Una delle stelle più luminose del jazz moderno è stato il trio a nome E.S.T. capitanato da Esbjörn Svensson, capace di rinnovare il formato tradizionale del trio (uno standard del jazz, con riferimenti altissimi che vanno da Bill Evans a Keith Jarrett, che hanno portato le possibilità espressive di questo formato a livelli siderali colpendo anche l’immaginario collettivo mainstream) con traiettorie davvero particolari, ed interessanti, pur mantenendo uno stretto contatto con la tradizione. Un destino tragico ed assurdo ci ha portato via Svensson, proprio nell’anno (2008) in cui usciva “Leucocyte”, l’album più contaminato dall’elettronica della band. Ora, più di dieci anni più tardi, Dan Berglund al contrabbasso e Magnus Öström alla batteria tornano a cimentarsi con la forma a tre, e con un pianista. Il pianista non è uno qualunque: Bugge Wesseltoft, solidissimo background jazz targato ECM, è da oltre un paio di decenni il pianista jazz che più e meglio ha investigato le terre di confine dell’elettronica, anche quelle più marcatamente dance. Lo si capisce dai dischi a suo nome, dal catalogo della sua (strepitosa!) label Jazzland, da una carriera che lo ha visto collaborare tanto e bene con signori dal nome Laurent Garnier, Henrik Schwarz, Joe Claussell – gente “un filino” importante nell’elettronica, ecco. Sulla carta Rymden, il nome di questo progetto arrivato in questi giorni al secondo album “Space Sailors”, è una delle realtà più forti ed interessanti del jazz contemporaneo. Lo è anche nei fatti. Ne abbiamo parlato con Bugge, in una piacevolissima chiacchierata piena di spunti interessanti e, anche, di confessioni molto sincere.
Allora, partiamo dal presupposto che ti avrò visto dal vivo almeno una dozzina di volte…
Ma infatti, mi sembravi una faccia nota!
La primissima volta fu in Sicilia, a Palermo. Eri da solo: attorniato da synth, con un geniale utilizzo dei loop creavi praticamente l’effetto di una vera propria band – fu davvero affascinante come live. Tra l’altro stiamo parlando di quasi vent’anni fa, eri insomma ancora nella prima parte della tua carriera e, anche, nel tuo viaggio volto a combinare jazz ed elettronica… In tutto questo tempo, quanto è cambiata la tua identità musicale? E quanto è cambiato questo tuo voler combinare il mondo del jazz, da cui provieni come background, e quello dell’elettronica?
Quanto sono cambiato? Buona domanda. Di sicuro, combinare questi due mondi differenti è ancora una mia grande passione, una direttrice per me fondamentale dal punto di vista artistico. Poi, in generale, in vent’anni spero di essere migliorato un po’ (ride, NdI)…
In realtà questo modo di combinare l’elettronica (anche quella di taglio dance, non solo quella puramente sperimentale) col jazz è una via che, ad oggi, è stata battuta non da tantissimi artisti.
Qualcuno c’è, dai. Non lo so, può essere che sia la mia generazione – quella che è entrata nel fiore della propria carriera negli anni ’90 – fosse più affascinata da una combinazione come quella con house e techno, mentre invece quelli che sono arrivati dopo di noi hanno preferito tornare a vie d’espressioni più “tradizionali”, in ambito jazz. Non c’è nulla di male in questo: ciascuno deve sentirsi libero di seguire la strada che più preferisce, c’è qualcosa di sbagliato quando ti senti “obbligato” a essere sperimentatore di una certa corrente. Però ecco, non sono così pochi i jazzisti che hanno provato a lavorare con l’elettronica negli ultimi decenni…
Chi sono i più bravi, secondo te?
La scena svizzera è piena di grandissimi artisti, in tal senso. Mi viene da citare in primis Nik Bärtsch, che non fa elettronica in senso stretto ma usa moltissimo le strutture della musica elettronica, quando costruisce le sue tracce. Allargando l’obiettivo mi viene in mente l’ottimo batterista che lavora con Ricardo Villalobos… come si chiama…
Sasu Ripatti? Che poi è Vladislav Delay o Luomo, come nome d’arte.
