Il prossimo sabato, il 24 febbraio 2018, Andrea Oliva sarà a Milano, all’Amnesia. Con lui si va sul sicuro, come dj è una garanzia, sai quello che trovi e quello che cerchi lo avrai. Non bisogna però dare per scontato tutto questo: per arrivarci, ad una consistenza e costanza di questo tipo, bisogna avere talento, qualità e metodo. E se con Andrea si parla sul serio, non scambiando quattro chiacchiere di circostanza, quello che emerge è il ritratto di una persona non solo molto gentile, ma anche molto intelligente e consapevole. Questa è una conversazione che ci scambiammo un po’ di tempo fa, all’Extrema Outdoor in Belgio: è il momento giusto per tirarla fuori, adesso. Anche perché è davvero interessante e piena di spunti, ora come allora.
Allora Andrea, ce la stiamo chiacchierando qui all’Extrema Outdoor, in Belgio, e la situazione è super. Ma si sa, in Belgio e Olanda si sta benissimo, a livello di eventi. In Svizzera invece, la tua nazione, com’è la situazione ora?
Ti dirò, a livello di clubbing la Svizzera è messa secondo me molto bene. Ci sono almeno due o tre club veramente seri. Non sono grandi, non sono posti da 2000 persone, hanno una capienza sulle 500/600 persone, ma ci vengono a suonare veramente tutti i migliori. C’è una cultura consolidata, in fatto di clubbing, in Svizzera. Negli anni ’90 era una nazione già conosciutissima per i grande rave legali. Da dove vengo io, Basilea, c’era all’epoca anche un club, il Planet E, che ha fatto veramente la storia. Mi diceva Derrick May che era stata la sua prima data seria in Europa, figurati. Per molti anni in Svizzera sono stati grossissimi sia la drum’n’bass che la trance… soprattutto la trance. Tra il 1995 e il 2000, la stagione d’oro dei rave che ti dicevo, il floor trance poteva vedere qualcosa come 20.000 persone, mentre la sala dove si suonava magari UK garage ne radunava a malapena 400 o 500, figurati! Ora le cose sono un po’ cambiate, i grandi festival sono un po’ calati, ma continua a esserci una bella cultura diffusa.
Mi parli un po’ del periodo di Banditz, la serata che per certi versi ti ha messo un po’ sulla mappa?
Sì! E’ una serata che creai assieme ad Agi Isaku, era il mio migliore amico all’epoca – e lo è ancora adesso. Andammo avanti per cinque, sei anni, con grandi soddisfazioni, girando un po’ dappertutto in Svizzera, poi decidemmo di comprare noi un club, il Nordstern, a Basilea.
Addirittura comprarlo? Coraggiosi!
Già. Era un club che conoscevamo bene, c’avevamo già fatto un po’ di serate nei nostri primi passi, e tornare lì era una specie di “back to the basics”, con però la responsabilità di essere noi ora a gestire tutto. Da quel momento però io ho deciso di concentrarmi più su me stesso, sulla mia carriera, sulla crescita del mio profilo a livello internazionale, Agi si è dedicato al club.
Buona cosa dividersi i ruoli. Però ecco, scusa, la stai facendo facile: “Ho deciso di concentrarmi più su me stesso”. Lo fanno in tanti, ma pochi sono riusciti ad ottenere i risultati che hai avuto tu in questi anni. Non basta “concentrarsi su se stessi”, detto così in modo generico. Qual è il vero segreto, la vera ricetta da seguire?
Sai qual è il problema di questa nostra scena? L’hype che si crea attorno a questo o quell’artista. Spesso esagerato, spesso effimero. All’improvviso senti parlare tantissimo di qualcuno, poi però lo vai a sentire e… delusione. Puoi fare tutto il casino mediatico che vuoi attorno a un nome, ma se poi non c’è sostanza la cosa non dura. Quindi ti dico: la prima formula magica è saper stare con i piedi per terra. La seconda, produrre tantissima musica. La terza, essere pazienti. La quarta, volendo, sapere ragionare in prospettiva, avere una visione delle cose tarata sul lungo periodo. Quello che non bisogna fare, o non bisognerebbe fare, è saltare sul suono del momento, ecco: lo fanno invece in tantissimi. Ma se tu guardi bene a quali sono considerati i nomi forti del nostro universo, sono tutti artisti che hanno un suono ben riconoscibile e che sono riusciti a “disegnare” un immaginario ben preciso attorno a se stessi. Nel mio piccolo, è quello che cerco di fare anche io.
