Durante i nostri giorni della Design Week Festival abbiamo avuto il piacere di incontrare gli Apes on Tapes, che si esibivano al Diurno Cobianchi con il live del loro ultimo album “Escape From Primate Island”. Un trio tosco romagnolo, composto da Joe Antani, Shapka e Dyami, cresciuto artisticamente a Bologna, la cui musica si inserisce perfettamente nel solco delle ibridazioni tra hip hop ed elettronica, che in questi anni sta raccogliendo i primi riflettori importanti internazionali Clap! Clap! o Godblesscomputers su tutti, giusto per dare le coordinate. Forti di una esperienza decennale insieme, ci siamo fatti raccontare la loro storia che nasce in una Bologna dei primi anni 2000, caratterizzata dal Link e dall’esplosione di Ableton per arrivare fino ad oggi, in cui fare musica non significa più soltanto produrre e dove categorizzare è inutile e impossibile ma soprattutto inutile, perché l’importante è stare bene.
Raccontateci un po’ di voi, chi eravate prima degli Apes On Tapes?
J: Prima di spostarmi a Bologna, vivevo a Pontedera, in Toscana, a 12 anni mi sono comprato il primo campionatore perché volevo fare hip hop, ero un b-boy, un fan di Wu Tang Clan e DJ Premier.
S: Io invece arrivo da Rimini ed ero tutto il contrario di Joe, ero un super rockettaro ai tempi del liceo, band punk e chitarre distorte.
Come vi trovavate a essere dei pesci fuor d’acqua?
J: Io non riuscivo proprio a comunicare con la fauna locale.
S: Ma nemmeno io, facevo il rockettaro grunge con i capelli lunghi e i jeans strappati, andavo in un locale a pagare d’inverno e in spiaggia a bere d’estate.
E poi Bologna e l’incontro con l’elettronica.
J: Io mi sono spostato a Bologna per l’università, in un periodo in cui mi ero stancato di fare hip hop perché trovavo oramai limitante continuare a produrre cose alla Dj Premier/stile Brooklyn, inteso come cose che puoi fare con un campionatore. Avevo voglia di aprirmi e sperimentare a pieno le potenzialità delle macchine più che le mie, andando a Bologna ho avuto l’opportunità di scoprire tutta l’elettronica nuova che stava uscendo in quel periodo, che trovavo particolarmente interessante, come Kruder e Dorfmeister. Ma soprattutto Prefuse 73 lato hip hop, che come punto di vista sul beatmaking fu una vera e propria illuminazione quando lo sentii la prima volta, dandomi tanto respiro, dimostrandomi che certe cose si potevano fare, si poteva andare oltre, sempre nel solito stampo ma spingendo “da dentro”.
S: Sono arrivato anche io a Bologna per l’università e lì ho beccato un mio vecchio amico di Rimini, che ha iniziato a passarmi un po’ di cose stile Warp come Amon Tobin, quando io ai tempi mi limitavo giusto alle cose che passava MTV, che poi specie gli stacchetti erano fighissimi, c’era Squarepusher oppure programmi come Hotline, che aveva “Four Tom Mantis” di Amon Tobin come sigla. Cominciò a passarmi tutta sta roba e mi ricordo che pensai “merda, non si devono usare per forza le solo chitarre, quantomeno non solo quelle” e quindi cominciai a sperimentare un po’ e, piano piano, sempre il mio amico, mi disse che per fare quel tipo di musica si usava Ableton Live. Me lo feci passare e boom, non uscii più.
Credo che sia un’esperienza comune a molti quella.
J: Si, l’arrivo di Ableton ci ha segnato tutti…
S: Al tempo c’era Cubase e iniziare con quello era un delirio.
J: E’ l’interfaccia iniziale della session view che ha cambiato tutto. Ricordo quando un amico, tornato da un viaggio a Berlino, mi fa “ho trovato un programma che secondo me ti garba” e aveva ragione perché Ableton aveva tutto quello che, per me, non faceva Cubase, “è lento a fare questo, a fare quello e a fare questo” mentre li buttavi tutto giù e avevi quasi già tutto pronto per un live. Da lì non ho più mollato Ableton Live.
Ecco, parlando di Ableton, ha semplificato la vita a molti, è stato quasi democratico in questo, non vi sembra che tutta la libertà che uno ha con Ableton, alla fine, possa diventare nessuna libertà? Cioè hai delle potenzialità infinite ma il producer è comunque limitato.
J: Beh, io posso dire come mi ci trovo io, mi trovo bene perché mi sono fatto tutta la gavetta sul campionatore e non avevo bisogno del libretto d’istruzioni, avevo già capito come funzionava, perché era fatto da sound designer perciò chi parte da lì ha da subito tanto potenziale.
