Non si parla tantissimo degli Armonica, ovvero Andrea Arcangeli e Salvatore Angelucci (aka Asal), ma già da qualche anno sono uno dei sodalizi artistici di casa nostra che più e meglio riesce a posizionarsi nelle mappe tech-house globali. Questa lunga chiacchierata con loro, per dire, è iniziata parlando di Tulum e delle loro date lì (“E’ un posto incredibile, credici, ora poi l’hanno sistemato bene proprio come strutture e c’è la magia vera, nell’interazione tra palchi, luci, natura, punti di ristoro”), ma in generale scorrendo il loro calendario recente si spazia davvero su tutta Europa. Ultimamente poi si è addirittura infittito il sodalizio con la poderosa ammiraglia Afterlife (una delle realtà più potenti oggi nel clubbing, punto), tra release – “U Can’t Ctrl Me” – ed inviti mica male agli eventi, ma la verità è che l’ascesa di Andrea e Salva è stata assolutamente organica e progressiva, non sono dei miracolati del “tocco famoso” dell’act potente del momento. Non sarebbe nemmeno intelligente considerarli tali, vista la lunga storia alle spalle di entrambi (in primis di Arcangeli, ma anche Angelucci non è uno che ha iniziato a suonare cinque minuti fa). Li abbiamo sentiti suonare diverse volte negli ultimi tempi, e abbiamo visto come siano un nome ormai sempre più importante nella scena europea in senso lato: considerato anche che di loro si continua a parlare non tantissimo in Italia, era d’obbligo un’intervista approfondita. Tanto più che domani 15 ottobre, il giorno dei festeggiamenti del ventennale del milanese Amnesia (uno dei pochi superclub rimasti in Italia), hanno una console importante da gestire. Se passerete da quelle parti, questa lunga intervista piena di analisi incisive e di (auto)ironia dei due è un appetizer piuttosto denso e significativo.
Armonica è una creatura strana, secondo i parametri di mercato: conoscendovi so che avete sempre fatto le cose a modo vostro e senza troppi calcoli, ma in questo momento siete esattamente sul crinale tra ciò che è considerato “commerciale” (oggi si direbbe: “business”) e ciò che invece non lo è. Quanto è difficile, sdrucciolevole questa posizione?
AA: E’ una condizione naturale. Non è calcolata, non è perseguita con intenzione. E’ un modo di essere sia mio che di Salvatore, e si manifesta pure in fasi alterne: perché magari io e lui siamo molto diversi come stile di vita e modo di affrontarla, ma sulla musica davvero troviamo un punto d’incontro assoluto. E’ anche il motivo del nome del progetto, per certi versi: ognuno di noi accumula vissuti ed esperienze diversi, poi è la musica a farci convergere immancabilmente sulla stessa lunghezza d’onda, a creare l’armonia perfetta. Capisci che con questo presupposto qualsiasi cosa esca a nome Armonica è e non può che essere qualcosa che ci rappresenta perfettamente. Davvero, non potrebbe essere diversamente. Ci è capitato di muoverci in aree musicali diverse, dall’afro-house a sonorità quasi indie, ma ogni volta era il nostro tocco, la nostra interpretazione, il modo con cui le nostre due attitudini si sposano fra di loro.
SA: Che poi, non vorrei sembrasse una cosa così mistica. Ci mettiamo in studio, iniziamo a lavorare, e capita spesso una scenetta del genere: che ci ritroviamo in mano qualcosa che inizialmente non sappiamo nemmeno come prendere e come giudicare, “Che è ‘sta roba… Però boh, è figa! Lavoriamoci sopra!”.
AA: Vero, vero, la maggior parte delle volte è così… (ride, NdI) Poi a rendere tutto ancora più complicato strano spesso capita che alcune tracce abbiano la release reale anche ad un anno e mezzo o addirittura due da quando le abbiamo finite. Ad ogni modo: sì, ci supportiamo molto a vicenda, in studio. Anzi, fammi dire che in questo Salva è proprio fenomenale, è un grande motivatore.
