Amo definire Giulio “la mosca bianca”: lui lo sa, e ormai evita anche di chiedermi ogni volta il perché. Giulio Fonseca, aka Go Dugong, è un artista anomalo: un artista/non artista, che fa di parole conviviali e della condivisione valori primari rispetto alla produzione e alla musica stessa. Ho avuto la fortuna di vedere nascere “Curaro”, l’album in uscita il prossimo 23 marzo per 42 Records, di ascoltarlo sin dal suo stadio primordiale, vederlo cambiare, crescere, maturare; e, al contrario di quanto dica Go Dugong stesso, sono riuscito a non vederlo invecchiare. Questa è una lunga chiacchierata tra amici a tema “Curaro”, ma con mille deviazioni: passando per la rivista Focus, i dubbi, i consigli e anche per Marco Columbro, perché poi sono arrivati pure gli alieni…
Tre anni fa, alla fine di un’intervista che ti stavo facendo in occasione dell’uscita di “Novanta”, ricordo che prendesti il computer e mi facesti sentire delle demo dicendomi: “Sto già lavorando ad un nuovo album, che nasce per un’esigenza di trovare un nuovo contatto con la natura“. Tutto nasceva dopo un tuo viaggio in Giappone dove, nel mezzo di una piazza di Tokyo, Shibuya se non ricordo male, decidesti che dovevi “fermare” la confusione e un certo ritmo frenetico.
Alla fine di quei demo sentiti quel giorno, in “Curaro” cosa ci è finito?
Tutto! I pezzi sono quelli, mi ricordo bene quell’intervista e quel momento. Sono passati tre anni, “Curaro” è un disco che ha già tre anni… Logico, è passato del tempo e sono successe tantissime cose, il disco è partito come un’antitesi di “Novanta” che era basato sulla metropoli, sul caos, su quel mix culturale di rumori e suoni che può dare una città come Milano. “Curaro” è nato come un rifiuto di tutta questa roba qua, mi ero concentrato talmente tanto su questo discorso delle metropoli, che poi è stato forse un percorso naturale quello di riavvicinarmi a tutto ciò che la natura offre.
Quando hai deciso che quelle demo si sarebbero trasformate poi in “Curaro”?
Quello è successo subito dopo. Lo sai, quando lavoro a un disco, comincio una ricerca e uno studio fatto di molte letture: articoli, estratti da libri, etc. etc, portando il concept iniziale del disco, rivolto alla natura, ad un piglio diverso. Leggendo mi sono imbattuto in alcuni discorsi sul rapporto tra alcune tribù africane e amazzoniche e la natura, da lì ho iniziato a concentrarmi sull’aspetto tribale e mitologico che loro stesse hanno nei confronti del cielo, delle stelle, dei fiumi, dei pesci e via dicendo. La prima cosa che ho trovato, se vuoi sorprendente, è la profonda connessione, i tratti in comune che tribù distanti geograficamente hanno tra loro: impensabile, visto che parliamo di periodi e distanze che al tempo era impossibile connettere. La seconda cosa assurda è come queste tribù avessero delle credenze verso civiltà provenienti dallo spazio. Ti faccio l’esempio della tribù di Dogon nel Mali, che conosceva alla perfezione il sistema solare, conosceva dei satelliti orbitanti intorno a Sirio che ad occhio nudo era impossibile vedere: anche questo inspiegabile, se ci pensi. La loro risposta è che anni fa una civiltà proveniente dallo spazio, chiamata Nommo, ha insegnato loro a interagire con il sistema solare, e con la natura.
E’ cambiato abbastanza radicalmente il discorso rispetto alla prima idea di un album sulla natura quindi.
Sì, parecchio. Se ricordi inizialmente c’era tanto field recording, un tema però che parecchi artisti hanno già abbondantemente tracciato. Spostarmi verso un’interazione più ampia che comprendesse cielo e stelle mi ha appassionato sicuramente di più, anche perché è un tema forse leggermente più originale. Sicuramente la modifica al concept iniziale dell’album ha cambiato molto i pezzi successivi e influenzato le modifiche arrivate dopo.
