Oggi è facile parlare di Apparat, apprezzare Apparat, amare Apparat. E’ un “porto sicuro”, molti stretti addetti ai lavori lo sanno. Perché è uno dei musicisti che più e meglio sa parlare ad un pubblico trasversale. Sai che con lui non sbagli, sai che con lui sali in quella Serie A di artisti in grado di fare sempre e comunque la differenza.
Ma lo è non a caso, non per banale fortuna, non per arido calcolo. Lo è, e lo è tanto, perché sa portare per mano le persone in un mondo fatto di elettronica e panorami digitali popolandolo però di emozioni, di un respiro profondamente umano, di una fisicità incredibilmente intensa tanto quasi da prendere forma – e questo non lavorando sull’impatto, sul rumore, sugli effetti speciali facili, ma scavando nell’inconscio collettivo di molto di noi.
Questo il suo segreto. Spesso sottovalutato. La sua musica, sia come producer che come dj, è una musica tanto immediata da un lato – perché è chiara nel cercare subito di rapirti il cuore – quanto pensata, profondamente pensata. Una caratteristica che spesso si mette in secondo piano. Come se fosse “normale” avere un successo come il suo; come se bastasse infilare un paio di ispirate note melodiche e avere una bella faccia, su un background più o meno techno, più o meno digitale, per funzionare.
Fosse così semplice, ci riuscirebbero in tanti. Certo, la perfezione assoluta di alcuni brani diventate delle hit globali durante l’avventura Moderat (“Bad Kingdom”, “New Error”, “Rusty Nails”: a pieno titolo brani che hanno contrassegnato un decennio, per come sono riusciti a sedurre un pubblico non solo specializzato e incredibilmente vasto) ha aiutato senz’altro. E il fatto di essere la voce, del progetto Moderat, lo ha messo in qualche “in the spotlight” più di quanto sia successo ai colleghi d’avventura Gernot Bronsert e Sebastian Szary, i Modeselektor, rendendolo più visibile per chi ha ancora un approccio legato al rock, alla figura del frontman, al carisma del cantante.
Ma Apparat stava rapendo cuori anche prima. Anche ai tempi di “Walls”, o di “Orchestra Of Bubbles” con Ellen Allien. 2006, 2007. Ormai più di dieci anni fa. E lo stava facendo, come dire?, da “irregolare”, da underdog, da eccezione. Perché quelli erano gli anni in cui o facevi minimal, o sembravi destinato all’irrilevanza. Magari rispettato, certo; però eternamente destinato a rimanere in una nicchia di amatori dato che pervicacemente ti stavi rifiutando di seguire il suono del momento e non avevi la fama pregressa ed acquisita di una Ellen Allien (…sì, giova ricordarlo: ai tempi di “Orchestra Of Bubbles” era la collaborazione di Ellen Allien con “…un giovane talento non molto conosciuto”).
Lui prima di altri e più di altri ha avuto il coraggio di insistere sempre sulla sua via, di non piegarsi alla religione della “cosa che funziona”. Prima di altri e più di altri ha voluto prendersi il rischio di (ri)portare la musica elettronica all’interazione con gli strumenti, credendoci cocciutamente anche quando i tempi non erano maturi. Non lo erano nemmeno per lui: ricordiamo una delle primissime esibizioni della Apparat Band, in uno strepitoso festival a Carpi (Ctrl+C, 2008, Plaid e Prefuse 73 in cartellone), quando improvvisamente abbandonava il mondo solo-digitale per abbracciare quello che comunque era sempre stato uno dei suoi amori, il post rock (amore al punto che collaborò con una delle migliori band post rock italiane di sempre, i Giardini Di Mirò).
(un frammento trovato in rete di quella esibizione a Carpi; continua sotto)
Sembrava un salto eccessivo. Quella esibizione, lo ricordiamo perché eravamo lì, era molto scolastica. Scarsina, ecco. Apprezzabile l’intenzione, a malapena sufficiente il risultato. D’altro canto è fisiologico: ti stai mettendo in gioco, stai ripartendo da zero, stai abbandonando la tua “comfort zone”. Ci sta che all’inizio fatichi. Ecco: per tutti quelli per cui Apparat ha sempre avuto la strada spianata ed è sempre stato famoso (…sì, ogni tanto sentiamo affiorare dei discorsi del genere), la cosa da ripetere più e più volte è che è vero il contrario. Infilava melodie quando il Verbo Unico era essere minimal; scartava di lato andando a cercare l’analogico e la ricercatezza cinematica quando, dopo “Walls” e “Orchestra Of Bubbles”, poteva godersi la fama finalmente acquisita come producer elettronico di grande comunicatività. Ha sempre scelto una strada meno facile ma infinitamente più autentica. La popolarità di cui gode oggi lo fa dimenticare troppo spesso.
Ma dicevamo: la sua qualità è saper parlare alle emozioni in un modo molto specifico. Lavorare molto “di testa” per arrivare al cuore. E’ così anche nei suoi dj set. Certo: ha il senso dello spettacolo, è profondamente convinto che un dj sia prima di tutto al servizio del pubblico e non viceversa, quindi infila immancabilmente le versioni originali o remixate delle hit più grandi, perché sa che il pubblico meno specializzato – quando diventi davvero popolare è fisiologico che il tuo pubblico sia fatto anche da non cultori della materia – le vuole assolutamente. Ma la caratteristica veramente bella è che ama infilare dentro un sacco di successi da techno hardcore anni ’90, richiami al periodo in cui in lui si è formata una bruciante passione per la techno, per i rave.
