Scena: interno di una stanza d’albergo nella parte nord di Milano. Il signor Andrew Weatherall è in città, la sera farà un set in uno dei migliori club di Milano e pure d’Italia, il Wall (set che sarà strepitoso: tech-house chirurgica, piena di invenzioni sottili e di accostamenti fatti con classe non urlata ma suprema). Invece di scene da rock’n’roll e dj star system il signor Weatherall sta sorseggiando un té ed è entusiasta, assolutamente entusiasta di poter scambiare quattro chiacchiere con noi. Quattro chiacchiere? Riduttivo definire così quest’intervista. Il signor Weatherall è un pozzo di scienza, di storia, di umanità, di simpatia, di umiltà. Qualcosa che ti riconcilia con tutto il lato meno bello della club culture: quando incontri gente troppo arrogante accompagnata da troppo hype che fa set troppo prevedibili di fronte a un pubblico troppo di bocca buona. Qua la storia è ben diversa. Dal tardo pomeriggio di questa intervista alla quasi alba di quando ha suonato l’ultima pezzo, una giornata meravigliosa. Grazie, signor Weatherall.
Guarda, partiamo subito con “Convenanza”, il tuo ultimo lp da poco uscito. La mia impressione, magari del tutto sbagliata, è che sia un disco che in tutto e per tutto riporta alle vibrazioni del periodo in cui tu hai iniziato seriamente a produrre musica: fine anni ’80, inizio anni ’90. Aggiungo: sento molta “inglesità”, in quel disco… e volendo ci sento perfino un pizzico di Clash, tanto per essere ancora più britannici. Dico cazzate?
Ma no, non sono per nulla cazzate. Anzi. E’ che chiunque ascolti quel disco viene fuori con paragoni diversi: questo è molto divertente, davvero! Tu parli di Clash, altri hanno messo in campo Fad Gadget o i Fun Boy Three, altri ancora menzionano gruppi che, guarda, io manco mi ricordavo di aver mai ascoltato… Tutto questo però è normale, la musica che faccio è un prodotto anche del mio inconscio, è anche la sommatoria di tutti gli ascolti che ho fatto negli anni. Anzi: è anche e soprattutto questo. Perché io di mio non decido mai di fare un disco che “Ora questo lo voglio far suonare come…”: questo non solo come scelta di principio, ma pure perché il mio è un flusso di produzione continuo, “Convenanza” ad esempio è stato scritto nello stesso periodo in cui lavoravo al materiale a nome Woodleigh Research Facility e ti dirò, manco pensavo che ne sarebbe venuto fuori un disco, è che riascoltando quanto prodotto in quelle settimane in studio ho pensato “Uh, magari qua ce n’è abbastanza per fare qualcosina, magari addirittura un album, tutto sommato mi pare materiale con una direzione ben precisa – ora che lo sto riascoltando. Perché no”. Poi gli album escono e la gente dice che sono influenzato da questo, che sono influenzato da quello, che ho messo rimandi a, eccetera eccetera. E mica ha torto. Solo che ecco, non sono rimandi intenzionali. Io sono molto, molto felice che le persone mettano in campo riferimenti, quando sentono la mia musica: e più i riferimenti sono vari, più sono contento! Perché se dicessero tutti la stessa cosa, se dicessero tutti che ho preso spunto proprio quell’artista o da quella band, beh, vorrebbe dire che c’è qualcosa che non va. Che magari l’ho fatto davvero di ispirarmi ad un modello ben preciso, e l’ho fatto troppo – invece di essere originale e spontaneo. Ad ogni modo, riassumendo: sì, avete tutti ragione! Per ogni influenza che citate! Io colleziono dischi da quando avevo dieci anni: sai cosa significa? Che sono quarantatré anni che sto accumulando ascolti! Quarantatré! Ma poi fosse solo la musica… Per dire: io non ascolto mai musica con le cuffie perché non mi piace essere del tutto disconnesso dal mondo. Quando lo sei, ti perdi tantissimo.
Ehi, questo è interessante.
Oh, io amo la mia collezione di dischi, intendiamoci. L’adoro. Ma qualche volta, quello che c’è là fuori – nel mondo – è piuttosto interessante. Io sono molto fortunato: il mio lavoro è, prima di tutto ascoltare musica. Bene. Se tu invece hai un lavoro che non ti piace, che ti fa magari pure schifo, capisco perfettamente che appena possibile tu voglia disconnetterti dalla realtà, e ti piazzi le cuffie addosso (…e a Londra fa impressione come tutti in metropolitana, all’ora in cui si esce dagli uffici, abbiano le cuffie addosso): non sarò certo io a biasimarvi, anzi! Tanto più che è molto probabile che sia solo quello il momento della vostra giornata in cui potete dedicarvi ad ascoltare la musica che vi piace, quindi vi volete godere l’esperienza nel modo più totale possibile. Il mio caso tuttavia è diverso. Però boh, anche quando ero giovane e quando lavoravo – e fidati, ho fatto anche dei lavori decisamente merdosi – non ho mai voluto essere completamente disconnesso dal mondo. Per dire, ho sempre un’agenda con me: così se mi viene in mente qualcosa mentre sono in giro, mentre cammino, mentre sono sul bus, me la scrivo subito. Se sento una frase… o anche solo una singola parola, che però cattura la mia attenzione… eccola, subito appuntata. Che poi, occhio, non è nemmeno questione solo di parole, di materiale buono per i miei testi; anche i suoni, anche i ritmi. Camminando per strada, tra rumori del traffico e cantieri vari, ti può benissimo capitare di sentire delle cose che diventano ispirazione immediata per costruire, che so, dei pattern ritmici. Tutto può influenzarmi insomma, tutto. Mi piaceva però molto quella cosa dell’”inglesità” che dicevi…
Prego.