Ecco, il potenziale, non trovate che tanti, nonostante il potenziale di Ableton, cadano sempre nei soliti cliché e sostanzialmente non sfruttino il reale potenziale?
J: Ma perché devi sapere cosa vuoi fare, Ableton è come internet, se provi così, tanto per provarlo, ti porta chissà dove, anche in posti in cui non volevi andare.
S: L’importante è non ragionare “voglio che suoni come” perché poi diventi una copia.
Tornando a voi, come vi siete conosciuti?
J: Io lavoravo in un locale che si chiama Sesto Senso, dove andava un po’ tutta la gente dell’Homework e poi, durante la seconda edizione del festival, in cui suonavo con altri due ragazzi in un progetto hip hop/glitch hop, ho conosciuto Luca (Shapka), che anche lui si esibiva con un suo live.
E invece Dyami come l’avete conosciuto?
J: Io di vista lo conoscevo già da piccolo, quando faceva le jam in giro per la Toscana, lui era famoso perché è americano, è di colore, è enorme, sembrava Redman. Ci siamo poi incrociati durante alcuni live ma ci siamo conosciuti ufficialmente durante un’intervista per Elettrowave, sapevo che lui scratchava e gli ho chiesto di farlo sopra un nostro live registrato e di inviarmelo per vedere cosa ne veniva fuori. Quando ce l’ha rinviato abbiamo capito subito che lui era uno dei nostri.
S: E poi, nel 2010, durante Homework 08, ci siamo esibiti la prima volta come Apes On Tapes featuring Dyami Young e lui si è arrabbiato perché diceva “anche io sono un Apes on Tapes”, aveva ragione.
C’è da dire che Bologna vi ha cambiato moltissimo anche a livello musicale, praticamente si può dire che siete un gruppo bolognese.
J: Si, a livello di anima si.
S: C’abbian quella mossa lì, io ci sono rimasto a vivere infatti.
J: Era un posto prolifico per la musica, i locali c’erano, erano aperti, la gente aveva voglia di mischiarsi, forse perché è una città universitaria ma anche Pisa e Firenze lo sono, ma non allo stesso modo. A Firenze, per esempio, a volte hai anche la città contro. In Toscana era difficile trovare serate hip hop ai tempi, c’erano solo jam ogni tanto, essere alternativo significava solo essere rock, avere una band, punto. Io ero l’unico nel mio paese, mi chiamavano l’uomo con il campionatore.
S: Ma anche io da Rimini me ne sono andato per quel motivo, perché eravamo fuoriluogo rispetto al posto in cui vivevamo. Anche se comunque quando ha chiuso il vecchio Link è stata una legnata grossa anche per Bologna, un posto con tre sale in cui potevi andare a fare un live il giovedì sera che era comunque pieno.
Alla fine sono dieci anni che siete insieme, non credo che comunque sia stato facile all’inizio proporre cose diverse rispetto a quello che c’era in giro…
J: Quando abbiamo iniziato, anche a Bologna, in cui c’erano anche molti amici, facevano solo di sì con la testa e applaudivano alla fine dei pezzi, adesso invece ballano…e questo ci fa piacere.
S: Il nostro primo album “You Open” si chiama così perché a Bologna ci chiamavano a fare le aperture delle serate techno, anche se non c’entravamo niente.
J: Si c’era gente che pestava tantissimo e a noi ci dispiaceva tantissimo togliere il morale.
Diciamo che, come tutti i generi, venivate da un ambiente musicale con i suoi santi e i suoi dogmi immortali.
J: Si, ma il purismo, non solo nella musica, è una cosa adolescenziale se ci pensi. Quando sei più grande ti vuoi mescolare.
L: Vedi uno come Four Tet, uno che si posto meno limiti per quel che riguarda i generi. I generi servono al mercato della musica per poter incanalare certi suoni.
Beh è vero, ma è anche un bisogno abbastanza umano quello di dover categorizzare.
J: E’ vero, ma tanto poi ci sarà sempre qualcuno che riuscirà a diventare autorialità, genere lui stesso, pensa ai Massive Attack, per esempio, li puoi categorizzare ma comunque fanno la roba “dei Massive Attack”.
S: Beh l’uomo ha bisogno di mettersi d’accordo sulle cose cioè, per esempio, parlando di musica non è che te la posso far sempre ascoltare, semmai il problema viene dopo, quando uno non ti ascolta perché fa fatica a categorizzarti, quello diventa dogmatismo e ottusità. Ma io che venivo dal rock, quando abbiamo iniziato a fare i primi pezzi insieme mi sono reso conto che scratchare non era tanto diverso da quello che faceva Tom Morello, solo che lui lo faceva con la chitarra.
Che è un po’ un “atteggiamento punk”.
J: Bravo perché è quello che ci piace della musica, “non lo posso fare con le mani, allora lo faccio con la chitarra, è un esempio”.
