“Eh, ma potevano farlo in Arena già che c’erano, sarebbe stato molto meglio”: questa frase intercettata da un paio di persone che chiacchieravano dietro di noi ieri all’evento-sabba di Aphex Twin, unica data italiana, apre mille questioni. La prima, ovviamente, è la non conoscenza dei costi di produzione di un concerto: che in Arena sono stellari, mentre nel (comunque bellissimo) Castello Medievale di Villafranca Veronese sono un po’ più umani; la seconda, conseguenza della prima, è che se il concerto fosse stato in Arena i biglietti sarebbero costati molto di più dei 55 euro più prevendita effettivi, ed anzi probabilmente ci sarebbe stato l’obbligo della scorporazione in diversi settori, alcuni magari ipercostosi (Kendrick Lamar ci si sta scontrando contro, con questa dura realtà); la terza è quella meno immediata, ma probabilmente la più interessante. E ci arriviamo ora.
Un tempo la divisione fra cultura ufficiale e controcultura o, almeno, cultura alternativa era netta. In Arena, se proprio ci doveva andare il pop-rock invece dell’opera (ed era già un mezzo sacrilegio) ci finivano i dinosauri consolidati, i nomi trasversalissimi per meriti di anzianità o di occupazione del mainstream (vedi anche alla voce “serata finale del Festivalbar”). Siamo abbastanza giovani da ricordare che perfino per Miles Davis, in una epica edizione di Verona Jazz, ci fu chi storse il naso – perché non era musica abbastanza “alta”. E non è un problema solo sulla sponda dei benpensanti, occhio, perché la stessa questione speculare la si ricava infatti sul versante antagonista: la grandezza di Aphex Twin è stata fatta negli anni da un pubblico che in origine in Arena non ci andava e non era intenzionalmente interessato ad andarci, e che Aphex Twin voleva vederlo in un capannone semi-abbandonato, in un festival dai costumi piuttosto liberi, e non in un “salotto buono”.
Sono cambiate le cose. Sono cambiate talmente tanto che nessuno – giustamente, sia chiaro – si è ribellato rumorosamente quando ha visto che c’erano i cani all’ingresso del Castello e i controlli col metal detector, nessuno!, quando invece facendo uno sforzo d’immaginazione l’idea di andare a vedere Aphex nel 1997 stando attenti a non portarsi le cannette o altro, beh, avrebbe suscitato solo omeriche risate, “…ma tu stai scherzando, vero?”. Che poi ovviamente è tutto un gran teatro: la demonizzazione della droga leggera è qualcosa in cui credono solo i disinformati, o i cinici che vogliono lucrare cinicamente sulle paure dei disinformati, e per il resto se ti vuoi “fare” vedrai bene di farlo prima di entrare nella venue – per motivi cronologici che non serve nemmeno stare qui a spiegare talmente sono ovvi.
Infatti qualcuno “perso nel viaggio” l’abbiamo visto, ieri sera, espressione beata e sorriso acquoso stampato sulla faccia. Ma erano eccezioni. Ieri si è celebrata come non mai, come probabilmente in nessuna altra data di Aphex in Italia negli anni passati, un definitivo passaggio generazionale: per la prima volta a vedere Richard D. James c’era un pubblico composto anagraficamente più di -anta che di -enta, e dove i -enti erano praticamente assenti o comunque palesemente minoritari. A vedere il simbolo della musica del futuro, della ribellione ai crismi più o meno stantii e dinosaurici del rock, della voglia di guardare ed andare oltre, c’era un robustissimo quantitativo di quarantenni, di cinquantenni; e ad occhio, fra quelli più giovani c’erano soprattutto stranieri più che italiani. Già: il mito di Aphex pare (forse) più “giovane” in Francia o in Inghilterra, osservando chi era presente ieri.
O forse chissà, è solo effetto del prezzo del biglietto: 55 euri, come dicevamo più sopra. Poco in termini assoluti, guardando i prezzi che stanno girando in questo periodo; ma abbastanza per tenere lontana tutta la pletora di (semi)punkabbestia col mito dello sballo aphexiano, proletari reali o proletari con la carta di credito oro dei genitori, e col vessillo politico dell’ingresso a sottoscrizione, diecieuropossonobastareanzisonopuretroppi.
