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[tab title=”Italiano”]Colpisce, a prima vista, come questa intervista abbia origine dalla figura dello straniero, condizione di chi, come Aril Brikha, produttore iraniano naturalizzato svedese, si sente tale anche nel paese dove ha vissuto buona parte della sua vita. Un modello biculturale il suo rintracciabile nella sua pragmatica testimonianza – “Io sono ancora un immigrato” – ma anche una scelta esistenziale che si manifesta ugualmente nella musica che compone. Apice del suo stile è la melodia, spesso figlia dell’aleatorietà e nella cui costruzione a far da padrone “non è lo strumento, ma il come lo si usa”. Nel mezzo della struttura stratificata di melodie e armonie, trovano spazio le influenze di band synth-pop come i Depeche Mode con pezzi tratti da “Music for the Masses” quali “Strangelove” e “Behind The Wheel”, cavalli di battaglia di un novizio Brikha che gli hanno consentito di stabilire un’affinità elettiva tanto nell’approccio produttivo quanto nelle live performance dove militano il lato spirituale e emozionale. Parola d’ordine? Groove La Chord.
Il 24 Marzo è uscito “Hope”, il tuo nuovo EP prodotto in collaborazione con Deep’a & Biri su Black Crow, label diretta proprio dall’emergente duo israeliano. Come siete entrati in contatto e cosa vi ha spinti a unire le forze per questa nuova release, al di là del vostro reciproco legame con la Transmat?
Ho incontrato Deep’a & Biri per la prima volta quando ho visitato Tel Aviv nel 2012 e siamo entrati subito in sintonia nel condividere le stesse influenze musicali.
La release vanta anche un aspetto benefico. Illustraci in cosa consiste la vostra nobile iniziativa.
Quando Deep’a & Biri mi hanno chiesto di collaborare con loro ho visto come ciò potesse essere una cosa positiva da fare per noi, personalmente, ma anche la possibilità di far vedere che possiamo lavorare insieme nonostante il background da cui proveniamo. Quando mi hanno suggerito la collaborazione, ho detto che avrei accettato se ne avessimo devoluto il profitto allo scopo di aiutare organizzazioni israeliane e palestinesi che operano attraverso le frontiere.
La vita ti ha portato a vivere in Svezia, lontano dalla tua terra d’origine, l’Iran. In che modo hai imparato a convivere con questo tuo biculturalismo e che tipo di ripercussioni ha avuto sulla tua concezione musicale?
Non puoi sapere veramente com’è non vivere con esso, perché avevo solo tre anni quando mi sono trasferito in Svezia. Il cambiamento è stato probabilmente più difficile per i miei genitori che, da adulti, hanno dovuto imparare una nuova lingua e tradizioni. Crescendo e viaggiando, sono stato più convinto che non sarei mai stato, agli occhi delle persone, un individuo di nazionalità svedese. Io sono ancora un immigrato, anche se ho trascorso quasi tutta la mia vita lì e parlo la lingua meglio della maggior parte degli svedesi. Questo è stato ancora di più confermato dopo aver visitato Israele per la prima volta, un luogo dove avevo rifiutare di andare per molti anni, eppure mi sentivo più a casa lì che una volta tornato a Stoccolma tre giorni più tardi.
Ho notato che nella tua biografia, tra le influenze, vengono ampiamente citati i Depeche Mode. Quali elementi della loro poetica musicale hanno catturato la tua giovane attenzione formando così il tuo percorso?
Tutto ma, principalmente, il lato emotivo e malinconico: il paesaggio sonoro, i synths, i testi di Martin Lee Gore, la voce di Dave Gahan, le tastiere di Alan Wilder. I miei genitori sono impazziti nel sentirmi suonare “Strange Love” giorno dopo giorno sul mio synth. Per di più, “Behind The Wheel” è stata la prima canzone che ho ricreato con il software Cubase sul mio Atari. Programmando il kick, poi la bassline e quindi il resto dell’arrangiamento è stato come ho imparato a capire la stratificazione della musica. Come melodie e armonie lavorano insieme.
Hai affermato che l’aspetto melodico di una composizione è molto importante.
Sì, per me le melodie sono il mezzo con il quale esprimo me stesso, la mia anima, attraverso la musica. Non conosco altre maniere di comporre musica. Qualche volta cerco di fare un brano techno, ma dopo una/due ore ti posso garantire che ci sono delle strutture con altri accordi e melodie annessi al groove.
Qual è la tua opinione in merito all’ultimo album dei Depeche Mode, “Delta Machine”?
Non l’ho sentito, non ho comprato più loro dischi dopo che Alan Wilder lasciò nel 1995.
Altre fonti d’ispirazione?
Non avrei mai pensato che ci sarebbe stata un’altra band capace di ispirarmi come lo hanno fatto i Depeche Mode. Devo dire che i Radiohead ci sono riusciti. Magari non nello stesso modo in cui ho scoperto l’elettropop, ma comunque con grande maestria. Diverso da quelle sonorità, preferisco ascoltare per lo più musica classica, jazz o ambient. Difatti non molta techno.