Il mio approccio, me ne rendo conto, è effettivamente molto inglese. Anche perché io sono affascinato, profondamente affascinato dalla storia inglese; quella europea in generale, ok, ma quella inglese in particolare. Studiare bene la storia ti aiuta a capire molto meglio chi sei. Ho un grande rimpianto: il mio insegnante di storia, a scuola, nella seconda guerra mondiale era stato un pilota delle nostre forze d’aviazione e merda quante storie avrebbe avuto da raccontarmi, mentre io invece non me lo filavo, mi stava sui coglioni e basta, sai com’è, la solite banali ribellioni adolescenziali contro tutto quello che è autorità. Perché chiaro, quando sei adolescente ti senti il centro del mondo, l’unico che ha cosa importanti da dire e da pensare. Eh. Più vai avanti, più ti rendi conto quanto questo modo di pensare sia una fesseria.
Eri un adolescente di quelli fastidiosi?
Ero una totale testa di cazzo! (ride, NdI) Non tutti gli adolescenti lo sono ma io, beh, lo ero. Decisamente. La mia crescita è stata strana: i miei nonni erano decisamente appartenenti alla classe operaia ma coi primi anni ’60 una parte di questa classe operaia ha iniziato ad effettuare – desiderandola fortemente – un’ascesa verso lo status superiore, quello di piccola borghesia. Questa cosa cosa ha investito in pieno i miei genitori. Sai com’è, dalla guerra ormai erano passati vent’anni, c’era crescita, sembrava ci fossero molte più opportunità e soprattuto che fosse doveroso coglierle: quindi appena possibile era il caso di dismettere le proprie radici operaie. Non li condanno per questo, sia chiaro, penso sia comprensibile. Sta di fatto che di punto in bianco hanno iniziato a disprezzare più o meno esplicitamente tutto quello che poteva sapere di estrazione bassa, di classe operaia. “Ah, così eh?”, pensavo io, da adolescente ribelle… E infatti, per dire, ho sviluppato subito lì la mia enorme passione per i tatuaggi: tanto per dargli conto, sapevo che l’avrebbero trovato stupido e gli avrebbe dato fastidio, all’epoca il tatuaggio era davvero qualcosa da working class dei bassifondi. Col senno di poi, comprendo perfettamente perché allora si arrabbiavano così tanto per queste mie uscite: loro volevano una progressione sociale, per sé e di conseguenza anche per me. Per me invece erano solo dei noiosi benpensanti. Contro cui agire, reagire.
Insomma, gli hai complicato la vita tantissimo.
Oh sì se l’ho fatto. Non adesso, ma allora sì. Adesso, vedo che mio padre tiene appeso – non in salotto ma nel bagno, vabbé – un mio disco d’oro, quindi credo che più o meno sia contento di quelle che sono state le mie scelte e ne vada perfino orgoglioso. Ora; prima, no di certo. Ma ripeto: non li condanno per le loro rigidità di anni fa. Semplicemente volevano per me più di quanto avevano avuto loro, nella vita. Da qui la severità. Che era tanta. Come ti dicevo, io sono entrato ben in profondità in tutto ciò che è musica fin da quando avevo 10 anni: Bolan, Bowie, il glam rock. Quelle robe lì. Per me era un modo perfetto per immergermi in un mondo parallelo, dimostrando a me stesso e agli altri quanto questo mondo parallelo (assurdo, ambiguo, coloratissimo) fosse possibile. Vivevamo non lontani da Londra, un sobborgo, diciamo una sessantina di chilometri dalla capitale: ma hai idea di cosa possono essere sessanta chilometri quando sei piccolo? Un oceano! E Londra, beh, Londra era la Terra Promessa… Vedevo questa gente in tv, questi cantanti assurdi, non capivo manco bene cosa succedesse e perché facessero certe cose e si vestissero in certi modi, ma… ma… l’attrazione che sentivo! Il fascino! Inspiegabile. Irrazionale. Trascendentale, quasi. Ecco, sì: perché le persone sentono il bisogno di andare in chiesa? Questo è il punto: più o meno, direi che stiamo parlando della stessa storia. In fondo, l’essere umano ha bisogno di “narrative” per dare un senso alla propria vita. Chi crede in una religione, se ci pensi, ha le sue narrative, i suoi inni, i suoi rituali; per altri non si tratta invece di religione ma magari di letteratura, di filosofi; il mio sacramento è stata la musica. A mio padre e mia madre la musica di per sé non dispiaceva, ma era un passatempo saltuario, che veniva fuori solo la domenica – qualcosa da fare dopo pranzo o dopo cena. Tuttavia il piccolo sistema stereo che avevano lo trattavano con grande cura, con sacralità quasi: inconsciamente, questo deve avermi convinto fin da piccolo che la musica era qualcosa di particolarmente importante.
Che dischi ascoltavano?
