Nick Cave su Soundwall? Che c’entra Nick Cave con la club culture? E se vi dicessi che al Berghain o al Tresor in quei loop sincopati percussivi di 909 c’è anche Nick Cave? Tipo, avete presente quando il tutto si fa quasi al limite della claustrofobia e i suoni diventano sempre più aspri? Beh quella è la chioma nerissima di Nick Cave e il suo sguardo diabolico che vegliano su di voi quasi come i Kraftwerk. Sorpresi?
Va bene, ok, andiamo con calma e facciamo un comeback doveroso nella Berlino dei primi anni ’80 dove uno stralunato e bastardo Cave arriva bisognoso di una svolta ma soprattuto di di sangue fresco, dopo aver avvelenato e soprattutto essersi avvelenato a Londra con i Birthday Party. Una Berlino che aveva da poco partorito la santissima trilogia di Bowie, appoggiata anche sulle visioni eteree e minimali di un genio called Brian (…ne riparleremo, Brian Eno tornerà perché Eno è sempre presente come i favori arbitrali alla Juve direbbe qualcuno).
Berlino in quegli anni è una donna punk bellissima sempre incinta che partorisce arte e innovazioni sonore praticamente ogni frazione di secondo. E’ quindi ovvio e fisiologico che anche Nick Cave trovi un materasso su cui appoggiarsi in quella situazione Sturm Und Drang: un materasso non comodo, un materasso di quelli con le molle che escono e ti bucano la schiena come chiodi, un materasso chiamato Blixa Bargeld. Ovvero, un animale a capo d’una creatura devastante, gli Einstürzende Neubauten, che univa art rock con muri del suono estremi creati usando martelli pneumatici tubi di metallo bidoni d’acciaio sincopando il tutto spesso in 4 quarti. Praticamente Nick e Blixa destrutturarono la musica e ne fecero nuova cosa chiamata, volendo, “industrial”.
Tutto questo era d’una ferocia inaudita e mai sentita, roba che a confronto i Sepultura di vent’anni dopo sarebbero sembrati una boy-band: pensiamo a Iggy insieme agli MC5 strafatti d’anfetamina (a proposito, dice niente Detroit?) lasciati soli in una camera con bottiglie di vetro vuote e lame di metallo. Ecco, questo è quello che si trovarono a fare Cave e Blixa: aggressione sonora industriale. Aggiungiamo a tutto questo il suono kraftwerkiano che stava invadendo la città già da qualche anno (non ritroviamo i Kraftwerk nei suoni ma li ritroviamo nell’attitudine di creare una sorta di trance vorticosa) e quindi facciamo la somma : noise industriale + new wave sporca spogliata d’ogni orpello luccicante + club culture nascente (nel senso sociale più che musicale del termine) ed otteniamo “From Here To Eternity”, primo disco fatto a quattro mani, anzi, vomitato a due stomaci da Nick Cave e Blixa Bargeld!
Ecco, personale scommessa: io mi ci gioco le palle che Mike Banks, Jeff Mills o Juan Atkins, oltre a una gran dose di Kraftwerk e di synth europei, si sono sparati nelle vene anche una gran quantità di Cave&Blixa. Quindi ecco spiegato il perché di tutto ‘sto viaggione : Nick Cave sta di diritto ovunque e sì, certo, ovviamente anche qui su Soundwall. E quindi andiamo a perderci dentro il suo ultimo disco: “Ghosteen”. Facciamolo.
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Stiamo parlando appunto di un Disco con la “d” maiuscola, per intenderci: una di quelle opere che necessitano di un paio d’ore d’apnea perché no, non lo si può ascoltare a sprazzi, non lo si può ascoltare con un telefono in mano, non lo si può ascoltare mentre si cammina sotto i portici guardando le vetrine e nemmeno mentre si guida – a meno che non stiate guidando di notte in autostrade poco trafficate. Insomma, ci vuole impegno e tempo.
Nick Cave pretende questo, è un pò come se vi stesse dicendo: o hai un paio d’ore da dedicarmi oppure te ne vai affanculo, quello che ti concedo sono un paio di bicchieri di rosso fermo e qualche sigaretta, ma poi stop se entri qui chiudi il mondo fuori.
Va sottolineato anche che non stiamo parlando d’una raccolta di canzoni ma bensì di un concept (che cosa sia un concept album non starò qui a spiegarvelo, sperando non sia necessario, ma se non avete “The Wall” in casa mi spiace per voi); anyway, dicevamo, le canzoni-non-canzoni (perché mai come in questo caso Cave riesce nell’intento di mandare a farsi fottere la forma canzone) sono un mezzo, e non un fine: sono praticamente perle nere che servono a completare una collana d’intenso dolore per la scomparsa prematura del figlio. Una collana iniziata con il precedente “Skeleton Tree”, ma la differenza sostanziale è che mentre nel precedente album Cave ci portava nel tunnel del suo dolore comprimendoci in un sotterraneo senza uscita, in “Ghosteen” ci indica invece la porta o almeno la fessura di luce che filtra dalla porta e questa luce è LA SPERANZA. Lentamente, ascoltando tutto il disco, c’avviciniamo sempre di più a quella luce che filtra e riusciamo ad abbandonarci esausti, quasi come dopo un attico di panico.
Musicalmente siamo al “minimalismo” assoluto: non ci sono chitarre, difficilissimo trovare un eco lontano di batteria o di qualsiasi forma ritmica, il disco è sospeso su tappeti ambient, i Bad Seeds sono stati mandati in vacanza, l’unico rimasto al suo posto è Warren Ellis (ma già si percepiva dai due album precedenti che sarebbe andata a finire così, ovvero che s’arrivasse inevitabilmente al solo dialogo tra Cave e Ellis ). In “Ghosteen” regnano gli archi i sintetizzatori e i suoni onirici: praticamente è come se Ellis avesse preso Brian Eno (ve l’avevo detto sarebbe tornato) e a questo avesse aggiunto un altro po’ di Brian Eno il tutto impreziosito con una spruzzata di Brian Eno, e tutta questa bellezza sognante offre il giusto sfondo alle liriche di Cave: in cui innalza spiritualmente la perdita del figlio, in un modo in cui troviamo sempre la speranza come unico rimedio al dolore, come quel “Peace will come, a peace will come, a peace will come in time” recitato come un mantra nell’iniziale “Spinning Son”, o come nell’attesa d’un ritorno nella struggente “Waiting for you” o in “Bright Horses”, sperando nell’arrivo d’un treno che gli riporti il suo amato figlio perso.
Insomma un disco ostico da penetrare, difficile com’è difficile trovare la pace dopo la perdita d’una persona amata. Ma Nick Cave indica la strada, e filtra la luce. Come quasi sempre accade con lui, un disco che è molto più d’un disco: è vita. Sarebbe bello tornasse ad esserci più musica fatta così.