SA: E tu invece sei permaloso, te lo dico! (risate, NdI)
AA: Vero, vero…
SA: Non vuoi fare una cosa, e io sono lì “Dai. Ma prova, almeno prova. Dai accidenti…”.
AA: Eh… (ride, NdI)
Quando avete creato il progetto Armonica, sapevate già che sarebbe stato un progetto a lungo termine o era un tentativo tanto per vedere l’effetto che fa?
SA: Guarda: io ero resident al Titilla, al Cocoricò; Andrea era resident al Titilla; e allora, per evitare spiacevoli discussioni su chi suona prima o chi suona dopo ci siamo detti “Ma dai, creiamo Armonica, va’, così il problema non si pone più”. Perché avevamo visto fin da subito che nei nostri set c’erano tantissime tracce che suonavo sia io che lui. Puoi avere milioni di tracce a disposizione, e le hai, ma alla fine vai a finire sempre un po’ sulle solite – e su quelle ci trovavamo alla perfezione. Da lì all’andare in studio assieme, per vedere l’effetto che fa, il passo è stato brevissimo. Lì è iniziato il casino.
Ah sì?
SA: Mesi e mesi a cercare di trovare un suono che fosse “nostro”. Piano piano, abbiamo iniziato a pensare che sì, forse a qualcosa eravamo arrivati… Anche se guarda, non lo so, forse non ci siamo arrivati ancora del tutto. O non ci siamo arrivati e basta! (ride, NdI)
Ancora alla ricerca?
SA: La prima etichetta su cui siamo usciti è stata Parquet. Poi ad un certo punto ci è capitata questa opportunità di remixare per MoBlack un disco afro-house, sempre nel 2017, in una fase in cui l’afro-house non era ancora tornata così tanto in auge: beh, è stata una svolta. Il disco hanno iniziato a suonarlo Solomun, Dixon, Kristian degli Âme, Garnier… Tutti, praticamente! Una cosa incredibile. Guarda, quando Dixon lo ha messo durante il Sonar Off al Monasterio è stata una soddisfazione pazzesca, volevamo tipo… morire lì.
AA: Davvero, è stato assurdo.
SA: Lì c’è stata la svolta. Da lì sono iniziate ad arrivare richieste per suonare un po’ dovunque, offerte per fare dei remix. Pensa che quando noi abbiamo fatto quella release per Moblack non c’era ancora la categoria Afro House su Beatport…
AA: …e ora che c’è il giochino si è fatto più noioso. Ad ogni modo sì, abbiamo trovato questo equilibrio nel rivestire sonorità afro con abiti deep, quasi progressive, ed ha funzionato. Mi ricordo la prima volta che la suonammo al Titilla: c’era Kristian degli Âme accanto a noi e boh, per prenderci un po’ in giro iniziava a mimare di suonare un flautino… Dopo peco però l’abbiamo visto suonare questa traccia di fronte a 10.000 persone: a occhio allora questo “flautino” non gli aveva fatto così schifo (risate, NdI)… Comunque ecco, quando iniziano a suonarti persone come lui, come Solomun, come Dixon capisci che occhio e croce hai preso una strada valida.
In quel momento vi è venuta la classica ansia del “Oddio, è il nostro momento, non dobbiamo perdere l’occasione, dobbiamo battere il ferro finché caldo”…?
SA: E certo. Certo che ci è venuta. Ma come gestirla? Boh. Ad un certo punto da un giorno all’altro sei subissato di offerte, richieste… E la mia reazione: “Bah”.
AA: Onestamente: era da tanto che cercavo di arrivare ad un certo tipo di riconoscimento. Però poi quando ci arrivi… Ecco, non sei mai preparato, devi imparare e gestirtela in tempo reale, passo dopo passo. Chiaro, quello che non manca è l’entusiasmo: iniziano a chiamarti a suonare all’estero, finisci all’ADE, al Watergate a Berlino, tutti posti che prima vedevi come semplicemente inarrivabili per te. Ci è capitato tutto addosso. E l’abbiamo gestita un po’ a braccio.