Sono affascinata dalle modalità attraverso le quali sei entrato in contatto con la Transmat di Detroit, fondata da Derrick May nel 1986. Raccontaci la tua esperienza che ha portato alla pubblicazione del tuo traguardo artistico, “Deeparture in Time” (1999).
Bene, dopo anni di negoziamenti con varie etichette svedesi e altre etichette europee avevo praticamente rinunciato a rilasciare qualsiasi tipo di musica e ho deciso di fare una pazzia, ovvero inviare le demo ad un etichetta di Detroit. La prima sorpresa è stata il fatto che si sono fatti sentire qualche giorno più tardi e la seconda è stata quella di rilasciare la traccia “Groove La Chord” in breve tempo. “Deeparture in Time” era fondamentalmente della musica che avevo fatto all’incirca nello stesso periodo e l’abbiamo così sistemata in un album. Semplice, vero?
Per quale motivo hai deciso di chiamare la tua etichetta con il medesimo titolo del tuo EP di debutto su Fragile Records (parent label di Transmat n.d.r) nonché alias. Quale significato particolare si cela, se c’è, dietro l’espressione “Art Of Vengeance”?
Mi sono avvicinato al nome precisamente nel 1995 e l’ho usato in una compilation per una label svedese chiamata Dunkla. La mia idea era di utilizzare emozioni come frustrazione, rabbia o qualsiasi altro impulso negativo e metterlo in forma d’arte, in questo caso la musica. Quando ho firmato per la Transmat sembrava naturale che questa prima vera release doveva essere chiamata “Art of Vengeance”. E una volta che ho deciso di iniziare la mia etichetta, per segnare un altro cambiamento nella mia carriera, ho deciso di utilizzare quel nome.
Come è cambiato il tuo modo di produrre rispetto alle tue prime release? Mi riferisco in particolare al tuo secondo album “Ex Machina” e agli EP “Prey for Peace” (2005) “Winter” e “Akire” (2007), dove si percepisce una metamorfosi di alcune sonorità.
La metamorfosi più rilevante delle release di quegli anni era che volevo testare qualcosa di ancora più melodico. L’album “Deeparture in Time” era melodico in un certo senso ma più minimalista dal punto di vista della struttura. Anche la novità di impiegare software synths al posto della mia attrezzatura hardware mi ha dato la possibilità di esplorare un nuovo campionario di sonorità e per me è sempre un certo tipo di suoni che determina la traccia che è stata fatta. Raramente ho un’idea e la scrivo. Sono tutte improvvisazioni in un certo modo.
Parlando dei tuoi live set la domanda sorge quasi spontanea: che tipo di set-up utilizzi maggiormente?
Adesso sto utilizzando un computer portatile con due controller. È stato così per molti anni con l’alternanza casuale dei controller, ma è in questo modo che mi piace. È compatto, versatile e posso suonare il mio live set come quando avevo l’hardware, cioè con lo stesso stile improvvisato che potrei benissimo produrre con il mio MPC. Questo è possibile con il mio portatile. Tutto è confluito in un progetto live in cui posso improvvisare, suonare e costruire tutte le tracce che desidero.
A conti fatti, deduco che non disdegni la modernità.
Sono abbastanza vecchio ormai per sentire cose del tipo -“non lo puoi fare” per ogni cambiamento nella scena musicale. L’ho sentito quando sono passato da hardware analogico a digitale, che allora era apparentemente malvisto. Dopo sono arrivati i VST (Virtual Studio Technology) e le persone sostenevano che l’analogico virtuale come Nord Lead era la cosa migliore e non quei falsi VST. Attualmente c’è la rinascita dell’analogico in formati più piccoli, il che è veramente una cosa bella. Non conta se mi date una tastiera Casio Tone, farò musica con qualsiasi cosa. Non è importante lo strumento, ma come lo si usa a fare la differenza. Come per tante altre cose nella vita.[/tab]
[tab title=”English”]What strikes, at first sight, is that this interview originates from the figure of the foreigner, the condition of those who, like Aril Brikha, Iranian producer naturalized Swedish, feels even in the country where he lived most of his life. A bicultural side, traceable in his pragmatic testimony -“I am still an immigrant “- but also an existential choice that shows itself equally in the music he composes. Apex of his style, are the random melodies often created through jam sessions. In the middle of the layered structure of melodies and harmonies, find place the influences of synth-pop bands like Depeche Mode with songs from “Music for the Masses” as “Strangelove” and “Behind The Wheel”, steed of a novice Brikha that allowed him to establish an elective affinity in both productive and live performances approach where excel the emotional and spiritual side. Password? Groove La Chord.
The 24th of March was released “Hope”, your new EP, produced in collaboration with Deep’a & Biri, on Black Crow label directed by the emergent Israeli duet. How did you get in contact and what induced you to join forces for this new release, beyond your mutual bond with the Transmat label?
