Quando il Field Day di Londra ha annunciato il suo headliner, ho pensato che finalmente avrei realizzato un sogno – ascoltare Aphex Twin dal vivo. Lo giuro, ero emozionantissima, non sto esagerando. Ero proprio elettrizzata: avrei finalmente sentito suonare colui che ha reso incredibilmente fertile il terreno dell’IDM, quello che ha composto uno dei miei dischi preferiti di sempre (parlo dello “scontato” Selected Ambient Works 85-92). Ero certa che avrebbe aperto la mia mente, stimolato pensieri e ispirazioni. Cari lettori, mi perdonerete e continuerete a leggere questo articolo anche se vi dirò che Aphex Twin non ha retto il confronto con le mie aspettative…?
Sabato 3 giugno il sole splende sopra Londra. Scendo ad Hackney, un flusso di gente sorridente mi fa da cicerone verso il Victoria Park. Faccio parte anche io della “gente sorridente”, d’altronde: sto andando a sentire Aphex Twin, come potrei non esserlo? La fila per l’ingresso scorre velocissima e, appena entrata, i tendoni da circo mi riportano alla mente un altro scenario, molto diverso, da deserto spagnolo. Incomincio a passeggiare per il parco: vi sono ben otto stage, diverse giostre, molti di punti di ristoro per soddisfare ogni palato (dalla cucina italiana, alla giapponese, alla vegana). C’è anche l’angolo del merchandising: vado a dare un occhio. Mi avvicino al primo stand che vende le t-shirt dei Run The Jewels, quelle degli Slowdive, di Flying Lotus e via dicendo; a quello fianco sventolano appese le magliette di Aphex Twin. Mi avvicino per guardare cos’altro offre il banco e noto la scritta “12″ Limited Edition Aphex Twin EP”, ma è barrata. Chiedo ingenuamente se è davvero finito e il commesso mi risponde di sì, quasi ridendo.
Non mi stupisco poi così tanto, sono già le due del pomeriggio, sono arrivata tardi. La mia personale line-up, prevedeva, in questo ordine: Ikonika, Forest Swords, Gaika, Raime, Death Grips, Kode9, Mike Paradinas, Flying Lotus, Aphex Twin e i Run The Jewels. Tra queste – tutte esibizioni piacevoli e interessanti – alcune meritano una nota ad honorem. Primo tra tutti il live di Mike Paradinas, fondatore della Planet Mu Records. UK bass, IDM, breakcore, e infine hardcore: un mix letale. La folla risponde con urla ed entusiasmo, le transenne resistono a malapena ai balli sfrenati. I Death Grips confermano il loro voler “scioccare” e convincono. Sono esplosivi, un ibrido tra metal-punk, hardcore hip hop e musica elettronica sperimentale. Peccato per l’impianto: probabilmente qualche guasto improvviso, qualche calibrazione andata male, fatto sta che la voce di Burnett non si sentiva adeguatamente e in generale si sentivano solo le alte e le medio basse distorte.
Il premio per la “miglior sorpresa” va invece a Flying Lotus. Mai avrei creduto che avrei apprezzato sentire la sigla di una serie televisiva ad un evento. Ma poi è arrivato FlyLo che, nascosto dietro a un telo da proiezione, suona il suo remix della sigla di Twin Peaks di Angelo Badalamenti. Ipnotizzante e seduttiva. Molto bello anche lo show visual, un gioco a due schermi, uno davanti e uno dietro all’artista. Alle 21.45 finalmente arriva il momento dei Run The Jewels (che mi hanno “privato” di circa quaranta minuti del set di Aphex, che ho poi recuperato sul sito di NTS), ai quali riservano lo stage più grande, tutto all’aperto. Il duo americano tiene il palco con naturalezza, dimostra di avere la stoffa dei numero uno. Killer Mike è inarrestabile con il suo flow e EL-P è proprio quel bianco che vorresti, quello che rappa come i neri, con la stessa credibilità.