Lui! Sì, sono proprio scarso coi nomi io. Pensa che nell’elenco dovrei metterti di sicuro anche un sassofonista italiano, ma ora il suo nome ora proprio mi sfugge… Di sicuro non si può non citare Jan Bang, o Eivind Aarset, e in generale i moltissimi nomi in Norvegia che gravitano idealmente attorno al Punkt. O anche la Germania, ha una scena molto vivace. Insomma, siamo in abbastanza – penso – per rappresentare un consistente sottogenere del jazz. Non mi lamenterei.
A proposito di lamentarsi o non lamentarsi, della tua label – la Jazzland – che mi dici? Ormai ha una lunga vita alle spalle. La mia impressione dall’esterno è che abbia avuto un andamento “carsico”: momenti di interesse ed esposizione, altri in cui sembrava scomparsa.
I primi anni, grazie all’accordo di distribuzione con la Universal, furono molto buoni e ricevemmo un sacco di attenzioni: magari più in Francia, Germania ed Inghilterra più che in Italia, ma furono comunque tante. Poi negli anni il rapporto è diventato meno intenso, credo che la stessa Universal abbia mutato pelle e le etichette troppo “di nicchia” siano diventate troppo poco interessanti per lei, anche solo a livello di distribuzione. Cinque anni fa abbiamo ripreso in mano tutto quanto in prima persona e sai cosa?, non abbiamo mai avuto dei risultati così buoni come negli ultimi tempi.
Veramente? Proprio ora? Ora che si dice che non si venda più nulla, come supporto fisico?
Sorprendente, vero? Ma nel jazz per fortuna si comprano ancora molti cd, resta la forma di fruizione preferita. Per qualcuno, anche il vinile. E’ una scena di appassionati che, in qualche modo, ci “tiene” ad acquistare la musica in formato fisico. Nel caso di Jazzland siamo riusciti a costruirci delle piccole sacche di appassionati fedeli in ogni nazione, e mettendo assieme tutto quanto riusciamo ad andare avanti, pure con soddisfazione. Certo, non è che ci guadagniamo granché: anche perché i nostri criteri di scelta sono davvero poco strategici, poco commerciali. Ma riusciamo a stare sempre nella soglia di sopravvivenza, e per noi va benissimo così.
Quante energie ti porta via l’etichetta?
Pochissime, per fortuna! Io mi prendo solo la parte “divertente” del tutto: fare il direttore artistico. E’ il mio socio ad occuparsi di tutti gli aspetti pratici, quelli che fanno marciare una label. Per fortuna, eh: io come uomo d’affari sono pessimo. Fosse tutto in mano a me, farei così tanti errori e scelte sbagliate che falliremmo in pochissimo tempo.
Venendo invece a Rymden, immagino sia stata anche una grande responsabilità decidere di dare vita a questo progetto…
Più che responsabilità, è una immensa felicità. Anche perché la reazione del pubblico è stata incredibile, oltre ogni nostra aspettativa più rosea. Il solo anno scorso abbiamo fatto qualcosa come ottanta concerti, o poco meno. Tantissimo. E questo è molto, molto importante: perché per me il jazz nasce soprattutto nei live: è lì che si capisce se un progetto sta in piedi veramente, è lì che impari e cresci, è lì che perfezioni la tua capacità di dialogare sia coi musicisti con te sul palco che col pubblico che ti ascolta. Noi, come Rymden, credo che abbiamo progredito tantissimo. E penso che lo si possa sentire dal nuovo disco, che è un deciso passo in avanti rispetto al precedente.
(Eccolo, “Space Sailors”; continua sotto)
La mia impressione è che sia un lavoro più energetico, dove non avete paura di “lasciarvi andare” quando necessario e, anche, di cercare soluzioni più dirette, più dinamiche.