Beh, non proprio la mia roba. A colpirmi non era la musica in sé, ma appunto l’aura di importanza che la circondava. Mio padre, ecco, mio padre era un grande fan di Neil Diamond… non proprio il tipo di ascolto di cui, se sei ragazzino, puoi andare in giro a vantarti… (ride, NdI) Ma gli piacevano molto anche Barry White e Donna Summer: deve essere stato lui insomma ad introdurmi alla musica black. Mi ricordo ancora “Stone Gon’” di Barry White, ovviamente in vinile, con io che leggeva avidamente tutti credits sul retro di copertina. Ad un certo punto c’era scritto “Spiritual Advisor: Larry Nunez”. Ora: col senno di poi, adesso che sono un grande cinico bastardo!, posso immaginare che fosse tipo il suo spacciatore personale di coca, cose così. Ma quando ero giovane: wow!, “Spiritual advisor”, che roba!, che storia!, non puoi immaginare quanto la cosa mi colpisse da piccolo… Ad ogni modo: tolti Donna Summer e Barry White, non è che il resto degli ascolti paterni fossero granché. Ma c’era in realtà un’altra fonte preziosa, su disco, all’epoca vinili di quel tipo erano molto popolari: le registrazioni dei dialoghi di un sacco di commedie, a partire dalle cose dei Monty Python. Robe di scurissimo, cinico humour inglese.
Che è un po’ quello che spesso hai anche tu.
Già, e adesso sai da dove arriva. Quando ero piccolo, le prime volte che avevo il permesso di stare alzato fino a tardi per guardare gli show dei Monty Python direi che giocoforza capivo solo una parte di quello che dicevano, mi perdevo un sacco di riferimenti e stilettate, ovviamente ero più colpito dagli aspetti più superficiali, i travestimenti, le gag più grossolane; ma nel subconscio, secondo me, il tutto ha iniziato a scavare, in qualche modo mi è “arrivato”. Col risultato che sì, un certo tipo di ironia molto scura e beffarda è parte di me. Ti dirò di più: credo che sia anche parte della mia musica, decisamente. Sono molto contento che sia così. Perché se fai musica “scura”, è fondamentale ci sia sempre una punta di ironia e sarcasmo. Sennò diventi troppo ovvio, troppo monodimensionale. Anche concretamente, lavorando in studio, è così: più è scura la musica che sto producendo, più mi vedi ridere mentre sono dietro alle macchine. Davvero: la trappola da evitare è quella di fare musica monodimensionale. Prendi i Throbbing Gristle: scuri, apocalittici, ma se li ascolti bene c’era una quantità enorme di sottile sense of humour fin dall’inizio. Di quello davvero inglese, scuro e surreale.
La passione per un certo tipo di industrial immagino sia stata successiva alla tua prima infatuazione, quella per il glam rock, quella di cui si parlava.
Dirlo adesso sembra troppo prevedibile e scontato, ma: se sei un ragazzino che vive in un tranquillo sobborgo inglese negli anni ’70, cos’è che ti può cambiare la vita? La risposta è semplice: David Bowie. Anzi: David Bowie a Top Of The Pops. Dovendo poi citare un altro disco fondamentale per me in quegli anni, direi “Seasons In The Sun” di Terry Jacks. Ero giovanissimo quando venne fuori, e a folgorarmi fu la title track – che era una cover/trasposizione di “Le Moribond” di Jacques Brel, ovvero un funerea ballad di un autore belga. Cioè: se hai tipo dieci anni e la tua canzone preferita è una depressiva e deprimente ballad di un tizio belga, forse non sei un ragazzino del tutto normale. No? Non che a dieci anni la capissi del tutto quella canzone, ma mi impressionava tantissimo. Era, in qualche modo, quello che cercavo. Vivevo in un sobborgo, in un tranquillo contesto di piccola borghesia: cercavo un’evasione in un universo parallelo. Un universo che non volevo fosse troppo “di fantasia”, perché tutte le faccende fantasy e prog rock non mi sono mai andate a genio, ma doveva piuttosto essere qualcosa a metà tra lo strano e il reale. A pensarci adesso, è stato molto sano per me essere all’inizio uno che abitava non a Londra, ma fuori: sì, ti facevi le tue gite nella capitale, poi però ad un certo prima di sera dovevi tornartene a casa, nella tua banale realtà. In questo modo non avevi il tempo di iniziare a dare tutto per scontato – intendo, quello che Londra ti può offrire. Avessi vissuto là fin dall’inizio, avrei perso troppo presto un certo senso “di meraviglia” che invece è stato fondamentale negli anni per me e la mia crescita artistica. Face, NME: non puoi capire quanto fossero importanti per me i giornali dell’epoca! Una finestra su un mondo incredibile! Ma prima di permettermi di poter fare un giro a Londra per comprar dischi e vestiti dovevo lavorare almeno un paio di mesi. Fatto il mio giro londinese, voilà: altri due mesi a sgobbare duro lontano da ogni lustrino e ogni splendore, nella mia stupida città di provincia. Quindi sì, la distanza fisica da Londra non era enorme, ma in qualche modo era come se lo fosse. Nella capitale mi sono trasferito solo da quando avevo venticinque anni, non prima. Oggi ci vivo da un trentennio, ormai, e sì, mi rendo conto che ho iniziato a dare per scontate tante, troppe cose. Cerco di non cascarci, ma…
Quando ti ci eri appena trasferito, Londra com’era?
