Ogni tanto ci sono degli artisti che ti colpiscono subito, per fortuna. Ti colpiscono perché fanno magari quello che fanno tutti, o in molti ma lo fanno a modo loro: con una chiave particolare, e una cura nei dettagli non comune (quando spesso ormai la gente si mette a fare musica copiando grossolanamente le “cose che funzionano”, senza preoccuparsi di ragionare quel momento in più e di esprimere un po’ di personalità ed originalità). Ecco, Angelo Kras rientra in questa categoria. Il suo “War Cemetery” è un lavoro che sta nel solco del rap di ultima generazione, ma lo fa con una intensità e una linea emotiva non comune. In più, c’è una grande cura in tutto il progetto. Ce ne parla direttamente Angelo, nell’intervista che trovate qui sotto; ma ce ne parla anche il nuovo estratto video dalla release, che abbiamo il grande piacere di presentare qui in anteprima. Un video ben curato, “cinematografico”, con un tocco forte e preciso.
Racconta Simone Franzolini, il regista, co-fondatore tra l’altro di Harmonie Studio: “Il video è stato pensato per esprimere un disagio generazionale che probabilmente non è noto ai più. É una condizione dettata dai millenni precedenti – caratterizzati da problematiche politiche, sociali e corporee tangibili – i quali hanno lasciato campo all’individualismo e hanno influenzato la sensazione di estraneità dell’uomo, deresponsabilizzandolo latentemente. I tre protagonisti del video ricercano un contatto indefinito ma materico: una carezza o delle nocche su uno zigomo, non importa. La voglia di evadere dal loro cerchio prossemico, abitato da identità comatose e fantasmi computerizzati, li porterà a stabilire tra di loro un rapporto capace di urtare e lambire profondità di animi eterogenei. Questa evoluzione sarà capace di unirli progressivamente verso lo stesso obiettivo. La loro destinazione è un campo di battaglia, una guerra, un calcio stile “Inception”, una brusca sensazione di caduta tale da farli riemergere. Tuttavia, usciti dalla porta del camper, i tre si imbatteranno in un garage, accorgendosi di non essersi mai mossi di un passo e di avere percorso l’ennesimo tragitto psichico di analisi zelante su se stessi“.
Decisamente qualcosa in più dei video di pura ostentazione che hanno zavorrato la new wave del rap nostrano. E allora, ecco il video – e più sotto trovate la nostra chiacchierata con Angelo Kras. Buona visione, buona lettura.
Angelo, per prima cosa volevo chiederti una breve presentazione
Ora vivo a Milano, mi sono trasferito qui poco prima che arrivasse la pandemia, però sono di Gabicce Mare, un paesino vicino a Pesaro. Sono nato in Germania, ma mi sono trasferito qui quando già avevo sei anni circa. Mi sono approcciato alla musica quando ero piccolino, inizialmente con la batteria; ben presto però mi sono dedicato alla scrittura. Non sono mai stato realmente troppo fan del rap, perché a Pesaro la scena era molto legata ai centri sociali (soprattutto anni 90, primi 2000). Poi la cosa ha incominciato a fiorire verso il 2014–2015, quando il rap ha incominciato a cambiare.
Germania, batteria, e poi scrittura, sono già tre elementi interessanti. Parli tedesco quindi? e suoni ancora la batteria?
No, sono nato in Germania da genitori Italiani perché mio padre aveva un ristorante, però i miei genitori parlavano italiano, la clientela era italiana e io ero ancora piccolino. Per cui poi quando siamo tornati in Italia non mi era rimasto niente a livello linguistico. E in realtà, anche con la batteria ho smesso, quando ho incominciato ad appassionarmi alla scrittura.
Prima dell’intervista mi raccontavi che avevi pubblicato un primo mixtape poi rimosso da YouTube. Volevo chiederti quindi come si è evoluta la tua scrittura nel tempo, e come sei arrivato a questo disco.
Tra il 2015 e il 2017 ho lavorato sul primo mixtape, seguendo un approccio molto rap, però mi sono reso conto che non era la strada giusta. Quindi ho cancellato il progetto e mi sono preso un anno per ripensare al lavoro, quello che voleva essere Angelo Kras, eccetera. In più avevo lavorato con un altro producer che aveva più esperienza di me, e da cui mi ero “fatto trascinare”. Però alla fine non sentivo mio il lavoro, quindi ho deciso di mettere in stand by il tutto per un anno. Ad oggi, ti direi, che questo disco è un nuovo inizio, il primo mattoncino.
