“Sono un bastardo privilegiato!”: un titolo quanto mai azzeccato per la nota iPhone dedicata al mio itinerario da queste parti. Questo perché, per l’ennesima volta nella mia vita, ho avuto la fortuna di vivere qualcosa che pensavo solo di poter sognare. Proprio mentre scrivo queste righe sta terminando la mia ultima settimana dopo un lungo viaggio in Sud America. Sono al Phonoteque, il simbolo della nightlife underground di Montevideo e probabilmente di tutto l’Uruguay. Un club piccino e difficile da identificare nel buio di un quartiere anonimo, come da tradizione per chi fa di tutto per non farsi piacere da quelli che piacciono. Una scala illuminata scende in un piccolo basement con un dancefloor stretto e lungo che ricorda vagamente il Dottor Sax di Torino. Stasera non ci sono guest, come del resto accade per la magior parte dei weekend. Sono i resident DJ Koolt, Z@p, Emilio e Kino a marcare il sound da questo lato del Rio de la Plata. Sono arrivato all’una di notte per non rischiare di rimanere fuori vista la capienza risicata. Finisce che dentro il locale per ora siamo solo io e lo staff. Ma hanno divani comodi, il Fernet & Cola e la musica figa. No pasa nada, la notte è giovane.
Ho pensato di approfittare di questo involontario lasso di tempo senza WiFi o contatto umano per tirare un po’ le somme su questa esperienza che senza alcun dubbio è stata tra le più sfiancanti ma anche illuminanti della mia vita. E la convinzione che ho maturato per l’ennesima volta è che passiamo la nostra vita a farci dire che dobbiamo evitare il rischio. Che bisogna sempre dubitare di tutto e tutti. Che girare col pilota automatico in modalità “paranoia” sia l’unico modo possibile per (soprav)vivere. Andando così poi a rinunciare ad un sacco di esperienze memorabili per colpa di un’armatura spesso non necessaria.
Però è inutile negarlo. Ci sono stati alcuni momenti in cui il culo ce l’ho avuto bello stretto durante questa avventura. Ma se devo essere sincero, quanto di quel sentimento era supportato da un’oggettiva evidenza? E quanto invece figlio delle suggestioni con cui mi approcciavo ad un continente da sempre additato come ostile e degradato? Il clubbing in questo caso mi viene incontro perché è un ottimo metro di giudizio: spesso le “nostre” feste sono in zone meno nobili della città, lontano dai riflettori dei Circhi Medrano per turisti. Abitate da persone che non sempre vedono di buon occhio chi non è pronto a rispettare la loro casa ed i suoi usi. Ed il Phonoteque è il perfetto esempio: quando sono arrivato mi hanno sgamato in un secondo e mi hanno piazzato il muso duro per turisti. Una volta capito che non ero capitato lì per caso, la cortina di ferro alla Sven Marquardt ha lasciato spazio alla cortesia di chi si sente onorato – ed anche un filo sorpreso – di essere il principale motivo per cui un europeo sia andato in Uruguay. Ed in effetti detta così fa un po’ sorridere: “Che diavolo ci fai da queste parti con tutto il ben di Dio che c’è a casa tua?!“. Una domanda che mi sono spesso sentito fare in giro per il mondo. E la risposta è sempre la stessa: “Perché lì non ci siete voi“.
(L’ingresso del Phonoteque di Montevideo; continua sotto)
Il grande valore aggiunto dei club in ogni parte del mondo è proprio quello umano. E questo vale specialmente in un Paese come l’Argentina, dove la musica viene vissuta esattamente come una partita di calcio in mezzo ad una barra brava. Anche nel club si salta, si canta, si sudano droga e mate fino a che non è ora di andare a casa. In questo caso intorno all’ora del brunch. A queste latitudini si percepisce nettamente una marcia in più sul piano dell’energia che il danceloor trasmette a chi suona. Qualcosa in cui come italiani ci possiamo riconoscere e che ha sicuramente a che fare con le origini latine di gran parte della popolazione Portena. Di contro, il suono di Buenos Aires non è per niente all’avanguardia: techno noiosa e psy-trance sono le due principali attrazioni nella Capital Federal. Ed entrambe hanno alcune venue di riferimento: da un lato il mitico Crobar – senza dubbio il club più famoso del Paese, imponente come il suo impianto audio – ed il Mandarine dove si concentra la maggior parte dei turisti. Dall’altro la scena underground capitanata da Bahrein, Cocoliche e Vox. Dove il tempo si perde mischiato fra acidi e braccia lasciate libere di disegnare forme astratte nell’aria torrida.