Ora torniamo indietro di un’ora. Torniamo alle 20.54, quando nello stage The Barn si spengono le luci e poco dopo si riaccendono, insieme ad un boato da far invidia a qualsiasi stadio. Il The Barn è enorme, quasi non ne vedi la fine, ed è completamente gremito di persone, non c’è nemmeno un misero centimetro libero. Rischiando qualche volta la mia incolumità riesco a infiltrarmi più o meno verso il centro della sala. Intorno a me, una percentuale altissima di persone con la maglia con il famigerato logo. Direte voi, che c’è di strano? Niente, in effetti. Solo che vederlo qua scritto, non fa lo stesso effetto che averlo davanti. Capite? Mi riferisco all’impatto visivo: sembrava surreale, bello, toccante a tratti, come una partita di pallone di altri tempi.
Mentre sono schiacciata tra circa quattro, cinque persone inizia a suonare AFX. Cerco di concentrarmi il più possibile: voglio capire tutto, sentire tutto, non perdermi nessun dettaglio. Passano i minuti e… niente. Non succede niente. Niente di tutto quello che mi aspettavo, e niente di veramente degno di nota. Niente di davvero emozionante, niente davvero da ricordare. I minuti passano e il set (un ibrido tra Eurorack modulare e Traktor) scorre bene, non sto mica dicendo che ha suonato male. Ma posso dirvi che ho sentito molto di meglio nella mia brevissima vita? Si, posso dirvelo. Posso anche dirvi che saper passare da un genere all’altro è una impareggiabile skill; ma non quando il risultato poi è un set sconclusionato. Sì certo, possiamo (e dobbiamo) dire che il set è stato un sunto della sua storia, di quello che (probabilmente) lo rappresenta tra passato e presente. Questa è semplicemente l’oggettiva lettura che mi dà il metodo di esibizione da lui ha scelto, l’ibrido appunto: tracce proprie, trick tecnici – suoi e solo suoi – in aggiunta al mixaggio di altre tracce.
Uhm.
Questo è di certo il momento in cui entra in gioco la soggettività, la sensibilità di ognuno. Va bene. Però, concedetemi una domanda… In questi ultimi giorni, il web è stato invaso da milioni di contenuti riguardanti Aphex e il suo set al Field. Parliamoci chiaro, il Field è stato “Il Festival Di Aphex Twin”. E NTS che propone lo streaming non ha fatto altro che aumentare la dose di hype sull’evento. Ed ecco allora la domanda: a voi, voi fan, voi ascoltatori, voi che c’eravate, voi che eravate on line davanti al pc, perché vi è piaciuto Aphex Twin?
Io invece, mi sono chiesta perché non mi è piaciuto o, per meglio dire, perché non mi ha convinto. La mia risposta immediata è stata che, ovviamente a mio gusto personale, il signor James che conosco io, il genio asociale che vive isolato circondato da macchine, non ha fatto un set che mi parlasse di quel suo lato lì, che è il lato che l’ha reso un fuoriclasse, un’icona, lo spartiacque della musica elettronica. Però ecco, io sono una persona che pensa molto e questa risposta non mi ha soddisfatto. Sono andata a dormire con addosso quasi uno strano sentimento di senso di colpa: “Ma come Giulia, Aphex Twin non ti ha convinto?!”. Il giorno dopo, appena sveglia, subito dopo aver riascoltato tutto il suo set per averne un quadro completo, vedo apparire sul web le prime informazioni sul disco venduto al Field. Apro Discogs e ne vedo 4 in vendita. Da 400 a 700 Euro. Rimango sbigottita. Ma dai, addirittura? Poco dopo, su questo sito appare un countdown: “32: 24: 10: 08 circa“. Nella mia mente lampeggia subito l’idea di un nuovo disco. “Lo voglio!“, penso. Ma poi mi fermo un attimo e rifletto. Penso in profondità e mi dico che in realtà non lo voglio davvero e da qui nasce il motivo di questo articolo.
Aah, il marketing, che potenza. Creatura affascinante, diventata sempre più astuta e vorace con l’avvento del web. Ora: avete tutto il diritto di osservare che, nelle tecniche di marketing che vi ho appena elencato non vi sia niente di nuovo e avete ragione. L’hanno fatto gli Arcade Fire a Barcellona, l’ha già fatto lo stesso Aphex al Day For Night (Houston) e se vogliamo dirla tutta ha fatto in passato anche qualcosa di ben più invasivo. Basti pensare alla campagna pubblicitaria per l’uscita di “Syro” (Warp, 2014): un dirigibile verde con il suo logo disegnato sopra che solca il cielo di Londra e lo stampo dello stesso che apparare disegnato nelle strade di New York.