Era molto affascinante ma al tempo stesso, mmmh, intimoriva. E tanto. Sai: per tutto il tempo dell’adolescenza e poi nei primi anni da maggiorenne ero io, nella mia cittadina del cazzo, quello figo, strano, eccentrico, vestito in modo particolare; arrivi a Londra e oplà, sei l’ultimo degli sfigati, non ti si fila più nessuno! Tuttavia sono stato molto, molto fortunato: appena arrivato a Londra una delle prime cose che ho iniziato a fare per sbarcare il lunario è stata proprio fare il dj, che all’epoca era considerata una professione senza nessuna charme, una delle ultime mansioni nella scala evolutiva del mondo del lavoro. Però di lì a poco sarebbe arrivata la ventata dell’acid house a stravolgere tutto e, insomma, quando è arrivato io un minimo di status come dj ce l’avevo già, ma appunto per forza d’inerzia. Oppure, ti racconto quest’altra cosa: a Londra ad un certo punto potei usufruire dell’appartamento di un amico di mio padre, una opportunità che avevo anche snobbato all’inizio fino a poi cedere. Uno dei primi giorni che mi trovo lì, vedo che davanti all’ingresso si ferma un taxi e ne esce Youth dei Killing Joke. Uno dei miei idoli! Lui in persona! Youth! Il bassista dei Killing Joke! Tanto che in realtà manco credevo fosse lui. Trovai comunque il coraggio e la faccia tosta di andare a parlargli, e saltò fuori che lui conosceva il pub dove all’epoca lavoravo come dj. Chiacchieriamo, chiacchieriamo, e ad un certo punto lui mi fa “Dai vieni su a casa mia che ti faccio conoscere il mio coinquilino”: era Alex Paterson degli Orb! Quindi boh, riassumendo, in poco tempo che ero a Londra facevo il dj – cosa che stava iniziando a diventare figa da fare e manco lo sapevo – e avevo Youth e Alex Paterson come amici e vicini di casa. Surreale. Poi guarda, anche ‘sta cosa del fare il dj e ‘sta cosa della club culture, a dirtela tutta… Mi spiego: io ho iniziato ad andare nei club sin da quando avevo quindici anni, figurati; arrivato a venticinque, ero già nella fase “Ah sì, i club, boh, bah, la solita solfa, sì carino, ma…”. Mi piacevano il soul, il funk, l’hip hop, la scena rare groove, ero anche stato in un po’ di Soul Weekenders… carino, sì… ma nulla che mi sembrasse così sconvolgente. Tant’è che quando il mio amico Terry Farley iniziò a dirmi “Cazzo Andy, c’è questa serata chiamata Shoom, DEVI andarci” io lo presi un sacco sottogamba, e all’inizio snobbai un bel po’ di volte i suoi inviti. “Guarda che è pazzesco”, mi diceva, “c’è un sacco di teppaglia di Croydon che improvvisamente si è messa a tirar giù ecstasy e sono diventati tutti buonissimi”: che fiducia mi ispirava? Zero, te lo dico io. Sai la voglia di incontrare la gente di Croydon che si comporta da scema… figurati. Tanto più che l’ecstasy l’avevo già preso un po’ di tempo prima: ero con cinque, sei amici, ci prendemmo l’ecstasy, mettemmo su della musica, ma nel farlo facemmo imbestialire uno dei vicini che scese tentando di buttare giù la nostra porta… ne nacque una rissa, perché lui era veramente fuori di sé. Tutto questo mi fece pensare che ‘sto tanto decantato ecstasy non fosse niente di che, fondamentalmente non facesse un cazzo. Merda se mi sbagliavo!
Alla fine Farley ti ha convinto, poi.
Sì, e fin dalla primissima volta ho capito che qualcosa di speciale stava accadendo. Praticamente in quegli stessi giorni ci fu poi un Soul Weekender a Moorgate, nel Kent. Posti diciamo così abbastanza rudi – quindi anche i Soul Weekender li prendevano molto seriamente, con un dogmatismo feroce. Bene, ad un certo punto arriva Danny Rampling, era in line up anche lui, e appena folgorato dal verbo acid house invece delle solite cose da Soul Weekender si mette a suonare i Residents, i Woodentops, le primissime cose house… Insomma, scompagina completamente tutto, fa piazza pulita di tutti i luoghi comuni musicali possibili in quel contesto lì (…e non solo in quel contesto lì). Mi ricordo che ho pensato: “Questo! Questo è il mio treno! Questa è la mia roba!”. Perché sì, c’era il punk, in qualche modo mi ero agganciato alla faccenda: ma per ovvi motivi anagrafici mi ero agganciato per ultimo, da sfigato sbarbatello che mai avrebbe potuto contare granché, l’ultimo passaggero dell’ultimo vagone. Sentendo cosa l’acid house stava portando nel mondo della musica, ho invece subito pensato: “Sì. Questo sì. Questa è mia”. Anche perché il punk a parole era “Rigetta tutte le regole, fai quello che vuoi!” ma nei fatti era una scena incredibilmente dogmatica, “Questo è buono, questo è giusto, quest’altro no e devi SCHIFARLO”. Spesso la gente si dimentica che c’è un bel filo rosso che collega il punk e i “soul boys” di qualche anno prima – ovvero gente che prima di tutto pensava a vestirsi in modo particolare. Tant’è che all’inizio il punk era quasi più una faccenda modaiola e piuttusto Londra-centrica; è solo quando si è diffuso che si è politicizzato (e, contemporaneamente, il sistema ha voluto demonizzarlo, col risultato di politicizzarlo ancora di più di quanto lo fosse in realtà). Oh, le istituzioni sono riuscite a politicizzare persino l’acid house, renditi conto, lì dove l’acid house di politico non aveva assolutamente nulla, in origine. E’ che le autorità, nel loro proverbiale essere ottuse, hanno pensato “Ehi, che è ‘sta storia, se così tante persone si radunano in un colpo solo ci deve essere per forza qualcosa di politico, diamine!”. Col risultato che poi la politicizzazione è arrivata davvero…
L’arrivo di questa politicizzazione dobbiamo vederlo come un fattore negativo o positivo?