Bene: allora ti tocca descriverlo, questo tuo immaginario. Vai.
Prima cosa: è sempre importantissimo far divertire la gente, farla stare bene. Non per ruffianeria. Io guarda, sono uno che suona in contesti molto diversi. Suono all’Ushuaïa, che ovviamente ha un’impronta molto mainstream, ma suono anche al Panorama Bar o in club veramente di nicchia. Mi piace mantenere questa diversità. Rappresenta perfettamente il mio amore per la musica, che non vuole avere steccati. Sai, io ho iniziato lavorando nella distribuzione discografica, in questo modo ho imparato a rispettare tutta la musica e la diversità dei contesti a cui riferirsi. Io so che una mia discreta caratteristica – un po’ il mio punto forte – è saper “leggere” bene la pista, in qualunque situazione mi trovi. Una abilità che mi arriva dai molti anni spesi a fare i set di warm up come resident. E’ qualcosa a cui tengo molto, qualcosa che ritengo molto importante. Poi sì, in generale nei miei set cerco sempre di essere molto coinvolgente dal punto di vista ritmico. Ecco, sì, diciamo che per me l’obiettivo numero uno è creare “good vibes”.
Non è poco.
Spero non lo sia (ride, NdI).
Sai qual è il problema dell’Italia, nel clubbing? Che tende troppo a lamentarsi
Come va in Italia, a livello di “good vibes”?
Sai qual è il problema dell’Italia, nel clubbing? Che tende troppo a lamentarsi. E a dare eccessivo credito a tutto quello che arriva dall’estero, sminuendo quello che invece arriva dalle proprie parti. Chissà perché. Forse perché voi italiani rimanete tanto lungo a vivere a casa dei genitori, chissà? E quindi vi viene più facile lamentarvi, ce l’avete proprio come abitudine, ti lamenti della situazione però non fai molto per cambiare le cose… non lo so. Quello che so è che questa situazione è paradossale: perché per come la vedo io, l’Italia è uno dei paesi più forti del mondo per quanto riguarda il clubbing. Vieni a suonare al Tenax, ed è una serata super; vieni a Milano, e ogni volta va alla grande; vai al Guendalina, ed è un posto fantastico; suoni allo Spazio Novecento, a Roma, e ti torna indietro una energia pazzesca. L’elenco potrebbe essere lungo. C’è un impatto, un entusiasmo assolutamente eccezionale in serata; poi però parli singolarmente con le persone ed è tutto un “Eh ma in Italia…”, non va questo, non va quello: è strano! Poi, altra cosa che devo dire è che in Italia vedo veramente tanta competizione, forse troppa. Osservando dall’esterno, vedo poca collaborazione tra artisti. Pensa a quello che fu Made In Italay; Ralf, Coccoluto, Massimino, che arrivavano all’Amnesia e facevano sold out, ma soprattutto rappresentavano proprio una “comunità” dove l’impronta italiana era dichiarata, era un fattore distintivo. Anche oggi avete grandissimi artisti, dal seguito pazzesco: Joseph, Marco, Ilario, i Tale Of Us, Marco Faraone… sono tanti, l’elenco probabilmente potrebbe continuare un bel po’. Ma tutti loro, almeno questa è la mia impressione, lavorano ognuno per sé – non portano la bandiera dell’italianità in quello che fanno, anche se potrebbero. Gli inglesi e gli olandesi invece sì che lo fanno, e da sempre. La differenza si vede. Sono convinto che se in Italia si tornasse a ragionare tutti assieme nel “rappresentare” l’italianità, l’Italia ad alti livelli spaccherebbe ancora di più di quanto spacca adesso.
Te la butto lì: a parità di talento e di musica prodotta, se tu fossi nato in Italia invece che in Svizzera forse non avresti fatto tutta la strada che hai fatto. Vero? Falso?
