Il gioco è chiaro. Scottate dall’esperienza dell’anno scorso, con la riesplosione della pandemia dopo le vacanze estive (attribuita dalle anime semplici o ciniche a Briatore ed alle discoteche, quando in realtà è quasi sicuramente colpa dei posti di lavori e della scuola che riaprono, con la gente accalcata nei luoghi di lavoro, nelle classi, sui mezzi), le nostre istituzioni quest’anno stanno aspettando di vedere come butta. Sì, la strategia è quasi sicuramente questa. Anche se non si ha il coraggio di dirlo.
A scanso di equivoci: scelta non certo coraggiosa, ma volendo anche comprensibile. Una scelta prudente, diciamo. Perché quando c’è di mezzo la salute è sempre meglio essere prudenti, no? Eh. Insomma. Bisogna vedere che tipo di “salute“, ecco. Una società dove le uniche non-limitazioni sono quelle del lavoro più prettamente produttivo, ecco, non è per forza una società che va lontano. O almeno: non è la società che vogliamo. Il meccanismo del “Lavora tutta la vita senza mai alzare la testa, sposati da giovane, fai figli, poi stai a casa, poi muori” non è più ritenuto accettabile. E’ un ricordo di tempi passati, quando davvero le persone più povere (…ma non la ricca borghesia o l’aristocrazia, attenzione) erano costrette a vivere così.
La socialità libera è un diritto. L’espressione di sé e delle proprie emozioni è un diritto. Abbiamo costruito la nostra “nuova” società così – per migliorare la condizione dell’uomo, per aiutare l’espansione del mercato, per mille altri motivi che volete voi – sta di fatto che mo’ non è che possiamo fare finta di essercelo dimenticato. Non possiamo. Né vogliamo.
Quindi ecco, va bene la prudenza; va bene Speranza; va bene che nessuno vuole prendersi la responsabilità di essere quello che “…ha fatto ripartire la pandemia” (il solito gioco socio-politico di merda, dove nessuno fa quasi nulla ma tutti sono pronti a rinfacciare ex post le cose appena si tratta di puntare il dito); va bene tutto, sì che va bene; ma la pazienza sta per finire.
Sì: la pazienza sta per finire.
La pazienza sta per finire perché arrivano immagini dalla Germania, dalla Francia, dall’Inghilterra, dagli Stati Uniti – tutti stati considerati fari di civiltà e progresso – che sono un colpo al cuore, con tutta la gente assembrata, migliaia su migliaia di persone ai concerti. Ad esempio, da giorni sta girando insistentemente su Facebook questa foto, scattata a Bristol, e non ha bisogno di troppi commenti:
Ma la pazienza sta per finire anche perché sempre più in Italia, sì, qui dalle nostre parti, c’è sempre più un “liberi tutti” tacito, tollerato dalle istituzioni e spesso addirittura incoraggiato (sotto forma di controlli blandi, sanzioni all’acqua di rose, occhi chiusi quasi integralmente), peccato però che di questo allentamento si possano giovare solo le persone che se la sentono di infrangere la legge, chi ritiene che la legalità sia il valore principale se la piglia, scusate il francese, in culo. Non una grande strategia a rafforzamento del già non altissimo senso civico degli italiani. Scorrere il proprio feed di Facebook o di Instagram è sempre più vedere dei dj set, delle persone che ballano, delle persone che stanno in piedi ed ascoltano musica: non prendiamoci in giro. E non accusiamo nemmeno il settore, o non facciamolo troppo, perché parliamoci chiaro, tolto qualche avventuriero isolato il settore della musica, dell’intrattenimento e degli eventi ha rispettato le leggi come e più di altri (più di bar e ristorazione, per dire), facendosi in quattro per rispettare regole, regolette, imposizioni, vessazioni, spesso anche assurde e/o. scientificamente sadiche. Così almeno c’era sempre un capro espiatorio pronto-uso da additare: il gioco è chiaro.
Il tutto sta diventando ridicolo. Il tutto sta diventando oltraggioso. L’ipocrisia, che è l’inevitabile amianto di cui si riveste il cinismo della politica (e lo sappiamo), sta superando i livelli di guardia.