Sia come sia, la sensazione fra chi c’era ieri era di essersi “ritrovati” e, un po’, anche di essere “reduci”. Oh sì. Una reunion per chi aveva combattuto la battaglia della cultura alternativa al mainstream, battaglia oggi ridicolizzata/relativizzata dal nuovo “appassionato liquido” che è tanto contento ed autocompiaciuto nell’alternare Arca a Beyoncé, J Balvin a Charlemagne Palestine, la trap della Gang alle Editions Mego. Quindici anni fa, a Traffic a Torino, Aphex sparava una versione gabber di Tiziano Ferro per farsi beffe del mainstream (ottenendo approvazione feroce), oggi avesse fatto lo stesso avrebbe ottenuto un boato simpatetico – ma più perché per molti Tiziano Ferro è un guilty pleasure che si può confessare ridacchiando tranquillamente, ecco.
Aphex Twin è diventato una commodity da consumare con relativo agio e serenità. È diventato un feticcio che per una sera ti può far ricordare di quando eri giovane, puro, battagliero, antagonista e no, non ti andava bene la pappa pronta che ti veniva servita dalle major e dalle radio.
La cosa divertente è che Aphex è rimasto più puro e cazzuto del suo pubblico. E questo, pur accettando lui ed anzi incoraggiando il fatto che per accogliere il disturbo di farlo alzare da casa sua per andare in giro a suonare live, ora il signor promoter organizzatore di un suo concerto deve sborsare una cifra che oscilla tra i 250.000 e i 500.000 euro, questo per dei visual e delle luci sì notevoli (ma rispetto a certe cose che girano oggi, una “cosetta” in quanto a dimensioni), ma comunque parliamo di una singola persona che sta sul palco insieme a un paio di macchine e portatili, un po’ di tecnici ma manco troppi, lo stesso (bravissimo!) fonico di fiducia di sempre che vedi girare anche con gli sgangherati !!! o gli spartani Autechre. Questo e nient’altro. Una produzione all’osso, insomma, rispetto ad altre che spostano 200-300 persone a data (e lì magari inizi a capire meglio in quanti rivoli finiscono i famigerati 250/500.000 euro).
Quella di Aphex è la truffa perfetta, insomma, ma non gli puoi dire nulla perché musicalmente è rimasto duro e puro. La sua fee è decuplicata, anzi, centuplicata: perché lui non è più un artista ma un feticcio, e il grosso del suo pubblico vuole vederlo più per sentirsi parte di un evento e per manifestazione identitaria che altro (ed è con questi due trick che puoi far moltiplicare i costi all’infinito, perché sai che per due queste cose la gente non bada a spese). Questa la grigia verità. Però, al contrario degli artisti che diventano feticcio, lui non è la cover band di se stesso. Zero. Non compare nemmeno mezza ombra di “Windowlicker” nel suo set; nemmeno mezza lacrima di “Come To Daddy” o di qualche drukqsata; e se proprio affiorano produzioni sue, sono produzioni minori, remix di materiali di altri, o cose sue sì ma discretamente trasfigurate fino a diventare un “altro”, rigorosamente in funzione del set nel suo insieme, non della celebrazione di se stesso e del suo repertorio storico.
Non si è minimamente imborghesito, Aphex, al contrario del suo pubblico. Sa di avere maturato – un po’ per bravura, un po’ per culo, un po’ per caso, un po’ per genio – un credito ed un carisma più unico che raro, nella scena musicale odierna, e ci gioca sopra fino alle estreme conseguenze: facendosi strapagare, sì, ma offrendo al tempo stesso uno show che non è per nulla rammollito dai denari. Anche i visual di Weirdcore, bellissimi, sono affascinanti perché sono completamente fuori moda, ma proprio davvero fuori moda: non sono nemmeno demodé, sono semplicemente fuori da qualsiasi alfabeto stilistico vada per la maggiore oggi. Sono “vecchi” (vedi l’indugiare sui transistor) ma non retromaniaci, sono tecnologicamente avanzatissimi ma usano questa tecnologia per divertirsi a simulare dei trick da archeologia dal videomaking (gli effettacci che usavi con la VHS, ma solo moltiplicati per diecimila miliardi).