Beh, sicuramente ha avuto anche dei lati molto positivi. Il quadro è questo: io vado in un posto, penso solo a ballare e a divertirmi come uno scemo; però ad un certo punto mi trovo cinquecento poliziotti attorno a me in assetto anti-sommossa. Stai sicuro che quando ti succede, certe domande sulle politiche di controllo e sul loro senso ti trovi a fartele per forza. Ricordiamo poi che c’è una relazione velenosamente simbiotica tra politica – un certo tipo di politica, diciamo – e le culture giovanili: questo certo tipo di politica “usa” le culture giovanili emergenti per demonizzarle ed accreditarsi così presso l’elettorato più maturo; al tempo stesso queste culture giovanili sono perfettamente funzionali al mantenimento e al rafforzamento del sistema, visto che hanno l’effetto di portare nuove energie anche e soprattutto economiche data la loro propensione a creare nuove mode e nuove abitudini di consumo, quindi rinnovate risorse e rinnovati sbocchi di mercato. E’ successo col rock, è successo coi mod, è successo col punk, è successo con l’acid house: sistema e culture giovanili, anche quando sembrano nemici, in realtà si nutrono a vicenda. Però davvero tornando al punto quanto ti accennavo prima lo so per certo, ho le mie gole profonde: alla polizia inglese erano davvero convinti – avevano quella forma mentis lì, negli anni ’80 – che doveva per forza esserci una componente pericolosamente politica dentro i rave, qualcosa insomma di “rivoluzionario” politicamente. Per forza! Perché sennò secondo loro era impossibile che si potesse movimentare così tanta gente tutta assieme: era qualcosa che secondo loro la politica e solo la politica era capace di fare. Invece no: la politica non c’entrava nulla! Era solo gente che voleva sentire della musica e ballare. Non era politica, era edonismo. Soprattutto edonismo. E’ che a furia di cercare la politica, boh, hanno finito praticamente col crearla, per portarla lì dove appunto originariamente non c’era. Ad ogni modo, le cose in cui sono stato coinvolto io avevano comunque una dimensione differente: lo Shoom non era un party per 10.000 persone, come i grandi rave dell’epoca. Nemmeno per 1.000, se è per questo: eravamo tra i 300 e 500 ad evento, va’. Quindi in qualche modo non siamo mai finiti troppo nel radar delle istituzioni e delle forze di polizia. Qualche volta l’abbiamo fatta franca per pura fortuna, eh: mi ricordo che una volta avevamo organizzato un evento fuori città, completamente inconsapevoli che nella stessa sera a dieci chilometri da lì ci sarebbe stato uno degli eventi di Sunrise, una delle più colossali organizzazioni dell’epoca, faccende da 10.000 persone. Ovviamente la polizia, dovendo scegliere, venne da loro e ci snobbò completamente: alé, facemmo di tutto! Solo una volta siamo realmente finiti nell’occhio del ciclone. Noleggiamo un terreno di una fattoria, parlammo direttamente col fattore con le gestiva e lui, pensando prima di tutto a chiudere l’affare più alla svelta possibile, si guardò bene dal dirci che quei terreni nominalmente erano di proprietà della Regina, lui li aveva solo in gestione. Insomma, si fa la serata, al solito arrivano un po’ di amici “famosi” (ma per noi non erano tali: persone come Boy George o Paul Rutherford dei Frankie Goes To Hollywood venivano allo Shoom fin dai primissimi appuntamenti), tra le persone presenti c’erano anche dei ragazzi che erano figli di giornalisti e… successe il casino. Non credo che ci abbiano sputtanato apposta, i ragazzi, no: me li immagino che tornano a casa e dicono al pranzo della domenica “Sai papà, ieri ero a ballare in un posto dove c’era anche Boy George…”, “Ah sì figliolo? Ma dove, dimmi un po’?”, e insomma di passaggio in passaggio qualcuno avrà scoperto che quei terreni erano della Regina. Ti lascio immaginare lo scandalo. RAVE SUI TERRENI DELLA REGINA. Sdegno. Orrore. Io e i miei soci passammo i giorni a rispondere al telefono con “No comment”, “Non ne parlo”, “Vaffanculo”… Da lì in poi ogni nostro sforzo è stato diretto a tornare al di sotto dei radar delle autorità, facendo cose molto piccole. Che poi in realtà pure quella lo era, poco più che una cosa tra amici: ma era sui terreni della Regina. Accidenti.
