “horizon”, “random”, aggiungendo dei rapidi sfarfallii, i flickers e jitters. Queste piattaforme, tutte riconducibili al mondo geometrico, punti, linee, superfici, sono come indagate al microscopio. Si allargano sullo schermo e proliferano, si dilatano, si restringono, si dispiegano in texture, generate nel loro movimento da bit elettronici a diversa frequenza, che insieme giungono a completare l’installazione, di cui le immagini che scorrono sotto gli occhi dello spettatore vogliono essere fedele trascrizione. I fruitori rimangono come ipnotizzati, assorbiti completamente dalla parete-schermo, dal suono freddo e metodico, Nicolai si ispira alle soluzioni “concrete” del Minimalismo americano alleggerendolo e dotandolo di componente sonora, con una diffusione sintetica microcellulare spesso ridotta al suo livello base. L’autentica peculiarità dell’opera di Carsten Nicolai sta in un software che genera immagini in tempo reale. Per cui non vedremo mai immagini uguali a precedenti e mai create in precedenza (tranne che per l’orologio, che scansiona un tempo infinito).
Unidisplay è un insieme di opere precedenti. Ma deve essere concepita come opera singola. Permane il fatto che tutte hanno punto in comune. Il suono. Ma qui il suono è in secondo piano, soffuso, cadenzato. Funge da ritmo al tempo passando in secondo piano come se fosse creato dall’opera visiva. Poi c’è la panchina. Elemento che ti permette di guardare Unidisplay come fosse una finestra, ma una finestra attraverso la quale guardare ad un altro spazio. Quindi abbiamo uno schermo uguale ad altro spazio uguale alla tridimensionalità.
Come molte delle sue installazioni e delle sue performance, Unidisplay rievoca un superamento ma anche una certa vicinanza con i percorsi dell’arte cinetica, optical e programmata. Ma Nicolai replica: “Mi sono sempre tenuto aggiornato sugli sviluppi della ricerca scientifica e della psicologia, esplorando le scoperte dei processi di apprendimento percettivo. E conosco la lunga tradizione degli anni Sessanta che si è mossa nelle stesse direzioni, non solo in Italia ma anche nel resto d’Europa. Credo comunque che il mio interesse in ambito scientifico venga riproposto sulla scena dell’arte contemporanea per ricreare una forma visiva che perfori la superficie, smaterializzando qualsiasi immagine rispetto a come la si potrebbe vedere o ritrovare nella realtà”. Il linguaggio visivo non teme incomprensioni né giudizi e nasce senza intenzioni di modificare unidirezionalmente l’esperienza scopica. L’installazione qui all’Hangar Bicocca non ha alcuna intenzione di alterare il pensiero delle persone, né di fare propaganda e nemmeno di significare qualcosa direttamente per qualcuno. ‘Unidisplay’ è creata per recuperare una sorta di innocenza visuale consapevole.
Anche se l’esibizione è stata breve (un’ora scarsa) è riuscito a condensare in così poco tempo la cifra stilistica, la linea che Nicolai/Alva Noto persegue ormai da anni: rendere il suono misurabile con la vista. Quello che ho potuto ammirare è stata una performance unica e non ripetibile, magistralmente orchestrata. E pensare che la sua carriera è iniziata come architetto paesaggista.
Purtroppo l’opera curata da Andrea Lissoni e Chiara Bertola non è più visibile in Italia, ma per chi fosse di passaggio a Francoforte dal 26-01 al 05-05 è possibile rimirarla, presso museum moderne kunst frankfurt/main (mmk).