Ecco: quale consiglio dare a chi si può ritrovare in una situazione come la vostra in quel frangente?
AA: Continuare a fare musica. Se continui a fare musica, senza farti troppo distrarre dal resto, non sbagli mai.
SA: Siamo stati fortunati che tutto questo sia successo grazie a MoBlack, una persona che fin dall’inizio ci ha dato moltissima fiducia, quando non era tenuto a farlo, e poi ci ha supportato tantissimo, mantenendo sempre una bellissima sinergia. Una chiave è come dice Andrea continuare a fare musica, l’altra secondo me è continuare a confrontarsi con le persone di cui ti fidi. Che poi guarda, sì, è andata bene, è stata un’ascesa inaspettata, ma non è che sia successo chissà cosa. La musica, poi, oggi gira veloce. Escono un sacco di dischi ogni settimana. Può capitare che uno di quelli che funziona sia il tuo. Ma non basta quello a sistemare tutto, non è che da lì in poi è tutto già fatto.
Parlate così perché sì, magari Armonica è nata solo cinque anni fa, ma siete entrambi ormai persone con una certa esperienza.
AA: Già. Non siamo più di primo pelo. Ma tornando ai consigli da dare: integrando quello che diceva Salva, è importantissimo circondarsi delle persone giuste. E le persone giuste sono non tanto o non necessariamente quelle che ti possono posizionare in alto nel mercato, che poi, per carità, male non fanno; ma è essenziale che siano persone che credono in quello che fai. L’unico, vero ingrediente che non deve mancare è questo, tutto il resto viene dopo. Solo così hai la possibilità di affrontare in modo solido tutti gli step che ti aspettano. Io personalmente sono uno che starebbe anche tutto il tempo chiuso in studio, o quasi; ho avuto la fortuna di incontrare Salvatore che è invece uno molto più aperto, più sociale, è stato grazie a lui che mi sono aperto, che sono cresciuto tantissimo, che ho ampliato le mie visioni, che ho incontrato tante gente di valore.
SA: Girando per posti ed incontrando altre persone dal vivo capisci meglio dove va la musica. Magari tu hai le tue convinzioni, poi vai ad un festival e ti capite di sentire, che so, i Tale Of Us ed improvvisamente ti si aprono nuove prospettive, torni il giorno dopo in studio molto più motivato e con la voglia di alzare il livello.
Sentite, umanamente parlando com’è il nostro ambiente, quello insomma del clubbing?
SA: L’ambiente in cui stai è sempre quello che ti crei tu. Dipende tutto da te.
Questa è una frase perfetta.
SA: Parliamo e ci incontriamo tanto con altri dj, e i rapporti sono davvero ottimi. Che poi come potrebbero non esserlo, dai? Stai parlando di musica, che è una cosa bellissima su cui confrontarsi. Certo, c’è anche la componente business, ma noi come artisti il primo obiettivo che vogliamo e dobbiamo avere è quello della musica, stop. Ed è un obiettivo splendido: che ti fa star bene. Almeno, per noi vale così.
AA: Già. E tutto questo è completamente diverso dall’approccio che avevo qualche anno fa, prima della nascita di Armonica. Ora vivo un equilibrio che mi fa stare davvero bene, sono sereno con tutte le persone che incontro e con tutto quello che succede. E questo cambiamento è merito di Salva, davvero. Anche se in studio lo odio, eh.
SA: Lì le litigate sono pesantissime, confermo.
AA: Già. Ma sono le classiche litigate fra fratelli che si vogliono un bene dell’anima.
Domanda: fino a che punto vi sentite artisticamente italiani, e fino a che punto invece siete in tal senso cittadini del mondo? Ve lo chiedo perché voi negli ultimi anni, anche se se ne parla poco, siete fra i dj/producer italiani che suonano di più all’estero.
SA: Credo che il 95% delle nostre date sia all’estero. Anzi, forse il 97%.
Come mai?