(un Apparat giovanissimo; continua sotto)
Non è casuale. Lui in prima persona sa quanto certe tracce – oggi misconosciute – siano state in grado di cambiare la vita delle persone, in quegli anni. Anche la sua, anzi, la sua per primo: nato e cresciuto in provincia, nell’ex Germania Est, a strapparlo fuori dalla monotonia e dalla prevedibilità di una ragionevole vita da tedesco medio è stata fin da subito l’energia folle e delirante di certe tracce, degli echi acid house e hi-nrg o direttamente, rabbiosamente techno. I party selvaggi, la voglia di superare i limiti della normalità e della quotidianità: la scintilla è stata quella. Lo sa. E’ ben conficcato nella sua testa. Non lo dimentica. E chi se ne frega se oggi suonare certa roba non ti mette nella lista di quelli “fighi”.
Paradossalmente, col trasferimento a Berlino nei primi anni del nuovo millennio la sua vita si era molto calmata. Per sbarcare il lunario faceva il grafico. Musicista professionista lo è diventato quasi per caso, quando un suo compagno d’appartamento allungò, di nascosto, dei suoi demo a Marco Haas, alias T. Raumschmiere, alias il boss della Shitkatapult, che ovviamente restò subito folgorato da quel materiale. Abbiamo un ricordo molto nitido della prima volta che lo incontrammo: Roma, erano i giorni di Dissonanze, lui non ci suonava (…non era abbastanza conosciuto! Stiamo veramente parlando del 2002, 2003…), ma era amico di amici di un’amica. “Lui è Sascha, guarda che è molto bravo, dovresti tenerlo d’occhio”.
(“Duplex”, 2003; continua sotto)
A dare quel consiglio era una persona che la sapeva lunga (non a caso era lei a essere il primo, storico ufficio stampa di Dissonanze). Ecco che quindi, per questo incontro fortuito, chi vi scrive ha visto l’ascesa di Apparat crescere passo dopo passo, fin dall’inizio. E l’ha sempre sentita un po’ “sua”. Abbiamo gioito quando abbiamo visto che iniziava subito a spuntare un po’ di date in Italia (anche perché una delle sue prime agenti era italiana, trapiantata a Berlino). Siamo rimasti felicissimi quando abbiamo visto che, contro tutti i pronostici, lui ed Ellen Allien, in una delle prime edizioni di Club To Club, riempiva fino all’inverosimile l’Hiroshima Mon Amour (sì, allora sembrava quasi impossibile che per vedere quei due si radunasse così tanta gente: 800 dentro, almeno un 200 rimasti fuori).
Poi Moderat. Il primo album. Un disco che, come per tanti di voi, di noi, per chi scrive ha significato davvero tanto. Ma la cosa strana, divertente & bella è che per qualche motivo le strade del sottoscritto e quelle di Sascha negli anni si sono intrecciate sempre di più, un po’ per lavoro un po’ per caso, e quindi se vi dico che lui è una delle persone migliori si possano incontrare nel music business, beh, fareste meglio a fidarvi. Dei tanti esempi possibili, uno la dice lunga. Qualche anno fa: trittico di date, due live coi Moderat, una in solitaria come dj in quello che era l’incubatore di quello che poi è diventato Fat Fat Fat. Le due date live coi Moderat erano prima in Puglia, a Gallipoli, poi in Sicilia, ad Ypsigrock. I tre musicisti, come giusto, hanno avuto degli orari semi-umani, riposando fra una data e l’altra; ma tutta la crew (fonici, luciai, eccetera) e il sottoscritto si erano ritrovati giocoforza a fare un back-to-back micidiale: concerti a Gallipoli, monta, smonta, salta su un furgone, non dormire, vola subito in Sicilia con scalo a Roma, monta, smonta. Praticamente 48 ore senza chiudere occhio.
Il terzo giorno era una faccenda più di riposo, ovvio. C’era appunto da seguire solo Sascha mentre faceva il dj, controllare fosse tutto a posto, tenere d’occhio la situazione sul palco. Nel momento in cui inizia a suonare, mi avvicino a lui e gli faccio “Casse spia tutto a posto? E senti, cosa vuoi da bere mentre suoni, cosa ti porto? E vuoi che tenga lontana la gente, le dica di stare fuori dall’area della console?”. La risposta, sorridendo, è stata, mentre stava già suonando: “Guarda, ho visto il culo che ti sei fatto per me ieri e l’altro ieri, quindi ora tu ti siedi, ti metti comodo e ti godi la serata. Sarò io a farti portare da bere”. E così è stato.
Quando vedrete Apparat salire sul palco a Sticker Mule Festival il 29 giugno 2018, quando lo vedrete ogni volta, tenete insomma a mente che avrete davanti più cose: un musicista di vero talento, una persona che ha saputo costruirsi una carriera di grande successo cercando spesso le strade più complesse (e incappando anche in errori, umani ed artistici, e false partenze), un uomo per cui la sensibilità è qualcosa di fondamentale. Tutto questo si riflette nella sua musica: in quella che fa come producer, in quella che suona come dj.
Può sembrare tutto semplice. La fama. “Bad Kingdom”. Le colonne sonore cinematografiche di alto livello. I dischi per la Mute. L’amore di un pubblico che magari di elettronica sa poco, ma sente “Apparat” e subito si accende. Ok.
Però no.
Non è semplice per nulla.