“Girls can wear jeans and cut their hair short, wear shirts and boots, because it’s ok to be a boy, but for a boy to look like a girl is degrading, because you think that being a girl is degrading. But secretly you’d love to know what it’s like, wouldn’t you? What it feels like for a girl?” — Charlotte Gainsbourg, The Cement Garden, 1993
“… una mujer se puede poner ropa de hombres y no ofende a nadie en 2017; sin embargo para aun hombre personificar comportamiento femenino o usar prendas femeninas es vergonzoso. Creo que eso manifiesta que el hombre ve a la mujer de manera vergonzosa, el ser mujer es vergonzoso…” — Alejandro Ghersi, intervista su Filter Mexico, 2017
C’è un messaggio nel modo in cui Arca si veste, nel modo in cui si presenta al suo pubblico, nel modo in cui si esibisce e in quello in cui si muove davanti alla macchina da presa dell’amico Jesse Kanda. È il messaggio che contiene e veicola le esperienze e le idee sulle quali l’artista ha costruito la propria crescita intellettuale, emotiva e artistica. L’erotismo esplicito, insieme con una sensualità estremamente femminile, è il mezzo con cui Arca sceglie di stimolare tutti i sensi e di trovare una soluzione al bisogno di calore umano, ma anche all’ansia, all’inquietudine e al tremore che lo seguono sul palco e nella vita. La sessualità estrema lo ha guidato alla scoperta intima di sé, all’accettazione di tensioni contrastanti, al raggiungimento della spiritualità attraverso la manifestazione della propria innata bestialità.
Come il corpo si lacera, se tirato da un lato e dall’altro, e viene fatto a pezzi, così l’anima è dilaniata quando in essa si muovono pulsioni discordanti tra loro o inconciliabili con ciò che viene imposto dall’esterno: essere maschio ed essere femmina; essere umano ed essere bestiale; essere terrestre ed essere alieno; essere Alejandro ed essere Arca. Un dolore intenso risiede nella necessità di nascondere a tutti, amici e genitori, una parte di sé talmente importante che privarsene pesa quasi quanto una mutilazione. Il dolore cambia forma nel momento in cui si sceglie di restituire a quella parte occultata tutto l’ossigeno di cui è stata ingiustamente privata, nel tentativo di ristabilire un equilibrio tardivo tramite compensazione. Ma nel supplizio, anche in quello che assume le forme grottesche della malattia, della vecchiaia e della morte, Arca vede la bellezza e tenta di sublimarne la forma e la forza. “Arca” (XL Recordings) è appunto la bellezza che sintetizza la sofferenza.
“You want gore? Here’s gore” — Arca
Le tracce si spingono oltre il patimento fino alla violenza brutale, a partire da quella di apertura in cui si canta “toglimi la pelle di ieri dal corpo”, che vale come auspicio ad una vita rinnovata e liberata da un passato oramai secco e inutile, ma anche come invito alla tortura fisica, alla mutilazione.
Arca canta con una voce inaspettata, genuina e profonda, modulata in una maniera molto vicina alla forma classica che richiama alla mente la drammaticità liturgica dei canti gregoriani e quella tragica del teatro greco. Canta in spagnolo, omaggiando la lingua del paese in cui è cresciuto, e cita le tonadas dell’icona popolare venezuelana Simón Díaz. In “Reverie” riprende il testo di “Caballo Viejo” catturando la forza dell’indeterminatezza dell’amore che “arriva in questo modo”: spetta a chi ascolta decidere quale sia il modo più intenso e più cruento in cui si può essere sconvolti dall’amore. Allo stesso modo si lascia all’ascoltatore la libertà di interpretare gran parte della produzione, spiegando così il senso dei rumori che oramai caratterizzano la musica di Ghersi. I rumori sono svincolati dai codici, sono liberi e totalmente personali. La bellezza di un rumore la si può trovare solo dentro di sé.
Le parole non sono quasi mai scritte, il canto è improvvisato e mai manipolato. Si percepiscono i respiri, si sente deglutire e, in “Coraje”, la voce si rompe irrimediabilmente. Nulla viene mascherato, i limiti umani, lo sforzo e la sofferenza sono inclusi con la stessa dignità degli accordi di piano. Sia lodato il giorno in cui durante un viaggio in macchina Bjork, amica e musa, lo ha invitato ad usare la voce.
È un lavoro su se stesso quello che compie Arca nel momento in cui si trattiene dal manipolare le imperfezioni e sceglie di accettarle, di perdonare i propri difetti e di estrarne la tenerezza per trasformarli in piacevolezza. È una presa di coscienza che passa attraverso la necessità di rilassare la parte critica del cervello, di ammorbidire la tendenza nevrotica al giudizio. La crescita avviene esponendo ciò di cui si ha vergogna.
Ne risulta una produzione quantomai dolce, languida e delicata pur nella sua violenza, nel suo lacerante patimento.
L’alieno umanoide di “Mutant”, un essere senza genere, senza tempo e senza luogo che fagocitava caoticamente la musica in tutti i suoi generi e forme e ne restituiva una produzione caotica e “difficile”, ha ceduto il posto ad un essere umano fragile e carnale, che ha ridimensionato la sua sperimentazione per imboccare la via di un’esplorazione intima, localizzabile nel tempo (il passato) e nello spazio (il suo Venezuela).
“Arca” è un capolavoro che allieta e disturba al tempo stesso, è un disco che vuole essere ascoltato e riascoltato, è una preghiera rivolta alla natura animale dell’uomo, è una celebrazione all’unicità del tormento sublimato dalla grazia, è un inno all’umanità. Per chi scrive, è il disco dell’anno.