Allora facciamo così. Facciamo che abbiamo capito che in questi giorni tutta la nostra classe politica (…e un po’ anche noi cittadini, non neghiamolo) è a chiappe strette per vedere che succede con la riapertura integrale delle fabbriche, degli uffici, delle scuole. Facciamo che non vogliamo evidenziare troppo come in un anno non si sia fatto granché per migliorare il trasporto pubblico, l’edilizia scolastica, la riorganizzazione parzialmente in remoto del lavoro, la digitalizzazione della burocrazia. Facciamo che abbiamo capito che governare in tempi di pandemia, e con una classe politica che ha dovuto rifugiarsi alle spalle di un Draghi (o che ancora più vigliaccamente è rimasta all’opposizione), non è facile. Facciamo che siamo consapevoli che l’Italia in fatto di ristori, aiuti e welfare va alla guerra con la spade di cartone e e gli scudi fatti di sputo, dopo decenni a scialacquare in assistenzialismo e corruzione, fino a rendere il nostro debito pubblico molto più grande di quello che produciamo annualmente (…fossimo uno stato più piccolo, saremmo già falliti e i nostri soldi sarebbero carta straccia).
Facciamo tutto questo.
Ma c’è un mese di pazienza.
Un mese in cui si deve disegnare un piano di ripartenza chiaro ed esplicito – e naturalmente commisurato alla situazione pandemica, non siamo kamikaze – per quanto riguarda i settori più legati all’interscambio umano, alla socialità, al divertimento. Un mese in cui deve essere chiaro che la priorità non è più solo la produttività delle grandi industrie e del grande capitale, o gli stipendi di chi è già garantito. Un mese in cui si fanno scelte forti, nette, e pazienza per chi è no-questo e no-quellaltro (senza però mai suggerire una soluzione), perché si capisce che la posta in gioco è importante.
…altrimenti?
Altrimento, boh.
Non siamo qua a minacciare. Ma osservando tanti piccoli segnali, l’Italia è sempre più una pentola a pressione che inizia a fischiare e a sbuffare per eccesso di calore intrappolato, per eccesso di – ehm – “prudenza”. A diciotto mesi dalla comparsa della pandemia, questa è la verità, l’idea di affrontare un secondo, anzi, un terzo inverno fatto di restrizioni, divieti assoluti, di lockdown, ora che molte più cose si sanno sul Covid e molti più dati si sono accumulati nella ricerca scientifica (e nella platea vaccinale mondiale), è sempre meno ricevibile, è sempre meno presa sul serio.
Amiche, amici: un mese. Poi davvero ci si inizia ad incazzare, in mancanza di una strategia, in mancanza di attenzione verso un certo tipo di problemi, in mancanza di coraggio, in mancanza di un segnale per cui sì, chi ci amministra si sta impegnando a restituirci la vita, la socialità, la possibilità di fare cose, di viaggiare. A casa, stateci voi. Seduti, stateci voi. Protetti dalla campana di vetro del rischio zero (…ma quando c’è da buttarci nel mare di guano del precariato dov’era tutta questa prudenza, questa voglia di proteggere?), stateci voi.
Un mese, e un evento simbolico a cui aggrapparsi: la triade di concerti di Cosmo a Bologna, annunciata già da mesi (quindi con tutto il tempo di ragionarci sopra), che in tempi non sospetti si è presa la briga di immaginarsi protocolli di sicurezza ben precisi e ben regionevoli (leggi Green Pass, al di là di come la pensiate). Questi concerti si devono fare. Abbiamo poco meno un mese di tempo per avere l’ok delle istituzioni. Un concerto che è praticamente già sold out (non si “tira la volata” all’evento, insomma, visto che non ha sostanzialmente bisogno di vendere altri biglietti), un concerto che nasce con l’idea di essere fruito al 100%, non da seduti insomma, non con limitazioni. Un concerto simbolico sotto molti punti di visa. Cosmo ha appena pubblicato un lungo post su Instagram, lo riportiamo qua sotto.
Ancora un mese. Poi, veramente, o è arrivata qualche nuova variante davvero micidiale (…ma allora fermerete anche le fabbriche e le Borse, vero?), o davvero ci siamo rotti le scatole. E non sarà allora nemmeno più elettoralmente conveniente mettere la polvere, e la pluralità di vita, sotto il tappeto. Eh no. Saranno cazzi, invece. Saranno cazzi amari.
Ancora un mese. Sì: ancora un mese.
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