Dici? Può essere. Saper controllare la propria energia, quando si suona, a mio avviso è la cosa fondamentale. Non devi spingere sempre sull’acceleratore – ho paura quando questo accade. Anche perché se lo fai il tuo rapporto sia interno tra musicisti sul palco che esterno col pubblico rischia di essere, in qualche modo, “viziato”. Ora comunque che con i miei due soci siamo arrivati a conoscerci benissimo musicalmente, è probabile che ci sia meno paura nel “lasciarsi andare”, può essere, vero.
Come funziona il vostro processo creativo?
Inizialmente Rymden è stata una mia idea. Ero quindi io a dettare la linea, ad indicare la direzione. Il nostro primo album è uscito dopo soli tre concerti fatti assieme: e se consideri quello che ti dicevo prima, capisci che era molto, molto presto. Andando avanti siamo riusciti a diventare molto più collaborativi: ora non c’è più un leader, componiamo davvero tutti insieme – e questo lo puoi fare senza impantanarti solo se ci si conosce benissimo a vicenda. Inoltre, e anche questo lo spiegavo un po’ prima, suonare è fondamentale: il grosso delle idee per “Space Sailors” sono scintille quasi casuali nate non solo nei concerti veri e propri, ma anche durante i soundcheck pomeridiani che li precedevano.
Avendo tu lavorato tantissimo con l’elettronica di taglio dance e non solo, sai che il “suono” è spesso e volentieri ciò che fa la differenza, pure più di accordi, melodie, tonalità. Nel jazz bene o male i suoni sono quelli classici degli strumenti acustici (o elettrici) consolidati: parti da quelli per poi creare, inventare. Rymden in che posizione si colloca, tra questi due estremi?
Ottima osservazione. Per me il suono è comunque fondamentale e anzi, in fondo pure nel jazz più classico il “suono” può fare la differenza: pensa ad esempio a “Kind Of Blue” di Miles Davis che sì, è pazzesco dal punto di vista compositivo, ma anche dal puro punto di vista del suono ha una identità particolarissima, che lo distanziava da tutti gli altri dischi jazz del periodo. Noi, come Rymden, abbiamo ovviamente più di un occhio di riguardo verso il suono, trattandolo alla pari con ciò che c’è sul pentagramma, ed è parte identificativa del nostro progetto processare gli strumenti acustici attraverso i laptop, spesso e volentieri. La cosa ci diverte molto!
Noi artisti abbiamo un unico dovere: continuare a fare solo quello che ci sentiamo di fare. Senza porci troppi problemi su cosa funziona o meno. E al tempo stesso dobbiamo imparare a non avercela mai col pubblico: ognuno, musicista o spettatore che sia, è libero di farsi piacere quello che vuole
Mai avuto la tentazione ampliare Rymden, trasformandolo in quartetto o quintetto? Del resto suonate “grossi”, ci potrebbe stare…
Al massimo abbiamo pensato che sarebbe ok avere ogni tanto degli ospiti estemporanei. Ma ti dirò, la prima spinta a formare Rymden è stato il fatto che io prima non avevo mai suonato in trio. E’ un formato molto affascinante, che lascia davvero tanta libertà ai musicisti di esplorare: se stai in un quartetto o in un quintetto, per evitare il caso ci sono comunque più ruoli e strutture da rispettare. E’ inevitabile.
No, aspetta: non avevi mai suonato in trio prima? Incredibile. E’ uno dei formati più canonici del jazz moderno, il pianoforte-contrabbasso-batteria, per un pianista. Mi pare incredibile che tu non ci sia mai passato.
