Traspare un certo senso di colpa inconscio tra gli artisti underground nostrani che si vanno cimentando con la trap, legato all’opinione diffusa che “trap = trash”. Eguaglianza superficiale e tutta da dimostrare (come vi abbiamo già largamente raccontato) ma il cliente ha sempre ragione e, come accade spesso, ciò che il pubblico afferma con decisione diventa LA verità con cui relazionarsi, facendo sì che oggi sono gli stessi artisti a mettere le mani avanti: “Ok, avete ragione voi, è il mio disco più tamarro”. Un fenomeno che si amplifica ulteriormente nel caso di Aquadrop, che fino a ieri è stato l’immagine dell’eleganza e dell’ingegno, un talento puro che si è fatto da solo e – a colpi di raffinatezze, album come “Aurora Borealis”, EP come “Soul” e singoli come “Street Player” – è arrivato negli anni a diventare un nome apprezzatissimo all’estero, mentre nel frattempo la stampa italiana continuava a chiedersi “Figa sta roba, ma che musica è?” (non è ironia, fidatevi).
Ovviamente la qualità di produzione a cui Aquadrop ha abituato il proprio pubblico non si attenua nemmeno un po’ ed è sfoggiata con orgoglio anche in questo “Yenom”, la prima full-immersion del producer lombardo nel mondo trap dopo una relazione personale complicata con l’EP dei TNGHT e alcune interessanti prove tecniche qui incluse. Quanto sia sopraffina la sua cifra stilistica è lampante in pezzi sfuggenti come “Shakin'” o “Glah”, fatti di ipnotismo minimale spalmato su un dub diabolico dove niente è scontato e niente segue uno schema noto, gli spazi affondano sotto la percezione cosciente e i laser si fanno materiale per acrobazie dell’attività cerebrale. E che il tema principale sia il lato mentale della trap si vede anche in “Yenom!” e “Look (At The Ship)”, coi campioni vocali distorti che si susseguono memori della lezione juke, una certa attitudine innata al party mood ma piedi sempre ben piantati sul fascino da cuffia, sempre alimentato dall’originalità delle soluzioni.
C’è anche un lato più propriamente orientato alle reazioni di pancia, ma va inteso come entrata in dialettica con la natura trasgressiva propria della trap, quella dei Diplo e delle “Harlem Shake”, che punta a scatenare certi istinti tramite meccaniche note e meno note. Ecco quindi una “Nacho” che, comunque la vedi, è una bomba da club inappuntabile, col suo loop killer e la melodia sghemba che ne contorce il pieno abbandono al trash, ma anche l’abbondanza gangsta di “Yppah” con The Golden Toyz, la mano sulla pista di “Balla EH!” e persino la ripresa di un riff trance classico come quello dei Safri Duo su “Booster”. Tutto questo rientra in una caratteristica già nota ai followers di Aquadrop che è la tendenza ad arricchire le strutture in pieno senso massimalista, con continue stratificazioni e cambi di passo, aperture new age, cantati afro, ambient gocciolosa, flirt progressive o armonie downtempo (solo per citare le sfumature nascoste in questo album), e son tutti spunti che tengono ben lontano il rischio che la gente pensi semplicemente alla “solita tamarrata trap”.
Sono i tratti distintivi unici dell’artista che determinano la natura fine o meno delle produzioni, e non il genere o le impressioni comuni ad esso legate. L’unicità di Aquadrop ha a che fare con l’ingegnoso e il sopraffino, come quella di Golden Toyz con gli impulsi originari e quella di Planet Soap con l’approccio diretto dello spaghetti-style. Nessuno dei talenti nostrani può esser definito un macellaio dei beats e il messaggio per la scena italica è dunque questo: abbiate fiducia nelle vostre qualità, seguite l’istinto e non date troppo seguito ai timori. Solo così, comunque vada nel mondo lì fuori, ne uscirete a testa alta.