SA: Guarda, credo che all’estero si ascolti con più attenzione la musica, le release. Era così anche in Italia, ma ultimamente questa cosa si è un po’ persa, non so perché. Quando andiamo a suonare che so a Tel Aviv, la gente ci chiede esplicitamente le nostre tracce. Le conoscono, le hanno ascoltate, le vogliono – capisci? C’è nel pubblico dei club una voglia di ascolto e ricerca che in Italia forse si è un po’ persa, almeno rispetto al passato.
AA: C’è un altro aspetto da sottolineare: nel mondo, possono coesistere diverse sfaccettature della musica da club, anzi, è proprio incoraggiato il fatto che ciascuno abbia una sua visione personale della cosa, capisci? I promoter seguono ancora più i loro gusti che i meri calcoli economici e in questo modo è più facile che si crei una scena specifica, un seguito motivato, fedele, appassionato. In Italia da un po’ di tempo a questa parte si rischia molto di meno, e questo forse anche perché non c’è stato un grandissimo ricambio generazionale. Il promoter che ti chiama ormai ha una certa età, e giocoforza ormai pensa prima al bar, all’incasso… E ha meno fotta di quando invece aveva venti o trent’anni nel cercare cose nuove in musica, ascoltare, informarsi maniacalmente. Il risultato? All’estero c’è molta più varietà, c’è molto più spazio per tutti, per i sogni e i suoni di tutti; in Italia invece ci sono dei riferimenti forti, ed alla fine quasi tutti seguono quelli e solo quelli. Nessuno si prende la licenza di variare un po’. Sono convinto che chi invece avrà il coraggio di farlo, spaccherà tutto. Ti faccio un esempio ben preciso.
Quale?
AA: Manfredi, ovvero Dj Tennis, nei suoi anni da direttore artistico del Cocoricò: lui è una persona che mi ha aperto tantissimo la mente, portandomi a confrontarmi con musiche, stili e nomi che di mio invece non avrei cercato. E’ stato grazie a lui che ho capito la differenza tra il voler “fare” attivamente, mettendoci del proprio e rischiano, e il “prendere” passivamente quello che già c’è e già c’è stato. Che poi guarda: non è vero che in Italia se prendi dei rischi il pubblico non ti premia. Noi appunto siamo un ibrido strano, e devo dire che di solito la reazione della gente ai nostri set è sempre ottima.
SA: Che poi sia chiaro anche in Italia ci sono delle realtà notevoli. Quello che fanno Gigi Urso e Riccardino Lai è notevole sotto tutti i punti di vista, pensa a quello che è il Social Music City: migliaia e migliaia di persone già dal pomeriggio, con console di valore enorme e un pubblico molto variegato. Non è certo la “solita” cosa. Sì: anche in Italia ci sono realtà valide.
AA: Ma certo, poi come non nominare anche il Kappa, per dire, se si nomina il Social; ma il mio discorso era più riferito ai club, non ai grandi eventi.
Spesso si crea questa dicotomia, secondo me vera fino ad un certo punto, per cui se tifi per il Social e il Kappa vuol dire che odi i club e l’underground.
SA: Mamma mia, quando si tira in mezzo la parola “underground”…
AA: Io non sono mai riuscito a capirla bene, sai? “Underground”, “underground”, e poi magari li vedi suonare di fronte a cinquemila persone: che “underground” è? Siamo sicuri che questo termine abbia ancora un senso?
Forse bisogna riappacificarsi col fatto che il nostro è un genere musicale che esiste da oltre trent’anni e il clubbing è entrato negli usi e costumi di molte persone, non è più solo un fenomeno alternativo e controculturale.
SA: Ecco, su questo fammi dire che Milano è molto avanti. In praticamente tutti i posti c’è musica da club di qualità, senza perdersi in sterili discussioni e divisioni su cosa sia underground e cosa invece sia mainstream: ciò che conta è che la musica sia forte, attuale, moderna. Abbia insomma un po’ di vita dentro di sé, la voglia di essere rilevante e significativa per le persone. Siamo insomma al passo coi tempi.
Come quella che fate voi.
AA: Oggi, sì. Ma domani chissà che genere faremo…