Sai cosa? E’ che fin dall’inizio una mia priorità è stata trovare una “mia” voce, un “mio” modo di esprimermi: ecco perché mi sono appassionato fin da subito a lavorare coi synth, i software, le drum machine. Era una rarità. Mentre di trii jazz, beh, ne hai quanti ne vuoi… e assolutamente strepitosi. Il rischio di fare brutta figura, di essere “uno dei tanti”, uno che prova a fare le “solite” cose nel jazz, era altissimo. Ho voluto evitarlo. Ora che mi sento sufficientemente sereno e sicuro di me ho pensato che era il momento di dare vita ad un trio pianoforte, contrabbasso, batteria: ma naturalmente con una personalità un po’ particolare, distinta e distinguibile. Però sì, fino a pochi anni fa non avrei avuto il coraggio di farlo.
Tra l’altro so per certo – da brevi incontri personali, dai racconti di altri colleghi – che sei una persona davvero gradevolissima. Al tempo stesso, so che musicalmente parlando hai invece una personalità molto forte, quasi spigolosa, non facilmente incline a compromessi. Ne ho parlato a lungo con Laurent Garnier, un po’ di tempo fa. Mi raccontava di come averti nella band fosse da un lato qualcosa di fantastico, dall’altro qualcosa di insostenibile che non poteva durare – e infatti non è durato.
Ha ragione. Ha assolutamente ragione. Amo Laurent, davvero. Suonare con lui è stata una fortuna assolutamente eccezionale. Il punto però è che la nostra collaborazione era nata come una piccola cosa estemporanea, un duo improvvisato, ma fin da subito è finita in un tunnel che l’ha resa stabile, strutturata, inserita in una band fatta e finita con cinque, sei elementi sul palco. Forse l’errore è stato lì. La mia intenzione era ovviamente quella di mettermi a servizio della band, della sua idea di musica, ma al tempo stesso non sono mai stato in grado di suonare qualcosa che non “sentissi” profondamente. Quindi sì, capisco cosa dice Laurent, e ti assicuro che mi sento anche molto dispiaciuto per essere stato ad un certo punto un problema più che un punto di forza: perché lui è una persona splendida, un artista eccezionale, e sotto certi punti di vista avrei voluto continuare a suonare con lui per decenni. Ma per me era davvero difficile dover seguire, sul palco, solo ed esclusivamente le sue idee, senza poterlo fare con le mie. Dato che sì, spesso sul palco capitava che in certi frangenti avessimo delle sensazioni differenti su dove portare la musica in quel preciso istante. Non poteva durare. Davvero, io proprio non riesco a suonare qualcosa in cui non credo al 100%, anche se quel “qualcosa” è oggettivamente bellissimo, affascinante, di enorme qualità. E anche se quel “qualcosa” è portato avanti da una persona per cui ho un affetto e una stima infinita.
Beh, le spiegazioni collimano, Garnier mi ha detto praticamente le stesse identiche cose di te. Con Henrik Schwarz invece, altra tua collaborazione “forte” nel campo dell’elettronica, le cose sono andate un po’ meglio, no?
Oh sì, ci siamo confrontati spesso su questa cosa io ed Henrik. Abbiamo capito una cosa: chi arriva dalla musica elettronica è come se, per certi versi, improvvisasse tutto il tempo: perché grazie a synth e software puoi creare suoni in tempo reale, puoi mettere e togliere elementi in un attimo, in una frazione di secondo. Il problema è che questa pratica di esecuzione porta il producer di elettronica a considerare, anche inconsciamente, uno strumentista come se fosse un suono o un effetto da togliere o mettere a piacere; ma non è così che va. Un essere umano è diverso da un suono generato digitalmente. Uno strumentista, quando suona, soprattutto quando improvvisa, ha bisogno dei suoi tempi, ha bisogno di seguire un certo tipo di dinamiche emotive interne, solo così si sviluppa e realizza in maniera piena, efficace; non è insomma qualcosa che puoi accendere e spegnere con un clic sul mouse. Anche con Henrik non sono mancate le discussioni. C’è una grande fortuna, nel caso della collaborazione con lui, rispetto a quanto successo con Laurent: io e Schwarz abbiamo sempre lavorato in duo, non di più, e abbiamo fatto prima di tutto un sacco di concerti in piccoli club, in luoghi senza troppe pretese, almeno all’inizio. Con la band di Garnier ovviamente non poteva andare così: eri obbligato a suonare in contesti da migliaia di persone, non c’erano alternative, e Laurent – giustamente! – sentiva la grande responsabilità di non deludere un pubblico così vasto. Si respirava insomma molta tensione. Al netto del fatto che adoro entrambi allo stesso modo come musicisti e come persone allo stesso modo, devo dire che Henrik si è riusciti a raggiungere un interplay che invece con Laurent ho solo sfiorato in alcune occasioni, senza mai raggiungerlo veramente.