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Su tutto questo poi non manca mai una sana dose di humour. Gli insert “locali” nei video (il team di Aphex e Weirdcore si appoggia per ogni data a una serie di “fonti di fiducia” nella nazione in cui vanno a suonare, stavolta per l’Italia hanno parlato con Guido Savini di Club To Club) sono semplicemente meravigliosi: sapendo che si andava a suonare dalle parti di Verona, ecco nel video Jerry Calà, Giovanni Rana, Amadeus (che a Verona c’è nato), Damiano Tommasi (ma il vero sindaco è Preben Larsen Elkjaer, chi deve sapere lo sa), più e più volte Alberto Malesani, perfino un chievoso Gigi Delneri (ad un certo punto la sequenza Malesani-Delneri-Pasolini è stata semplicemente da urlo, per chi l’ha colta), oltre a un mix sulfureo che passava da Mattarella a Caterina Barbieri con lampi di Donatella Rettore (peraltro accesissima tifosa del Verona) e di un Berlusconi minacciosamente anni ’80. Questa fantastica parte “ludica” è arrivata nel momento giusto per alleviare un set, di suo, davvero impegnativo e poco paraculo dal punto di vista musicale: più vicino agli Autechre che ad un allegro sabba di breakbeat e melodie fanciullesche schizzate. Set che ha avuto dei momenti semplicemente sublimi, quando si è raggiunto il perfetto equilibrio tra rumore, terrorismo ritmico e pad atmosferici lisergici, ed altri forse non riuscitissimi ed un po’ involuti (…complessivamente, è stato più compatto ed efficace il set presentato a Club To Club qualche anno fa, ma di sicuro ora è un Aphex musicalmente molto più in forma e più interessante rispetto a una fase a inizio/metà anni ’10 in cui viveva di rendita e di amen breaks).
Ma alla domanda “Valeva la pena di spendere 55 euro più prevendita per vedere questo show?”, la risposta è un decisissimo “Sì”. La gente sarebbe venuta comunque: perché per il 90% del pubblico essere al Castello Medievale di Villafranca ieri era una questione di “bandiera”, di manifestazione identitaria, di voglia di dimostrare che si è ancora i ghepardi alternativi di una volta pure se si hanno quaranta, cinquant’anni. Poteva dargli e darci la merda, Aphex, e in fondo l’avremmo comunque accettato: ma vivaddio ha voluto, assieme a Weirdcore, darci di più. Ed ai detrattori di Aphex che ci sono in giro, facciamo questa domanda: chi sono gli artisti oggi che possono permettersi di fatturare al botteghino più di mezzo milione di euro a data e tutto questo senza fare la cover band di se stessi, ma invece accelerando sulla sperimentazione senza compromessi, vecchia o nuova che sia? Ve lo diciamo chiaramente: nessuno.
Quindi, le chiacchiere stanno e zero. E ieri, davvero, è stata una gran bella serata. I quasi diecimila presenti al sabba alla fine del tutto avevano un sincero, sincerissimo sorriso stampato in faccia. E no: nella stragrande maggioranza dei casi non erano gli acidi, non erano le canne. C’abbiamo una certa. C’abbiamo delle responsabilità. Ma almeno Aphex ci fa sentire ancora giovani, anticonformisti e coraggiosi. Anche se ormai i concerti non ci dispiacerebbe sentirli in Arena, tra un “Nabucco” verdiano e un Wind (o Tim) Music Awards.
Post scriptum: nota di merito ai bravissimi fratelli D’Arcangelo che, con l’ingrato compito di aprire la serata già alle 20:30 a luci ancora alte (era impossibile fare altrimenti, visto il coprifuoco imposto dal Comune locale alle 23:30), hanno tirato fuori un set molto efficace, filante, divertente, appropriato. La loro classe non invecchia.