Ora, giudicate voi stessi. Questo è il brano fatto uscire poche ora fa da Anfisa Letyago, “Rosso Profondo”:
Suona famigliare? Beh, sì, ci crediamo. Anzi: se non vi suona famigliare dovreste preoccuparvi, perché significa che non avete nella vostra RAM personale quel capolavoro di Donato Dozzy ed Anna Caragnano a nome “Parola”, uno di quei rari pezzi che riesce a diventare iconico (…e nella nostra scena, diciamo quella techno, house e dintorni, sono sempre più rari i momenti che diventano iconici, mentre negli anni ’90 e nei primi 2000 si sprecavano: ci arriviamo). Ad ogni modo, per rinfrescarvi la memoria:
Dunque. Se la cosa finisse davanti ad un giudice – e magari potrebbe pure, eh – non è detto che la Letyago verrebbe sanzionata come copiona fraudolenta; magari sì e magari no, perché diciamo che c’è margine per dire che i due brani sono diversi, tecnicamente diversi. Però oh, le orecchie le abbiamo tutti, e il cervello per pensare pure. E in tal senso davvero l’accostamento fra i due pezzi è praticamente i-stan-ta-ne-o. Nemmeno da dire che “…in fondo i pezzi tech-house si assomigliano tutti”: “Parola” è appunto talmente particolare e come dicevamo iconico che lo riconosci subito; e non puoi dire che sì, c’è lui, ma ce ne sono altri che gli assomigliano. Proprio non puoi. Sì: forse le cose di Laurie Anderson negli anni ’80, idealmente, ma qua stiamo già scollinando, e comunque a memoria non ce ne sono di così simili a “Parola”, punto. Di danceflooristi che conoscono Laurie Anderson ce ne sono (purtroppo) abbastanza pochi. Mentre invece Dozzy e Letyago sono coevi, stanno magari in due circuiti diversi, ma nemmeno troppo diversi. Insomma: non ci sono scuse.
Poi, per carità, ci sono gli omaggi. Le strizzate d’occhio. Anche, onestamente detto, le copiature: perché ehi, non nascondiamo la polvere sotto il tappeto, il genere musicale che su queste pagine più ci piace è in realtà da sempre una fabbrica di fac-simili, di copiature che vengono contrabbandate da omaggi, da campionatura subliminalmente omaggianti, o da canoni da seguire, questo fin dalla sua nascita. Ma se negli impetuosi primi anni in cui l’acid house esplodeva ci stava anche che tutti si buttassero a pesce utilizzando elementi simili, in fondo era un po’ un epifenomeno dello spirito punk che contraddistingueva i primi passi della dance elettronica, a oltre trent’anni da questo momento storico avremmo dovuto raggiungere un altro tipo di maturità (…comunque, il numero di soluzioni sonore iconiche nate in quei quindici anni supera centinaia di volte quello dal 2005/2010 ad oggi: qualcosa vorrà dire?) .
E invece no. Invece, la nostra musica si è accontentata di essere davvero tanto “funzionale” prima ancora che artistica e creativa. Spesso sono tool anche quelli che tool in teoria non sono e non vorrebbero esserlo (…non scandalizziamoci troppo per i tool: in fondo, anche la musica giamaicana ha i riddim, mettiamola così, e il jazz ha gli standard su cui improvvisare; ma la “piattezza funzionale” del tool da dancefloor è davvero un grado zero, non nascondiamolo). In questo modo si sono appiattite e logorate tutta una serie di considerazioni etiche sulla creatività e sulla personalità: basta cambiare un microsuono per essere originali, basta modificare una equalizzazione per essere bollati come geni, basta copiare una architettura ritmica già usata e strausata per essere considerati come competenti e consapevoli.
Ci sta. Però quanto ha fatto Anfisa Letyago – che, lo sappiamo di prima mano, non si è peritata di contattare prima Dozzy per avvertirlo di quello che stava per fare, non ne sentiva evidentemente il bisogno – dicevamo, quello che ha fatto la Letyago va detto che lancia un po’ un campanello d’allarme. Istintivamente dà fastidio che una dj che cavalca – più che legittimamente, sia chiaro – i dettami della nuova business techno (dove Instagram e l’immagine sono importanti tanto quanto le release e i set) invece di starsene nel suo ed accontentarsi del suo vada addirittura a, ehm, “prendere in prestito” idee da un ecosistema di techno che è radicalmente diverso ed opposto rispetto al suo. La tentazione è quella di dare addosso ad Anfisa ed al suo team, di denunciare l’avidità mista ad irrispettosità della cricca della business techno e chiuderla trionfalmente così, ma tutto questo rischia di essere liberatorio per alcuni (si finisce nella classica dinamica buoni vs. cattivi…) nascondendo però una questione altrettanto fondamentale, e che tocca tutti: la nostra musica non si sta accontentando di troppo poco? Per il fatto di essere stata profondamente rivoluzionaria in tutti i suoi primi quindici anni di vita, sovvertendo i meccanismi dell’intrattenimento sonoro, diciamo fino ai primi anni 2000, non è che si è seduta sugli allori? Non c’è un po’ di pigrizia creativa, in giro? E intendiamo: fra tutti, in tutti i contesti?
Non sempre un disco può essere geniale, rivoluzionario, innovativo. Non tutti sono in grado di cambiare le regole del gioco col loro talento ad ogni mossa che fanno. Però iniziamo a porcelo, questo problema. E per quanto riguarda Anfisa e Donato, diciamo che se la prima avesse contattato il secondo prima della release dicendo “Scusa, senti questo, mi sono ispirata al tuo pezzo, non ti dà fastidio vero?” sarebbe stata una bella mossa. Avrebbe disinnescato tutta una serie di polemiche potenziali ed appianato un bel po’ di problematiche.
Ma sappiamo che il versante della business techno, quando c’è da procedere ed operare, non si pone troppe domande e non si dà troppi problemi di etichetta (nel senso di savoir faire, non di label): deve procedere, fatturare, postare, bookare. Efficacemente, impietosamente. Se ogni tanto però qualcuno le ricorda che ehi, si può fare sì di tutto ma non proprio tutto-tutto, questo male non fa. “Rosso Profondo” prende ispirazione da “Parola” proprio in maniera smaccata, smaccatissima. Non si fa, cara Anfisa. Non si fa così. Non ti fa bene, agire così superficialmente. E speriamo che un bel po’ di persone che ti sono vicine te lo facciano notare, invece di commentare “Wow!” acriticamente sotto i tuoi post e le tue story su Instagram.
PS. Comunque “Parola” è tre volte più bella ed intensa di “Rosso Profondo”