Quindici minuti con uno come Armand Van Helden non bastano nemmeno per schiarirsi la voce, tanti sono i temi da sviscerare. Eppure è quanto ci è stato concesso esplicitamente prima di iniziare l’intervista, ragion per cui siam stati costretti a focalizzare un unico aspetto di un artista dalle tante sfaccettature. L’occasione è la sua presenza confermata a The JamBO (14-16 Giugno, Bologna) e i tempi son stretti. Ci sarebbero stati da approfondire gli inizi carriera, le sue produzioni house, il rinnovamento garage, i duemila passati verso una più spavalda energia electro, hit storiche come “U Don’t Know Me“, “My My My” o “Bonkers“, ma abbiamo preferito andare a fondo nel volto più attuale del producer statunitense: quel suo tendere recente a una dimensione sempre più mainstream, passata prima da album come “Nympho” e “Ghettoblaster” e sfociata in maniera clamorosa col progetto Duck Sauce insieme a A-Trak, con quella “Barbra Streisand” diventata il tormentone del 2011. Il contrasto tra le origini underground e le affinità commerciali è il lato più interessante di Van Helden, e discutendo son venute fuori dichiarazioni piuttosto coraggiose circa la solita “tentazione pop” che prima o poi fagocita tutto. Si è parlato di credibilità, ineluttabilità, rapporto col pubblico, onestà intellettuale e… Beastie Boys. In maniera aperta e senza peli sulla lingua, niente da nascondere o di cui vergognarsi. A meno che non si voglia leggere altro tra le righe.
Stavo notando che la tua pagina Wikipedia ti descrive ancora semplicemente come un “house producer”. Ti senti a tuo agio con questa definizione o la trovi limitante?
Sinceramente l’appartenenza alla dimensione house non mi dispiace. L’house è un mondo tutt’altro che limitato, storicamente ha sempre allacciato legami con cose diverse. Anche certe mie produzioni sono effettivamente differenti, ma in fondo hanno lo stesso tipo di energia. Esser riconosciuto come un artista house mi va sempre bene, non ci vedo nulla di male.
Tu hai sempre mostrato una notevole varietà: facevi classic house nel periodo precedente a “Old School Junkies”, poi garage intorno a “2 Future 4 You”, poi ti sei spostato sull’electrorock nei 2000 e via dicendo. La sensazione è che non mandi alle stampe mai nulla se non stupisca sul serio il pubblico. Sbaglio?
Eheh, beh ogni volta c’erano delle ragioni diverse per suonare in un certo modo. Quando ero molto giovane sentivo l’impulso di approfondire un certo tipo di materiale, sentivo l’eccitazione della scoperta e l’entusiasmo di poter dire qualcosa di personale, sia sui sound consolidati che sulle tendenze del momento. Adesso ovviamente è diverso, la mia priorità è mantenere vivo il mio sound, e questo magari mi spinge a cercare una certa energia, a mettermi in gioco.
Il tuo sound è effettivamente molto cambiato negli ultimi anni. È qualcosa di plateale se si pensa a Duck Sauce, ma vale anche per dischi come “Nympho” e “Ghettoblaster”. In un certo senso possiamo dire che sta venendo fuori una certa irriverenza, un elemento ironico che non ha paura di buttarla sul “trash”, sul commerciale. È una considerazione che ti infastidisce?
Sai, è strano ma vedo la cosa in maniera capovolta rispetto a tutti gli altri. C’è stato un periodo della mia carriera in cui ero molto underground, è da lì che ho cominciato, ma ho sempre pensato che essere strettamente underground alla fine fosse “cheesy”. Troppo scontato. Mi son sentito spinto a fare l’opposto, volevo che la mia musica colpisse di più. Per questo nel tempo ho cercato sempre più insistentemente di elevarmi dalla dimensione underground, è stata questa la direzione in cui è andata avanti la mia carriera.
Quindi spostarsi verso un’immagine più commerciale è l’evoluzione che cercavi?