(L’interno del Crobar a Buenos Aires; continua sotto)
Inutile dire che se non avessi avuto degli amici in città probabilmente mi sarei fermato alla prima categoria. La fortuna di lavorare a Buenos Aires circondato da scappati di casa come me ha reso il processo di adattamento molto più naturale: ho visitato più stadi che musei, più club che clienti. Accettato che non esiste la vergogna quando scopri il delivery di empanadas in piena notte e fatto l’amore come neanche da adolescente. Potrebbe essere che mi sia scesa una lacrimuccia il giorno che sono dovuto andare via? Potrebbe essere. Perchè Baires è come essere tornato all’Italia dei nostri nonni: dove si stava peggio ma si apprezzava di più quel poco che di buono c’era. E in Sud America questo coincide con le proprie passioni. Vissute al limite del fanatismo ma condivise con le persone a cui si è più legati.
E se si dovesse eleggere il luogo della terra in grado di rappresentare al 100% questo tipo di sentimento, anche Rio de Janeiro sarebbe una sicura candidata. Come mi era accaduto con New York, tutto quello si cui avevo fantasticato negli anni pensando a Rio l’ho poi ritrovato nella realtà: la sabbia fina di Copacabana con il Pao de Açucar a farle da cappello ed i tanga succinti in ogni direzione, la caipirinha ghiacciata degli ambulanti fatta col ghiaccio che solo Dio sa da dove proviene, la torcida che scandisce il ritmo bailado durante una partita al Maracanà ed il Bondinho che scende dai vicoli irti di Santa Teresa fino a passare sopra ai celebri archi di Lapa. Dove la notte prende fuoco a due passi dal centro storico. Qua la festa si fa sul serio ed è quasi sempre all’aperto: dai bar che sparano musica discutibile a decibel apprezzabili di fronte a centinaia di astanti – impegnati in danze che assomigliano più che altro ad un baccanale – fino ai piccoli gruppetti di amici che improvvisano un samba usando utensili a caso per plasmarne il ritmo. Impossibile non venirne inesorabilmente risucchiati. Ve lo garantisco.
Il clubbing è un ottimo metro di giudizio: spesso le “nostre” feste sono in zone meno nobili della città, lontano dai riflettori dei Circhi Medrano per turisti
Per quanto riguarda la scena underground – fatta eccezione per il Fosfobox, un bel club principalmente techno a pochi passi da Copacabana – bisogna invece bussare dai cugini Paulisti, a poche centinaia di chilometri. Sao Paulo, coi suoi venti milioni di abitanti, offre un ampio raggio di eventi notevoli – c’era il Time Warp Brazil nei giorni in cui sono passato io. E dove, a differenza di Rio, la musica elettronica è parte integrante della nightlife locale. Le venue possono variare da quelle un po’ più fighette come il premiatissimo D-Edge – che per un anno è stato il club numero uno al mondo per DJ Mag, ma è anche un posto dove ti prendono le impronte digitali per entrare – oppure grattare un po’ sotto la superficie e scoprire autentiche gemme come il queer party Mamba Negra, organizzato in maniera itinerante una volta al mese. Non esattamente il più semplice nè da raggiungere nè in cui riuscire ad entrare, ma indubbiamente una vera boccata d’ossigeno per chi vuole solo abbandonarsi ad una notte di pura follia senza sentirsi costantemente sotto i riflettori.
Ora, la domanda che molti faranno è: ma quindi andare a ballare in Sud America è pericoloso sì o no?
Posso garantire che da questa parte del mondo venga naturale arrivare contratti come tartarughe dentro al guscio. Preparati ad un peggio che sì esiste, ma che si realizza rapidamente sia molto meno impattante di quanto ci sia concesso credere. E allora, dopo un iniziale fase di contrasto ed adattamento, viene naturale lasciarsi un po’ andare. Che non vuol dire diventare naif e non considerare più le possibili problematiche. Semplicemente si applicano le stesse norme di buon senso che permettono a chiunque di vivere un’esistenza serena a casa propria. Senza avere l’assillo di una costante – quanto inesistente – spada di Damocle perennemente sopra la testa.
(Un’immagine del party Mamba Negra a San Paolo, Brasile; continua sotto)
Lo dico per altro mentre un tizio in braghe corte e occhiali da sole si è messo a spacciare a mezzo da metro da me, sullo stesso divanetto, come se io neanche esistessi. Ed alla fine è una buona metafora di quello che ho visto nei diversi Paesi che ho visitato: la criminalità diffusa è un dato di fatto, così come un livello di povertà con cui non tutti sono abituati a confrontarsi. Questo non vuol dire che ció debba necessariamente impattare la vostra esperienza di viaggio. Eppure – ascoltando le opinioni di gente anche giovane – sembra quasi che si vada incontro ad una costante lotta per la sopravvivenza. Dove bisogna fare di tutto per essere invisibili e non dare confidenza a nessuno. Perdendo quello che poi è il grande valore del viaggio: le persone.
E più vi immergerete nella loro cultura, più vi renderete conto che nella nostra unicità ci assomigliamo più di quanto non immagineremmo.
In strada, allo stadio, nel club.