L’avete mai trovata una situazione in cui non vi hanno proprio capito?
J: Mah, proprio non capiti no, una volta ad un concerto di Kaos facevamo l’apertura, la gente era presa bene e abbiamo fatto una cavolata mettendo il pezzo con Millelemmi ma con la voce era registrata. Il pubblico ha cominciato a guardarsi attorno, spaesata dal fatto che non capivano chi rappasse, così han cominciato a chiamare “Kaos, Kaos, Kaos” e li abbiamo capito che dovevamo sloggiare.
S: Capisco che se c’è l’apporto umano allora la voce la voglio vedere. Erroraccio, il contesto non lo permetteva.
J: Si beh, anche se ricevere l’applauso per il mio gruppo da uno dei miei idoli di gioventù è stato incredibile.
Dopo “You Open” del 2008, nel 2011, uscite con” Foreplays”.
J: “Foreplays” stato un po’ l’addio al “prefusismo”, i preliminari della maturità musicale anche come persone, visto che nel frattempo ci eravamo laureati e avevo iniziato a lavorare in una agenzia di comunicazione, cosa che personalmente ha dato un metodo di lavorare e due-tre skill che mi hanno aiutato nella produzione di di “Pitagora’s Bitch” e di “Escape from the Primate Island”.
S: Per due anni ognuno ha un po’ preso la sua vita, ogni tanto si suonava in giro, ci sentivamo e giravamo insieme, ma diciamo che è stato un periodo di transizione per tutti. Io ero tornato a Rimini, mi sono messo a organizzare una serata che si chiama X Beat e la cosa è andata molto bene.
E poi, appunto, “Pitagora’s Bitch”, in cui ci sono molte collaborazioni come quelle con Godblesscomputers e Millelemmi.
J: Dopo “Foreplays” ognuno ha fatto le proprie cose, ci siamo messi un po’ tutti a sperimentare, ero influenzato molto da uno come Flying Lotus e in generale dalle cose della Ninja Tune. Quando avevamo una trentina di bozze, che erano qualcosa di diverso da prima, volevamo avere anche qualche ospite, così ci siamo messi a chiamare un po’ di amici, Bioshi (Bkun) lo conosceva Shapka, Dyami conosceva Millelemmi e così è nato Pitagora’s Bitch.
Musicalmente chi è il motore del gruppo?
J: Io sono un po’ lo stronzetto del gruppo, ma diciamo che dopo anni ci siamo divisi i ruoli, anche perché al giorno d’oggi non è solo produrre musica ma è essere quasi un’agenzia di te stesso. Ci siamo resi conto che ognuno di noi poteva curare una parte rilevante dell’attività del gruppo. Poi ci affidiamo anche a tanti amici, che riteniamo abbiano talento e che condividono la filosofia Apes On Tapes, anche così è nato il gioco arcade di “Escape From Primate Island”, ad esempio. Sostanzialmente fare la cosa più creativa e valida possibile con il massimo del materiale umano e creativo che abbiamo già a disposizione.
Avete un po’ tutti altri progetti quando solisti o in altri gruppi (Dyami fa parte del gruppo Appaloosa, Joe suona come Fricat), come entrano questi progetti negli Apes on Tapes?
J: Direi che ci entrano a gamba tesa, perché alla fine siamo sempre noi. Spesso quando finiamo il live degli Apes On Tapes, se c’è gente che vuole ancora ballare, facciamo le nostre cose.
S: Al di là della musica, siamo chiaramente molto amici, prima che compagni nel gruppo.
Ho visto che siete molto presenti anche sulle piattaforme di streaming.
J: Pensiamo che dal momento che pubblichiamo il pezzo non sia più strettamente nostro, la musica in sé non è nostra, tutto quello che c’è dopo fa parte di un mercato che alla fine si autoregola. Non lo controlli.
S: Abbiamo sdoganato queste piattaforme, Spotify, Deezer. A me è una cosa che non mi ha mai intimorito, noi facciamo musica per farla sentire.
Ma non credete che oramai la musica sia diventata il mezzo più che il fine.
J: L’industria musicale è diventata il pretesto per far muovere tutto il resto. Una volta che lo sai ti regoli di conseguenza, oltre alla musica devi pensare a cose creative e di spessore, quasi come diventare appunto una grande agenzia. Tanto oggi se la musica la vuoi sentire gratis la senti, è inutile pensare il contrario. Oggi su YouTube puoi trovare tutto, anche e soprattutto cose che non trovavi ai tempi, questo eh.
S: Se però decidi di entrare in questo mercato devi fare, tra virgolette, pace con te stesso, “entro sul mercato ma faccio musica che per me vale” non scendi a compromessi o marchette, l’importante è che tu abbia la tua identità.