Quand’è che questo incredibile mondo dello Shoom, dei rave, dell’acid house ha iniziato a venirti a noi?
Ti pare mi sia venuto a noia? Guardami! Se sono qua a Milano, è perché stasera sto per suonare, e farò l’alba… Non è cambiato nulla, faccio sempre le stesse cose (ride, NdI).
No dai, qualche differenza c’è rispetto a quegli anni lì, su.
Sinceramente non credo, sai. E’ sempre più o meno la stessa cosa. Solo che ho cambiato un po’ di contesti, va bene. C’è stato sì un momento che questa cosa dei rave e in generale la club culture hanno iniziato ad esplodere, è nata tutta questa faccenda del “superstar dj” e io, boh, stavo per finirci dentro: sai, i soldi che ti offrono sono tanti, le donne che ti ronzano attorno sono graziose, se hai bisogno di qualcosa – di qualche cosa ben precisa, e ci siamo capiti – te la danno subito con grandi pacche sulle spalle… Invogliante! Invogliante, ma non abbastanza: sono riuscito a capire in tempo che non faceva per me. Quello non ero io. Sai cosa mi ha aiutato a capirlo, a ricordarmelo? Il fatto che tutti i miei musicisti preferiti sono degli outsider, gente che è sempre rimasta fuori dai “giri giusti”. Non mi sono mai compromesso musicalmente, e va bene, questa è quasi una banalità, ma soprattutto ho visto che più salivi le scale della fama più c’era del lavoro da fare – ed era un lavoro che non c’entrava nulla con la musica e con la produzione in studio… anzi, quest’ultimo diventava un aspetto di relativa rilevanza rispetto a tutto il resto. Però: io amavo (e amo) stare in studio. E’ la cosa che amo di più. Ancora oggi. La cosa che mi fa star meglio. E quindi ho scelto di far sì che restasse sempre la mia attività principale. Della serie “Dai cazzo, lasciatemi in pace…”.
E hai deluso tutte le ragazze, ehm, graziose che ti aspettavano a braccia aperte.
Quando mi dicono “Oh Andy, che coraggioso che sei, che palle che hai avuto a voltare le spalle al successo facile” io resto sempre un po’ perplesso. Devo essere onesto? Ecco: no, non ero dell’idea che facessi chissà cosa di idealista e coraggioso, perché in realtà stavo semplicemente facendo la scelta più comoda, ovvero restare legato a quello che mi faceva stare meglio. Poi che ne so, probabilmente nel mio subconscio c’era ancora ben conficcata la convinzione originaria: quella che fare il dj era un lavoretto estemporaneo che serviva a racimolare qualche soldo, una bagatella che tempo due o tre anni sarebbe stata del tutto estinta come possibile attività sociale e lavorativa. Io non ero ambizioso. O meglio, la mia ambizione era abbastanza chiara: lavorare il minimo indispensabile per potermi poi permettere di comprare i dischi e i vestiti che mi piacevano. E pagare l’affitto, ok. Nei primi anni ’80, quando ho iniziato ad entrare nel mercato del lavoro, c’era ancora un welfare di un certo tipo, il sussidio di disoccupazione era ancora relativamente facile da ottenere, quindi lavorare un po’ sì un po’ no era abbastanza una condizione comune – credo che molta cultura pop degli ultimi decenni sia nata grazie a questa condizione. Una condizione oggi non possibile, perché in questi anni chi si fa mantenere dal sussidio subisce una sorta di stigma sociale, è visto come uno scansafatiche. Il deejaying? Pensavo sarebbe stata un’attività che sarebbe durata, almeno per me, un paio d’anni, non di più. Davvero. Poi non è andata così, fare il dj è diventato il mio lavoro vero e proprio (e sono contento di chiamarlo “lavoro”: la gente fa sempre fatica ad usare il termine “lavoro” per attività legate all’arte, e invece dovrebbe imparare a farlo molto di più). Un lavoro che amo, per giunta. E quindi sono felice così come sto. Incredibilmente, dopo trent’anni, sono ancora qui che faccio questo lavoro: significa che in qualche modo – molto per caso e con nessunissimo calcolo progettuale – sono riuscito a creare qualcosa che funziona, che sta in piedi, almeno per me. Così come conduco le cose io non diventerò mai ricchissimo, non diventerò mai famosissimo, ok: e allora? Che problema c’è? Intanto mi evito tutta una serie di pressioni che non ho proprio la minima intenzione di affrontare (e mai l’ho avuta). Sì, va bene, ogni tanto la gente arriva da me e mi dice “Ma come, ma perché, tu avresti potuto essere al livello dei Chemical Brothers, lo meritavi, lo meriteresti, che ci fai qua”: ehi grazie ragazzi, è molto carino che mi diciate queste cose, so che lo fate per dire quanto mi stimate, grazie!, ma fidatevi… io sto bene. Sto bene così. Non ho bisogno di altro. Sto alla grande. Certo volte, davvero, è come se la gente fosse arrabbiata al posto mio perché nel 2016 non sono un miliardario di successo… Succede ogni tanto su internet: lo vedo, lo leggo (anche se di solito il web lo uso solo per recuperare cose del passato difficili da trovare ma vabbé, ogni tanto leggo anche i commenti da forum, da social). Beh ragazze e ragazzi, grazie mille per preoccuparvi così tanto per me, lo prendo come un grande segno di stima ed affetto, ma vi giuro – io sto bene così! Sto benissimo come sto! Io, è come se fossi un artigiano: non faccio molti soldi ma ne faccio abbastanza per tirare avanti con la mia bottega facendo cose di cui, nel loro piccolo, sono orgoglioso.