Forse no. Ma chi lo sa? Di sicuro, fossi nato in Italia avrei lavorato duro per creare prima una mia serata e rafforzare una mia crew, prima a livello locale e poi via via a livello nazionale. Dopodiché, chi può dirlo fino a dove sarei arrivato. Resta un fatto: suonare in Italia è meraviglioso. Ogni tanto la mia agenzia mi dice “No Andrea, non accettiamo questa data, in Italia forse hai già suonato troppo nell’ultimo periodo…” e io rispondo sempre “No, vi prego, fatemi suonare! Lì mi diverto sempre troppo!”.
Domanda pesante, visto che hai tirato fuori il tema del booking e delle agenzie: attorno alla club culture e ai dj stanno iniziando a girare troppi soldi?
Che questa sia una questione su cui ragionare, è ovvio. Poi chiaro: se un promoter ti paga 40.000 euro (non è il mio caso, ma per alcuni miei colleghi lo è) e poi vengono in serata 5000 persone, queste sono cifre perfettamente giustificate, che stanno completamente in piedi. Però è vero che nel nostro universo molti numeri si sono via via gonfiati col tempo, e per molte persone, tant’è che ogni tanto ti arrivi a chiedere “Ma io li merito veramente, tutti questi soldi? Solo per venire a mettere dei dischi?”… Ecco, forse su questo dovremmo tutti quanti fare un ragionamento sincero.
C’è una cosa importante da dire: nella nostra scena, la moneta più preziosa sul lungo periodo resta per fortuna la credibilità. E la credibilità non è qualcosa che ti guadagni facendo il fighetto in giro, mettendo foto su Instagram e cose così; la credibilità te la guadagni coi tuoi comportamenti, con l’onestà, con la coerenza
La risposta a questa domanda?
Che siamo tutti pagati troppo. Assolutamente. Però guardiamo anche al lato meramente numerico: se quando suoni vengono ogni volta 10.000 persone a sentirti e pagano il biglietto, è per certi versi giusto che tu chieda 100.000 euro per suonare. E’ matematica.
Però in generale questo aumento dei prezzi che tocca un po’ tutto e tutti, non solo i “grossi”, rischia di mettere in difficoltà chi lavora a livelli medio-piccoli. Anche perché per arrivare al livello dei “grossi”, devi ad un certo punto lavorare molto nel diventare il prima possibile un “personaggio”, quando ancora al top assoluto non ci sei arrivato.
Vero. Ma appunto: sta a te. A te come artista, a te come dj. Cosa vuoi? Cosa desideri veramente? Ci sono molti club medio-piccoli dove adoro suonare, e per andare lì sono il primo a ridurmi il fee. Non me ne sono mai pentito. Perché ci sono certi posti che, anche se piccoli, ti regalano una esperienza di comunanza e condivisione che è preziosissima, almeno per me. Davvero: è questione di scelte. Ognuno fa le sue.
Beh, ci sono anche quelli che astutamente dicono di farle, ma in realtà delegano tutto alla propria agenzia o al proprio management, che ha sempre come primo scopo quello di massimizzare i guadagni, perché comunque c’è una struttura da tenere in piedi.
Accade, hai ragione. Però non si può dimenticare quanto questa comunanza e condivisione di cui parlavo prima sia importante non solo per te ma per tutto il sistema del clubbing. Diciamo che l’ideale sarebbe mantenere, nella propria carriera, un buon mix fra la ricerca di arrivare a livelli sempre più alti e la capacità invece di mantenere un contatto sincero e corretto col nocciolo più hardcore della scena da cui sei partito. In generale siamo in mezzo ad una situazione molto strana, se ci pensi: la club culture, nell’ottica di quello che è l’industria globale dello spettacolo e dell’intrattenimento musicale, è una nicchia piccolissima. Viene vista così. Però poi ci sono situazioni paradossali: in Svizzera, per dire, abbiamo band che vendono 100.000 copie dei loro dischi, un traguardo inimmaginabile per chiunque appartenga alla scena tech-house, eppure non creano il giro d’affari e di fatturati che crea un dj ad alti livelli. Sempre parlando di Svizzera, da noi c’è un premio molto importante e riconosciuto, lo Swiss Music Award. Conosco chi lo guida. E un giorno gli ho detto “Ma tu lo sai, vero, che c’è un artista svizzero che si chiama Luciano che fa il decuplo dei soldi rispetto alla band che hai appena premiato come band più grossa dell’anno?”. Ovviamente, lui Luciano non l’aveva mai sentito nominare.