Il fatto che “Syro” risponda alla descrizione di uno dei lavori meno riusciti del nostro Richard D James appartiene sempre a quel genere di cose che è però quasi proibito dire: è assolutamente vietato dire che qualcosa prodotto da Aphex Twin non sia incredibile. Allora non può che essere così: le persone stanno maturando il proprio ascolto, il proprio gusto personale e siamo finalmente pronti ad accettare l’IDM come parte della musica elettronica popular. No? Ah! Ah! No. Sarebbe bello (almeno per me), e invece no. Niente di tutto questo. Fenomeni di questo genere – riguardanti l’effetto del marketing sulla classe liminale e la cultura di massa – sono già applicabili e ampiamente studiati in sociologia. La prova che certe reazioni del pubblico siano in qualche modo indotte “artificialmente” è sotto i nostri occhi, basta aprirli. Nulla vieta di scegliere di sottostare a certe tipologie di “manipolazione dei gusti”, ma è (quasi) obbligo morale esserne consapevoli.
In un momento cinico come quello in cui mi trovo, questi movimenti di marketing potrei descriverli tramite l’aggettivo “gimmicky”: ossia privi di sostanza, ma ricchi di trovate pubblicitarie per attrarre l’attenzione di un numero esteso di persone. Dato di fatto. Eppure per alcuni il ritorno di Aphex in quel di Londra, e il presunto rilascio di un nuovo album, ha tutta la legittimità di essere dichiarato “evento subculturale”. E se invece entrassimo nel mitismo? L’influenza di Aphex potrebbe essere davvero così estesa? Non è che forse sta, semplicemente, “vivendo di rendita”? O forse dovremmo chiamare in causa la beneamata Warp? Chi c’è dietro tutto questo? La personalità di Richard D. James, o l’abile mente del marketing manager di Warp (…che si dice essere Steven Hill, nominato tra l’altro per diversi premi di marketing per le campagne del suddetto AFX, di Boards of Canada e di Oneohtrix Point Never)? Chi c’è a rendere inconsciamente pilotate le nostre scelte? Il suo nuovo disco ci piacerà veramente, o saremo indotti a farcelo piacere?
È tendenza comune nella società dei consumatori acquistare tutto ciò che viene dichiarato “nuovo” anche se ha sapore di riciclato, e abbiamo ormai sviluppato una dipendenza verso il “sentimento d’attesa”; è proprio questo lo scenario in cui il nuovo disco (se ci sarà) non necessiterà nemmeno d’essere realmente buono, così come le sue esibizioni: basterà averlo, o esserci stati. Esserne parte in qualche modo, essere ingranaggio di quel meccanismo di marketing di cui siamo – consciamente o inconsciamente – succubi. E in fondo, non è poi vero che ogni artista “all’avanguardia” è sempre alla ricerca di un modo per catturare l’attenzione del pubblico?
Tutto torna: il viso manipolato, nascosto o glitchato, codici e indizi da scoprire. Un grande esperimento di marketing andato più che a buon fine, superando forse le aspettative: ha creato mondi virtuali in cui l’esperimento può vivere e auto-sostenersi.
Per chi non se ne fosse accorto, ci stiamo già incamminando verso l’epoca dell’iperconnesione sistematica, non è più così lontana. Che ci piaccia o no, tutto è basato sui computer, la nostra economia così come le attività creative: non siamo (ancora) fisicamente connessi con loro, ma non significa che non facciano parte della nostra mente. Forse la musica di Aphex Twin e il marketing studiato da quella potenza-pop che è la Warp parla specificamente ad una frazione del nostro cervello, frazione che nel corso degli anni si è evoluta per capire come vivere e gestire al meglio le informazioni nei mondi digitali.
Aphex Twin e la Warp hanno saputo sfruttare al meglio le forze del web, le sue dinamiche più intime, generando una potenza inaudita: e forse proprio grazie a – o a causa di – tutte queste prove tangibili, non è magari che possiamo veramente renderci conto di quanto le nostre vite si siano trasformate, si stiano trasformando?
[Immagini all’interno dell’articolo by Andrew Whitton]