Non fraintendermi, non voglio mettere in cattiva luce l’underground. Ma l’idea di artista oscuro, impenetrabile, circondato da una decina di persone selezionate che amano il suo stile, la trovo anche un pò banale. Per me l’underground dovrebbe essere coinvolgente, pieno di musica incredibile. Voglio la gente che si esalta, che ne celebra le tracce. È quella la sensazione complessiva che inseguo.
In altre parole, la dimensione pop. Nel senso più ampio del termine.
È un discorso delicato, il passaggio dall’underground al commerciale comporta sempre un forte problema di credibilità, sai bene cosa intendo. Il modo migliore per entrare nel pop senza perdere credibilità è portarsi dietro i pezzi che hanno prima fatto presa nell’underground. Quelli sono i pezzi che catturano l’attenzione del pubblico, ma all’inizio non è ancora quel tipo di attenzione “pop”. Col tempo possono arrivare a tipi di pubblico differenti, attraversano i confini e magari, dopo 6 mesi o un anno, finiscono nelle radio e diventano pop. Ecco, questo modo di entrare nel pop è il sogno di qualunque artista!
Un pò quel che è accaduto con “U Don’t Know Me”.
Già. Quando però questa cosa avviene, è molto difficile tornare indietro. Magari nella tua testa nulla è cambiato, la tua impostazione mentale sarà anche la stessa di prima, ma da quel momento, qualunque cosa tu faccia, la gente dirà che è pop. E non c’è nemmeno una tua responsabilità ben precisa nel fatto che la tua musica sia diventata commerciale. Fino al giorno prima tu pensavi proiettato nell’underground, l’idea di hit per la radio o di videoclip non ti passava nemmeno per la testa, e non sei cambiato da un giorno all’altro. Eppure non puoi più tornare indietro, a quelle cose che facevi prima. Perché appena un pubblico pop inizia a seguirti, quello underground cambia strada e non riesci più a restarci connesso.
E così sei finito per andare fino in fondo ed è venuta fuori “Barbra Streisand”.
Ecco, “Barbra Streisand” è uno di quei pezzi che non consentono vie di mezzo. O la ami o la odi. Sai cosa avevamo in mente io e A-Trak quando ci siam buttati in quel progetto? I Beastie Boys. I Beastie Boys han rappresentato l’hip-hop bianco, ma la loro credibilità è rimasta anche con tutti i risvolti commerciali a contorno. Rispettatissmi dalla base, eppure enormemente apprezzati nel mainstream. Loro erano “cool white boys”, per tutti. Quando pensi ai Beastie Boys, hai subito l’idea di un gruppo rispettabile. Era questa la nostra intenzione quando abbiamo cominciato come Duck Sauce.
Senti di esserci riuscito? Non hai paura adesso di cosa la gente possa pensare di te, dopo un “outing” mainstream come questo?
Non so, a dir la verità non mi preoccupa più di tanto. Come dicevo prima, la svolta verso il commerciale è una cosa che può accadere, spesso non dipende da te, fa parte del gioco insomma. Una volta che accetti questo, spingere ancora più in là i tuoi confini commerciali ti viene anche naturale. È semplicemente una conseguenza logica.
A sentirti sembra quasi sia stata una cosa inevitabile…
Intendiamoci, ognuno ragiona in modo differente. Certi artisti dicono “qualsiasi cosa succeda, io non diventerò mai commerciale”. E non c’è niente di male! Ma se dentro di te senti che essere commerciali in fondo è ok, è anche giusto che tu ti metta in gioco. Può anche non piacere a nessuno, non importa, è onestà verso sé stessi.
E adesso, dopo tutto quel che hai fatto, dai più classici pezzi house ai più grossi successi mainstream, non senti di essere arrivato? Cos’altro puoi fare adesso?
Eheh, lasciami pensare… beh, di sicuro non ho particolari ansie su cosa possa succedere da ora in avanti, nessun problema a riguardo. Quello che mi piacerebbe in questo momento è concentrarmi sulla parte del mio lavoro che amo di più: dimenticare il djing, la stampa, i video, chiudermi da solo in studio con un cappuccino e tirar fuori qualsiasi cosa mi passi per la testa. E poi condividerla con tutti. Anche se non piacesse a nessuno, ripeto.