Un essere umano è diverso da un suono generato digitalmente. Uno strumentista, quando suona, soprattutto quando improvvisa, ha bisogno dei suoi tempi, ha bisogno di seguire un certo tipo di dinamiche emotive interne, solo così si sviluppa e realizza in maniera piena, efficace; non è insomma qualcosa che puoi accendere e spegnere con un clic sul mouse
Adesso ti stai concentrando solo su Rymden o…?
Rymden è diventato un “gioco” molto più grandi di quanto ci fossimo aspettati, in più noi tre davvero adoriamo suonare assieme. Però al tempo io ed Henrik stiamo parlando di tornare a fare qualcosa assieme, tanto più che abbiamo un album già praticamente pronto che si potrebbe far uscire a breve… vediamo. Sarebbe una sfida affascinante: perché in questo disco anche lui suona il pianoforte, non ha solo la gestione dell’elettroncia. Non sarebbe male un live con due pianoforti a coda sul palco, no? Non solo: in realtà per il 2021 mi ero anche prefissato di far uscire un mio nuovo album solista. Insomma, vediamo. Ma ora come ora Rymden cattura tutte le mie energie.
Ma davvero non ti aspettavi che il progetto avesse questa eco? Dai: stiamo parlando di due terzi di E.S.T., uno dei trio jazz più celebrati dell’era moderna, che incontrano uno dei più conosciuti ed amati jazzisti in grado di andare “oltre”, di esplorare i terreni dell’elettronica più contemporanea… Sulla carta, un progetto già di per sé super-interessante, prima ancora di sentire una nota.
Non puoi mai dare per scontate le cose e il successo, no? Sapessi quante volte ho iniziato progetti per cui pensavo “Uh, questo andrà alla grande!” e poi invece eh, non ci si è filati proprio nessuno (ride, NdI)… Davvero, non puoi mai dare nulla per scontato. L’unico tuo dovere è dare il meglio di te stesso, come artista. Se poi la gente apprezza, bene. Ma ho imparato a non essere così presuntuoso da poter pensare di poter sempre prevedere la reazione del pubblico verso la tua musica.
A questo punto però ti chiedo qual è la tua release più sottovalutata… quella che pensavi avrebbe guadagnato l’attenzione del pubblico e invece – nulla.
Oddio, ho fatto così tanti dischi… Molti di questi sapevo che sarebbero rimasti assolutamente di nicchia, ma questo non è mai stato un problema. Non era certo questo un buon motivo per non farli. Ecco, diciamo che se c’è un disco che pensavo avrebbe catturato più attenzioni questo è “Bugge &Friends”: c’era Erik Truffaz da un lato, Joe Claussell dall’altro, mica male no? Come poteva andare male un disco del genere? E invece, si è rivelato troppo “elettronico” per il pubblico del jazz, e troppo “jazzy” per il pubblico dell’elettronica.
Forse i tempi cambieranno, forse stanno già cambiando, magari già oggi o a breve abbiamo o avremo a che fare con un’audience più elastica mentalmente, più contaminata, in grado di capire meglio un certo tipo di progetto…
Forse, chissà. Ma noi artisti abbiamo un unico dovere: continuare a fare solo quello che ci sentiamo di fare. Senza porci troppi problemi su cosa funziona o meno. E al tempo stesso dobbiamo imparare a non avercela mai col pubblico: ognuno, musicista o spettatore che sia, è libero di farsi piacere quello che vuole.