“G Star” come è nato?
Di norma io scrivo molto lentamente, ogni parola la peso molto. E questo è spesso un problema, perché mi piacerebbe essere più leggero nel fare le cose. “G Star” invece è stato un caso opposto, è uscita in modo spontaneo, e ne è nato uno dei pezzi più forti del progetto. Poi abbiamo fatto il video, e questo singolo è un biglietto da visita. Però, volevo fare un progetto unitario, non mi interessa avere un EP smontabile in singoli, anche per questo non l’ho messo su Spotify subito.
In che direzione punti con “War Cemetery”? ti dico, quando ho ascoltato “G star”, io ho pensato a Yung Lean.
Si, soprattutto a livello di sound, mi affaccio molto al discorso nordeuropeo. Nello specifico, su Yung Lean la congiunzione è a livello estetico, perché abbiamo dei riferimenti molto simili, ai limiti del gotico proprio. Non voglio nemmeno dire che non faccio rap, però l’approccio, l’intenzione non è più quella. Per questo anche per il progetto, ci tenevo a farlo uscire insieme, a dare un’estetica precisa. Mi voglio insomma allontanare dai canoni e dalle regole del rap. A me non interessa fare un discorso dove ti dico: “Ce l’ho fatta”, e dal mio palazzo ti spiego la mia storia. Vorrei provare invece a creare un ponte coi miei ascoltatori, un discorso più orizzontale. Anche nella parte “fisica” ho cercato di curare tutto: il disco uscirà anche in cassetta e con un poster, che è una cosa anti-commerciale come costi, però ci tenevo che avesse una release fisica altrettanto curata. Per provare anche a farlo durare il più possibile.
Visto che mi dici che parti dal rap, ma poi vai in altre direzioni, ti vorrei chiedere come ti posizioni rispetto alla scena cosiddetta “indie”? visto che è un mondo che spesso parte dal rap a livello di scrittura, ma poi va in altre direzioni
A me piace molto chi ci gioca con il rap, parte da quello ma poi fa altro o, semplicemente, ci aggiunge del suo. Vedi per esempio l’ultimo pezzo di Generic Animal, oppure artisti come Tutti Fenomeni: entrano nel rap, però lo fanno a modo loro.
Come ispirazione invece? chi sono i tuoi riferimenti?
Per esempio la traccia “Randagio”, che è un pezzo un po’ più trap, è un “tributo” a “Succo di zenzero” della Dark Polo Gang, che per me al tempo fu un disco incredibile. Anche loro giocavano con il rap, e questa cosa mi piaceva. Al di là di questo, è indubbio che tutta la scena nordica mi abbia influenzato a livello di suono, i vari Yung Lean, Bladee, eccetera. Loro sono incredibili, creano un mood unico. Ad oggi però non vedo tante cose che mi rappresentano, per cui cerco di creare io il mio mondo.
Come è nato “War Cemetery”?
Fin da quando sono piccolo ho sempre avuto un problema con il pensiero di affrontare la tematica della morte. Il pensiero che tutto potesse finire da un momento all’altro mi faceva impazzire, e per anni questa cosa è tornata nei testi. In realtà la svolta è avvenuta quando sono andato in un cimitero di guerra, che è stata un’esperienza incredibile. Prima di tutto a livello estetico, perché la cura del luogo e la forza dei simboli erano impressionanti. E poi, chiaramente, per tutte le storie che quelle lapidi si portano dietro. Dopo questa prima visita, sono andato alla ricerca e alla scoperta di altri di questi luoghi, per approfondire ulteriormente l’argomento. L’unione delle mie ossessioni con la scoperta di questi luoghi ha dato forma al progetto da un punto di vista concettuale. A questo si è aggiunta la pandemia, che ho passato da solo, a Milano, in una stanza, dopo essermi appena trasferito. E lì ho scritto il disco, con il rumore delle ambulanze in sottofondo. Detto questo, me la sono vissuta meglio di tanti altri, eh.
Come è stato trasferirsi dalla provincia a Milano? Al di là delle contingenze…
Secondo me non puoi mai essere pronto a spostarti da una provincia ad una città. La provincia ti ridimensiona, mentre in città a nessuno interessa cosa fai e chi sei. E questo va bene, però non sono sicuro che sia una cosa per tutti, perché se è vero che la provincia ti ridimensiona, la città ti mangia. Soprattutto Milano, dove hai sempre la sensazione che tutti siano lì per diventare qualcuno.