Nuovo album di Armin Van Buuren, “Intense”, in uscita il 3 Maggio. Fai partire l’ascolto e, mentre concedi alla trance moderna l’ennesima occasione per la prova di carattere, rifletti sul solito paradosso legato a questo genere. Una selva di top dj pagatissimi e titolatissimi (se la classifica annuale di DJ Mag vale come punto di riferimento), un fracco di affezionati fan di genere diffusi in ogni parte del mondo, eventi e performance da sold-out assicurato, una lista di sottogeneri che neanche il rock, eppure in giro non ne parla nessuno, né la stampa né il comune pubblico di appassionati di musica. Quasi fosse un genere di serie B, in stridente contrasto con quanto detto sopra. E allora ti viene naturale, mentre ascolti il quinto album della star olandese, cercare le risposte tra i pezzi della tracklist, iniziando a elencare le possibili motivazioni.
Motivazione 1: la trance è storicamente il genere che più si è sputtanato col mainstream, snaturando le sue intuizioni originarie e generando i malumori più energici tra i sostenitori della prima ora e i cultori della qualità. Verissimo. Basta un rapido confronto tra un pezzo delle origini (il meraviglioso purismo escapista di “The Age Of Love” o “Cosmic Love“) e uno di quest’album (ad esempio il singolo “This Is What It Feels Like” con Trevor Guthrie) e l’abisso è lampante. Questa è la trance dal volto più sfacciato, che si è venduta al mainstream e detta regole per la larga ricezione, e torniamo qui a riflessioni già fatte sul pop e sulla sua attitudine ad inglobare ogni cosa, uniformando ogni genere al suo servizio. Ragionamenti giusti, eppure non sufficienti per giustificare il silenzio sulla trance. Perché, per fare un parallelo azzeccato con un genere più attuale come il dubstep, anche tra una “Pump Up The Jam” di Plastician e una “Neon” di Doctor P c’è un abisso, forse anche più evidente che per la trance. Eppure il dubstep tiene ancora banco, ci sono ragioni per parlarne e nuovi producer che si interessano alle recenti evoluzioni, per quanto criticabili possano essere (e ne abbiamo già parlato). No, c’è qualcos’altro sotto.
Motivazione 2: la trance è odiata. Odiata dal grande pubblico per quell’immagine fortemente legata alle arene, alla fruizione dance massimalista – magari anche drogata – così distante dall’equilibrio dei gusti che caratterizza l’ascoltatore comune, e odiata anche dalla stampa e dalla maggior parte dei producers, per quella diffusa sensazione che ormai far trance è fin troppo facile: il target di genere è fortemente affezionato, ha l’orecchio rodato e nella maggior parte dei casi basta offrire quella semplice combinazione di linea melodica, potenza di ritmo e sfiato sintetico per strappargli l’approvazione. L’effetto è che tutti i pezzi trance si somigliano fin troppo l’uno con l’altro e non insistono più di tanto sul rinnovamento estetico, una sfilza di produzioni in serie per la vendita a larga scala. Con due posizioni estetiche che la fanno da padrone, quella appunto sdoganata dalla diffusione mainstream, presente nella maggior parte dei pezzi di “Intense” (“Waiting For The Night” o “Won’t Let You Go”) e quella pensata per la performance live, ridottasi a mero catalizzatore per una massa già ben predisposta al calore dell’arena (osservate “Pulsar“, è l’alternanza a schema programmato di tutte le fasi più prevedibili del trance sound). Giustificazione per certi versi ragionevole, questa, ma forse la verità è ancora un’altra…
Motivazione 3: la trance ha perso i suoi plateali colpi di scena. Prendete ad esempio uno dei primissimi pezzi dello stesso Van Buuren, “Blue Fear”, poi un pezzo da “Intense” come “Who’s Afraid Of 138”, e chiedetevi adesso quante differenze sostanziali ci sono tra oggi e vent’anni fa. Questa è l’immagine di una trance immobile, statica, che non ha più voluto sperimentare ipotesi di rinnovamento interno (la cosiddetta “neo-trance” di James Holden, Nathan Fake e Gui Boratto è solo una forzatura giornalistica, perché non è di fatto trance) e che ha preferito continuare ad autoalimentarsi con schemi dall’efficacia nota. E qui si torna al paradosso dell’inizio: cachet a sei cifre, pubblico sempre vivo, risultati commerciali mai sotto la media, eppure questo genere si comporta come fosse una nicchia, che ha smesso di voler essere universalmente riconosciuta come trend esteticamente degno di nota dei tempi moderni. Un pò quel che è successo con la drum’n’bass, mai veramente morta ma rassegnatasi all’ombra rispetto ai comuni ragionamenti musicali.
Chiaramente parliamo di Armin Van Buuren, che non può essere considerato l’indicatore ideale per lo stato di forma della trance ma piuttosto la punta dell’iceberg mediatico che gli ruota intorno, mentre più sotto ci sono diversi esempi di onesti produttori che lavorano seguendo il proprio senso dell’ispirazione (come Rank 1 o Tritonal). Ma non ci si può sottrarre dalle riflessioni sull’immagine plateale che i big della trance offrono al pubblico che guarda da fuori. Perché discorsi esattamente analoghi possono esser fatti per i vari Tiësto, Paul Van Dyk o Ferry Corsten, e vederli tutti evolutivamente fermi e rassegnati ai semplici giochetti dell’usa-e-getta commerciale resta comunque un grosso dispiacere per chi ama le potenzialità che la musica tutta può offrire. E – di passaggio – porta a chiederti su quali parametri venga decisa la nota classifica più contestata al mondo…