Credo comunque che tu sappia che sei uno dei dj più rispettati dai propri colleghi. Chiunque di loro intervisti o con chiunque parli, quando il discorso cade su “Chi sono secondo i più bravi” tu appari praticamente sempre nella shortlist…
Mmmh, sì, immagino sia un po’ così. E’ venuto il sospetto anche a me. E me ne sono reso conto pochissimo tempo fa per la prima volta: Heidi, che tra l’altro è una mia carissima amica, un po’ di tempo fa mi chiese di curare per un mese la programmazione di un club londinese (poi non se n’è fatto nulla, ma ad un certo punto il progetto sembrava concreto). Al che mi metto lì, tutto preoccupato, a pensare a chi diavolo potrebbe accettare il mio invito. Heidi mi vede che ragiono tutto ansioso e mi fa: “Ma sei scemo? Non hai capito: se l’invito arriva da te sono tutti prontissimi a dire di sì, solo perché l’invito arriva da te. Richie, Ricardo, chiunque tu voglia”. Lei mi diceva questa cosa; ora tu mi dici che sono “il dj del dj”… Comincio a sospettare ci sia del vero…
Scusa, eh!
(ride, NdI) La cosa sicura è che se loro rispettano me, di certo io rispetto tantissimo loro. C’è tantissima di gente di cui sono fan totale. Uno come Hawtin, ma poi tutta la gente di Detroit, quelli che hanno fatto la storia… ancora oggi pensare che questi artisti mi abbiano anche solo sentito nominare mi sembra una cosa incredibile! Davvero! Cioè, renditi conto, loro sono i giganti di un genere musicale, dei pionieri: chi sono io, al loro cospetto, per meritare della considerazione? Io poi, che sono un pigro, che faccio il giusto indispensabile, che cerco di fare nel mio piccolo del mio meglio ma, insomma, non sono niente di che… Se non altro prendo tutto questo lavoro del deejaying con rispetto, sia nei confronti dell’arte sia nei confronti di chi mi viene a sentire; e su quest’ultima cosa ci sono arrivato un po’ dopo. C’è stato un periodo, infatti, in cui andavo a suonare decisamente fattissimo; poi però all’improvviso è arrivata la consapevolezza che questo del deejaying non era un gioco ma qualcosa di serio, di duraturo. C’ho dato quindi un taglio. Se tu vai al lavoro, non ci vai ubriaco o in MD, giusto? O in coca? Ecco. O meglio, puoi farlo, se guardi Hollywood o altre faccende da star system ti dicono che “Sì! Si può fare!”, però ti dirò la verità non volevo diventare un cliché ambulante. Quello è stato un ottimo deterrente.
Non sei un cliché, sei anzi ormai qualcosa di atipico: un artista dalla carriera notevolmente longeva. E come dj, ad esempio, ti capita ormai di suonare di fronte a gente di tutte le età – e la maggior parte delle persone di fronte a te potrebbero esssere non solo tuoi fratelli minori, ma direttamente tuoi figli. Non è una sensazione strana?
La sera prima di essere qua a Milano ho suonato a Lione e sì, di fronte a me c’era un pubblico decisamente giovane. Che poi, suonando, in effetti riesci a vedere solo i giovani visto che i vecchiacci ormai stazionano davanti al bar… (ride, NdI) Però vorrei fare una considerazione generale, che vale tra l’altro non solo per la musica ma credo ormai per un po’ tutte le arti: c’è talmente tanta roba in giro, ed è talmente facile averla a disposizione in tempo reale e magari pure gratis, che da un lato c’è sempre più l’ossessione del cavalcare la moda-del-momento dall’altro però, al contrario, si sta rivalutando molto più che in passato ciò che sono le radici, la storia. Io in qualche modo sono sopravvissuto, in questi venti, trent’anni; e forse adesso posso aspirare allo status di quello che, insomma, è un po’ significativo, che non è proprio l’ultimo dei coglioni. Del tipo: “Se è riuscito ad arrivare fino a qua dopo tutto questo tempo, qualcosa da dire ce l’avrà”. Il dramma è quando finisci nella categoria di mezzo: quelli che non sono la hit del momento ma non hanno ancora maturato abbastanza storia per essere considerati esperti, significativi. Ecco, quelli oggi sono fottuti. Detto questo, mi fa ancora stranissimo essere considerato oggi come un veterano della scena, quale in effetti sono. Per fortuna il rispetto che si dimostra verso di me non è al momento quello che si dà alle persona anziane, è più un “Cazzo, 53 anni e ancora ci dà dentro, in gamba il tipo”. Meno male!
Torna però col pensiero a quando tu avevi 20 anni o giù di lì. Immaginati questa cosa: sei in un club, e davanti a te sta suonando un dj di 53 anni. Cosa pensi?