C’è ancora una separazione netta fra circuito della club culture e circuito della musica live. Anche se negli ultimi anni ci sono sempre più esempi di artisti di matrice dance che tentano di entrare nella sfera del live e in generale di “dialogo” tra questi due mondi. Ecco: tu hai mai pensato di costruire un vero e proprio live, con tanto di musicisti?
C’ho pensato, naturalmente, ma credo che sia qualcosa che farò davvero solo quando sarò un po’ più “adulto”. Non solo anagraficamente: intendo proprio anche musicalmente. C’è una cosa importante da dire: nella nostra scena, la moneta più preziosa sul lungo periodo resta per fortuna la credibilità. E la credibilità non è qualcosa che ti guadagni facendo il fighetto in giro, mettendo foto su Instagram e cose così; la credibilità te la guadagni coi tuoi comportamenti, con l’onestà, con la coerenza. Bene, io non credo di essere ancora arrivato al livello da potermi permettere un live con tanto di musicisti ad accompagnarmi. Prima di tutto perché un musicista vero, uno preparato, mi dà almeno due giri! Quello che facciamo noi dj è bello, è profondo, è fatto di passione e conoscenza, ma se inizi a paragonarci con musicisti veri, se inizi a paragonarci con gente come i Radiohead, semplicemente il confronto per ora non inizia nemmeno, a livello creativo. Perché quello che facciamo noi, in fondo, sono dei “tool energetici” per fare stare bene la gente in un club. Fare un concerto vero e proprio, magari in un festival importante, è proprio un altro sport.
Però in realtà tu sei un artista che ha voluto anche fare degli album. Non sei solo uno da tool, dai.
Perché penso sia comunque importante far vedere anche un altro lato di quello che sei. Un album in effetti è qualcosa che non va sentito in un club: va sentito in casa, va sentito in macchina mentre stai viaggiando, è proprio un’altra dimensione. Soprattutto, un album quasi sempre è qualcosa che puoi risentire volentieri anche quattro, cinque anni dopo che è uscito, mentre per quanto riguarda le tracce singole create per i club hanno una vita di tre, quattro mesi poi tu per primo sai che quasi sicuramente non verranno mai riascoltate. Quindi sì, l’album è qualcosa che fai prima di tutto per te. Poi certo, non nascondiamolo, un album serve anche a darti un certo profilo, un management di un artista ci gioca sopra, è innegabile: quindi va a finire che un album serve anche per farti fare più date in club anche se è musica assolutamente non fatta per club, ironico vero? Il mercato ha le sue regole, devi conoscerle e devi saperci giocare, senza subirle.
Sei soddisfatto del livello di popolarità che hai raggiunto? O vorresti crescere ancora, come profilo?
Cos’è la popolarità? Dipende dalla risposta che ti dai. La prima risposta è: se i miei amici e le persone che stimo apprezzano quello che faccio, questo per me è già essere popolare. Dopodiché, io voglio senz’altro esportare sempre di più il marchio Ants nel mondo, renderlo sempre più forte, anche perché questo mi consente di essere sempre più in controllo di quello che faccio, di poter determinare io tutte le mie scelte e di poter sempre più essere io a scegliere le persone con cui lavorare.
Ecco, Ants: in questi anni è sempre stata una specie di “riserva indiana” diciamo così underground in un contesto sempre più spiccatamente mainstream come l’Ushuaïa.
Capisco che molti la vedano così, ma sai cosa? Ants è un marchio che io ho creato assieme all’Ushuaïa stesso. Sento molti dire “Ah, ma l’Ushuaïa è solo EDM ormai, Ants è l’unica cosa decente…”, ma dovrebbero sapere che l’Ushuaïa è (anche) Ants, non c’è nessuna contrapposizione, anzi! Bisogna avere l’onestà di capire che oggi, se hai la necessità di muovere un grandissimo numero di persone, e l’Ushuaïa per come è strutturato ce l’ha, non puoi fare solo serate tech-house. Almeno, oggi non è più possibile. Poi, in un futuro, chissà…