I met them for the first time when I visited Tel Aviv in 2012 and we got along very well, sharing the same influences in music.
The release also has a beneficial aspect. Explain us what consists your noble initiative.
When they asked me to work with them for a collaboration I saw how this would be a positive thing to do for us but also the possibility to show that we can work together no matter what background we come from. When they suggested the collaboration to me I said, I would do it if we would donate the profit we make to israeli and palestianian help organisations that work across the borders.
Your life led you to live in Sweden, far away from your homeland, Iran. How did you learn to live with your bicultural side and what kind of repercussion it had on your musical concept?
You don’t know how to not live with it because I was only 3 years old coming to Sweden. The change was probably harder for my parents who as adults had to learn a new language and new traditions. The older I got and the more I have travelled I have only been more and more certain that I would never be, in other peoples eyes, a swedish person. Even if I spent almost my whole life there and speak the language better than most swedish people do, I am still an immigrant. This was more confirmed to me after visiting Israel for the first time, a place I had turn down to travel to for many years, but I felt more home there than I did once I came back to Stockholm three days later.
I noticed that in your biography, among the influences, Depeche Mode are widely cited. What elements of their musical poetics have caught your young attention in order to form your musical path?
Everything but mostly the emotional and melancholy. The sound scape, the synths, Martin ’s lyrics and voice, Dave’s voice, Wilder’s keys. My parents must have gone mad hearing me play “Strange Love” on my synth day in and day out. “Behind The Wheel” was the first song I ever “re-created” in Cubase on my Atari. By programming the kick, then the bassline, and the rest of the arrangement, was the way I learned to understand how music is layered. How melodies and harmonies work together.
You have affirmed that the melodic aspect of a composition is very important.
Sure, melodies for me is how I express myself with music. I just don’t know any other way to make music. I sometimes try to make a banging technotrack but, after a couple of hours, I can guarantee that there are strings, chords and melodies added on the groove.
What is your opinion about the latest album “Delta Machine” by Depeche Mode?
I haven’t listened to it. I never bought anything they made after Alan Wilder left in 1995.
Other sources of inspiration?
I never thought I would have any band inspiring me as Depeche Mode but I must say that Radiohead has done that for the past 14 years. Maybe not in the same way as I discovered electronic pop but just great craftsmanship. Other than I prefer listening to mostly classical, jazz or ambient/soundtracks. Not much techno at all.
I’m fascinated about the ways you came into contact with the Transmat label from Detroit, founded by Derrick May in 1986. Tell us about your experience that brought to the publication of your artistic goal, “Deeparture in Time” (1999).
Well, after one/two years of shopping my demo to first swedish labels and the european labels I had basically given up on getting any music released and I decided to do a crazy thing and that was to send it to a Detroit label. First surprise was to hear back from them within days, and the second surprise was to get the track, “Groove La Chord”, out that quickly. “Deeparture in Time” was basically music I had made around the same time and we just compiled it to an album. Just as easy as that!
Why did you decide to call your label with the same title of your debut EP on Fragile Records (Transmat’s parent label n.d.r), and also monicker. What special significance lies, if there’s any, behind the term “Art Of Vengeance”?
I came up with the name already in 1995 and used it on a compilation for a swedish label called Dunkla. My idea was that you can use frustration or anger or anything else that is negative and put it into art, in this case music. When I got signed to Transmat it felt natural that this first “real” release should be named Art of Vengeance. Once I decided to start my label, to mark another change in my career, I decided to stick with that name.
How is changed your way to produce compared to your first releases? I refer in particular to your second album “Ex Machina” and the EPs “Prey for Peace” (2005) “Winter” and “Akire” (2007), where is perceptible a metamorphosis of certain sounds.
The most significant metamorphosis from the releases around that time was that I wanted to try something even more melodic. “Deeparture in Time” was melodic in a sense but more minimal in its structure. Also, the change to software synths instead of my hardware gear, gave me the chance to explore a whole field of sounds and for me its always the sounds you play around with that determine the track that is being made. I rarely have an idea and then write it. They are all jam sessions.
Introducing your live sets, the spontaneous question arises: what type of set up do you prefer more and why?
Right now I’m using a laptop based live set with 2 controllers. It’s been like that for many years with the occasional change of controllers but this is how I like it. It’s compact, versatile and I can play my live set like I did when I had hardware, that means the same jamming/improvised style that I would produce and perform with my MPC. Now I can do it with my laptop. Everything is thrown into a live project and from there I can improvise and play which track I want and how I want to build it.
Then, I understand that you are not scornful of modernity.
I’m old enough now to hear similar things like -“you can’t do that” for every change in the music scene. I heard it when you went from analog hardware to digital hardware, that was apparently bad. After that came VST (Virtual Studio Technology) and people would argue that “virtual analog” like Nord Lead was the real thing and not these fake VST. Currently there is the rebirth of analog in smaller sizes which is the real thing. I don’t care if you give me a Casio Tone keyboard, I’ll make music on anything. Its not about the gear, its how you use it. Like with so many other things in life.[/tab]
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