“Che cazzo ci fa lì quella mummia…” (ride, NdI) Quello che posso dire a mia difesa è che io ancora oggi ho tantissima voglia di lavorare con i più giovani sentendomi assolutamente sul loro stesso piano, non sono – o non credo di essere – un vecchio trombone che va in giro a seminare prediche. Una delle cose che più mi fa tristezza sono gli artisti di una certa età che, sentendosi minacciati dall’avanzare delle nuove generazioni, iniziano con la solfa di “Eh ai miei tempi sì che le cose erano meglio…”: erano meglio per te, caro amico, ma vorrei ben vedere, ci mancherebbe, perché per qualsiasi ventenne le cose che sta vivendo sono le migliori, le più interessanti, le più fresche e significative. E’ stato così anche per me e te, ma è così anche per un ventenne di oggi. Quindi sì, credo che non mi sentirai mai pronunciare frasi tipo “Tu giovane credi oggi di divertirti, ma tu non sai come stavano le cose ai miei tempi, quella sì che era club culture…”. Oppure, altra frase detestabile: “Io facevo certe cose quando tu manco eri nato”. Accidenti che fastidio questi atteggiamenti, queste frasi! Ma ci sono, le sento in giro, lo so. Temo che molti artisti invecchiando inizino ad avere paura dell’avvento di nuove persone e nuove generazioni che gli facciano perdere lo status acquisito e allora iniziano a fare commenti acidi sulla contemporaneità, o comunque osservazioni su come ai loro tempi fosse tutto molto meglio. La mia posizione è semplice: oggi c’è talmente tanta roba in giro che se qualcosa non ti piace, beh, c’è sempre qualcos’altro a cui prestare attenzione. Trovare qualcosa che ti appassiona oggi è semplice – molto più semplice di un tempo. L’EDM oggi è pop? E il pop fa schifo? Ok; ma il pop ha sempre fatto schifo, dove sta la novità! …che poi, in un ecosistema musicale pure ciò che fa schifo è fondamentale. Ci si lamenta che il pop e la moda sono vacui e superficiali? Vabbé, grazie: lo sono sempre stati e sempre lo saranno. Di nuovo: basta conoscere un po’ la storia per capire al meglio le cose e contestualizzarle nel modo giusto, dando loro la corretta importanza. Stop. Che ne so, tutti ad indignarsi per la moda dell’ondata emo, quando c’è stata: ma Goethe i “Dolori del giovane Werther” quanto tempo fa li ha scritti? Ecco, visto? Non c’è nulla di realmente nuovo. Corsi e ricorsi. In giro ci sono stupidità e superficialità? E allora? Ci sono sempre stati; la cosa più intelligente che puoi fare è prenderne il lato divertente. Essere incazzati tutto il tempo è, per come la vedo io, semplicemente uno spreco di energia.
Ma senti, internet ha cambiato la musica?
Di sicuro ha cambiato l’atteggiamento della gente verso la musica. E poi ha fatto un’altra cosa: ha democratizzato le arti. Che per certi versi è il sogno del periodo punk che si fa realtà, no? Ma, e sottolineo “ma” quattro o cinque volte!, ci sono due cose da dire. La prima: la cosa buona della democratizzazione delle arti è che finalmente tutti possono fare arte. La seconda: la cosa cattiva della democratizzazione delle arti è che tutti possono fare arte. Spiego meglio: questa accresciuta possibilità di esprimersi ha reso tutti, ad un certo, impazienti di condividere il proprio lavoro. Troppo impazienti. Prendetevela con più calma, ragazzi! Aspettate un attimo! Non c’è bisogno di mettere tutto subito su Beatport o Soundcloud! No! Leggevo un po’ di tempo fa una cosa di Burroughs, e ad un certo punto lui diceva “Se sei molto impaziente di condividere quello che hai appena fatto, ci sono buone possibilità che quello che hai fatto sia una merda”. Quando mi sono trovato io nella condizione di essere impaziente di condividere qualcosa, beh, col senno di poi devo dire che questa convinzione di Burroughs si è rivelata decisamente corretta (ride, NdI). Io, di mio, non sono assolutamente contrario alla tecnologia e alle innovazioni; però non mi piace per nulla il messaggio per cui se non cavalchi sempre le ultime novità allora sei obsoleto, sorpassato. Sulla tv inglese ci sono in questo periodo due diverse pubblicità di internet provider ma entrambe hanno lo stesso messaggio, una cosa tipo “Se non hai internet veloce allora sei un uomo delle caverne”: ma vaffanculo!! Che fastidio, queste cose. Questo è l’atteggiamento che non sopporto. Ma è un atteggiamento che vedo diffondersi in modo preoccupante nella arti, a partire dalla musica, e ancora di più nella musica elettronica: gente cioè che crea qualcosa con in testa come primo obiettivo il dimostrare di essere attuale, sul pezzo, sintonizzato sul suono del momento. Male, molto male. Poi oh, per me è facile parlare, lo capisco, ho 25 anni e passa di carriera, posso prendere tutto con più filosofia; se avessi 18 anni immagino che oggi sarei molto più impaziente e molto più concentrato sul qui&ora quindi no, non è che voglio denigrare per principio i ragazzi più giovani. Però la pazienza ha un grande pregio: ti ricorda che c’è sempre spazio per imparare. E se sei nella musica per passione e non per calcolo, beh, voler continuare ad imparare dovrebbe essere proprio un bisogno di cui non riesci a fare a meno. No?