La questione è molto semplice: non c’è nessun legge algebrica per cui tredici anni di assenza e di non release significhino tredici anni in cui si lavora per progredire riuscendoci per, diciamo, tredici volte tanto rispetto a prima, o se non tredici almeno tre. Anche se sei Aphex. Ovvero il Vendicatore Della Fuffa, quello che si fa beffe del mainstream, quello che è l’eroe di tutti gli spiriti coraggiosi e non compromessi nell’elettronica… tutte cose vere, tra l’altro, Aphex era un eroe e resta un eroe – lui come musicista, ma anche lui come simbolo. Ehi: “Syro” avrebbe anche potuto essere una porcata, che tanto questa principio sarebbe rimasto valido. Anzi, paradossalmente ne sarebbe uscito rinforzato (un bel po’ di fan, duri e puri a costo dell’autolesionismo uditivo, avrebbero apprezzato lo “sberleffo” del far uscire un disco orribile o inascoltabile, dopo tutta l’attesa messianica che si è creata).
“Syro” non è una porcata. “Syro” è il disco di un artista che dimostra di avere una classe e una cultura che è tuttora superiore, oh sì, a quella del 90% dei suoi colleghi: negli intrecci, nelle armonizzazioni, nelle citazioni e nel modo in cui spesso queste citazioni vengono stravolte e riadattate. Il problema qual è? Il problema è che Aphex, per scelta o per pigrizia o semplicemente perché non riesce a fare di meglio anche provandoci, artisticamente vive di rendita. Questo è quanto si deduce ascoltando i sessantaquattro minuti dell’album.
Tredici anni, dicevamo. Al netto dei Tuss e degli Analord (materiale d’archivio spacciato per nuovo all’epoca, ne restiamo convinti). Un conto è non farsi influenzare dalle mode e sbattersene di esse, che è super, un altro conto però accontentarsi di una cristallizzazione di se stesso. Accontentarsi dei propri pregi già esplorati e già sfruttati. Esploratissimi, sfruttatissimi. “Syro” è, come dire?, il disco “fusion” di Richard D. James: quello in cui dimostra di essere bravissimo nel fare quello che fa, tecnicamente una belva che gli altri quasi manco gli si avvicinano, ma i rischi che si prende per uscire dalla “confort zone” che si è costruito sono – nulli. Addirittura mettere come traccia finale, “aisatsana”, una cosa simil-Satie sembra quasi uno sberleffo (quante volte ci siamo sorbiti il discorso su Aphex che ama Satie e Debussy e da loro prende ispirazione, bla bla bla) ma se non lo vedi come tale ti sembra solo una banalità e una caduta di stile (o di inventiva), tipo Tony Hadley che torna in tivvù su Italia Uno e canta “I’ll Fly For You” (che è una bellissima canzone, peraltro). E ti dici: mah. E anche il resto: si va di mestiere, di mestiere aphexiano, tra beakbeat, tocchi atmosferici, intrichi ritmici o di acid bassline, insomma le cose che di lui già ben sappiamo. Almeno i Daft Punk hanno portato all’estremo la scarnificazione di se stessi e delle proprie matrici, con la regressione da balera (fatta con classe, ça va sans dire, ci mancherebbe), una regressione che è comunque qualcosa di diverso rispetto a quanto fatto prima, qualcosa che non c’era nei loro album precedenti.
“Syro” è il disco di un genio pigro, o di uno che (inconsciamente?) si accontenta. Non esplora territori nuovi, o almeno non sono nuovi per l’esploratore, che li ha già percorsi e mappati in lungo e in largo. Non ci sono trucchi inediti, non ci sono suggestioni inaspettate o imprevedibili o spiazzanti. C’è tanto mestiere. Il mestiere non di tutti, ma di Aphex, lo ripetiamo: gli stilemi acid lavorati all’ennesima potenza con un approccio quasi da strumentista jazz (ecco, la fusion…), certe stralunate e psichedeliche derive armoniche che sono geniali (erano geniali, sono geniali e geniali resteranno). Mica poco. Questo disco sarebbe potuto però uscire, tale e quale, nel 1994, passando per tappa solidissima in una overview generale della discografia richardjamesiana; inevitabile che se esce nel 2014, vent’anni dopo, un po’ di delusione c’è.
Poi chiaro: molti, troppi di noi proiettiamo su Aphex desideri e auspici eccessivi, perché lui è il nostro eroe!, il nostro vendicatore!, oh sì!, contro il logorio-della-commercialata-moderna nell’elettronica. Forse, ma diciamo forse, lui non è rimasto tredici anni lontano dal mercato discografico per pigliare per il culo i meccanismi dell’industria, ma semplicemente perché lui stesso si è accorto che non aveva moltissimo di nuovo da dire oltre a quanto già detto. Al tempo stesso non ha avuto però la voglia (l’umiltà?) di studiare, di aggiornarsi, di esplorare quello che succede attorno a lui, ma tipo che bastava farsi dare qualche dritta da Clark su come giocare sulle frequenze, visto che ora con la tecnologia lo puoi fare. Avrebbe dovuto farlo? Nì. Obblighi non ce n’erano. Gli Autechre ma anche altri artisti Warp, o un Jeff Mills, fanno così e nessuno ha niente da ridire, anzi, siamo grati e basta che ci sia chi fa ancora musica con uno spessore e con una meravigliosa “difficoltà” di fruizione rispetto a canoni più da facilonerie remunerative. Li amiamo. Li stimiamo molto più di quanto possiamo stimare la stragrandissima maggioranza degli eroi da botteghino ibizenchi.
Però Aphex era/è unico. No? E’ quello che abbatte le regole, sradica le consuetudini, illumina di luce inedita territori già noti o addirittura ne scopre (o crea) di sconosciuti ed impensati… supereroe! Questa è la croce che si porta dietro, volente o nolente. Soprattutto, questo è il motivo per cui chi fa faccende tra EDM e breakcore ha un pubblico di romantici amatori da contare a centinaia per set (e non a migliaia), e Aphex invece raduna ancora oggi folle oceaniche.
Forse però è stanco, un attimo. Forse il vestito da supereroe non gli entra più, senza la cosa lo preoccupi più di tanto. Forse preferisce starsene a casa con la compagna, sciabattando tranquillo verso il suo home studio per sfornare tracce con serenità di quando in quando, invece di andare in giro a fare da nostro invincibile feticcio e da nostro sherpa verso nuovi confini dell’arte e della percezione. Ce li ha mostrati già vent’anni fa, del resto, cambiando il mondo della musica e migliorando le vite di molti di noi. Perché cazzo dovrebbe sbattersi ancora così tanto, e rischiare di perdersi nel vuoto e nel freddo e nel pericoloso a furia di esplorare le zone ancora buie e sconosciute della coscienza e della musica? Per noi? Ce lo meritiamo?