Prendiamola un attimo più larga: tre anni fa ti innamori della tua attuale compagna e in una settimana butti fuori “A Love Explosion”, il tuo preferito. Ancora prima, ti trasferisci a Milano da un contesto più piccolo e provinciale come quello di Piacenza e pubblichi “Novanta”, come racconto di un passaggio verso una forte urbanizzazione e multi culturalità. Infine nei tre anni successivi, fino ad arrivare ad oggi, ti dedichi a questo disco che è un ritorno ad origini primordiali. Ora, nessuno fa musica tanto per farla credo, ovvero priva di significati, però tu in questo sei ancora più mosca bianca rispetto a gli altri. Tutte le tue pubblicazioni hanno sempre risentito di un tuo mood particolare, lavori che per questo motivo sono anche molto diversi tra loro.
Sì assolutamente, a me poi piace anche cambiare il mio linguaggio espressivo per raccontare cose diverse. E’ ovvio che non è possibile raccontare la natura allo stesso modo in cui ho raccontato “Novanta”. Mettere dei ritmi hip hop o gente che fa hip hop in “Curaro” non avrebbe avuto alcun senso, avrebbe stonato.
Allora è corretto, secondo me, definire la tua musica spirituale. Se ci pensi “Novanta” raccontava una spiritualità urbana mentre “A Love Explosion” una spiritualità di sentimenti, “Curaro” tutta la spiritualità che abbiamo appena raccontato. Preferisci questa definizione a quella di world music? Sono concetti vicini ma anche lontani.
Non lo so. Ammesso che io faccia mai un altro disco che abbia come concept lo spazio, allora cosa c’entrerebbe la world music? La world music mi affascina, è vero: io sono un curioso, mi piace fare ricerca sulla musica sconosciuta o che comunque io non conosco.
Il mio è stato, ed è, un percorso di studio che influenza i miei lavori. Però non mi sento in alcun modo legato alla world music. Magari i prossimi lavori saranno completamente diversi. Non so come si possa definire: se si può davvero definire musica spirituale, ci può stare. È vero invece il tuo discorso del mood: io sono molto confusionario nella gestione di un disco e, se non ci fosse questo “senso”, e un concept definito, risulterebbe come un lavoro senza né capo né coda. Mi impongo quindi di iniziare un disco solo nel momento in cui ho un’idea e un concetto da cui partire, quasi fosse un film da musicare. Non so se è proprio spirituale, è uno sguardo personale che comunque avviene dall’esterno, non è che ho viaggiato in Amazzonia per fare “Curaro”.
E’ un disco immaginario?
Forse sì. I titoli, le leggende a cui mi sono ispirato comunque esistono, vai a sapere se poi sono cose realmente esistite. Non so, su questa cosa sono agnostico, non vorrei adesso diventare il Marco Columbro della situazione, per cui siamo un incrocio tra queste civiltà aliene e le scimmie, non ti sto dicendo che ci credo; ti dico che ne sono rimasto affascinato e la cosa ha meritato che io approfondissi questa fascinazione e ne facessi un disco.
Cazzo, sei uno di quelli a cui Voyager ha fatto dei danni.
Non ho mai visto Voyager (ride NdI), però… Non è che son qui a crederci o a diffondere chissà quale teoria.
Però io ti vedo in questo ruolo di guru o santone: frequento casa tua e ogni volta che ci vengo, o comunque ogni volta che trascorriamo del tempo insieme, mi accorgo che i miei ritmi rallentano molto. Io sono una persona di mio molto frenetica, quando ti vedo comunque riesco a rallentare di molto il mio tempo, trasmetti pace. Mi sa che te l’ha detto anche qualcun altro.
Devo dirti che la cosa è comunque reciproca, di solito non è che io sia comunque così rilassato. In realtà penso di essere una persona abbastanza equilibrata, ovvio anche io ho i mei momenti di scazzo e frenetici. Lo sai come sono fatto: gestisco mille cose contemporaneamente, ho un disco in uscita dopo tre anni per cui sono contento ma sono stanco. Dopo tre anni la mia testa è completamente da un’altra parte, concentrata su mille altre cose.
Era già successa con “Novanta” questa cosa: ricordo che non sopportavi più di sentirne anche solo una nota una volta finito…
Sì è vero, però lì c’era stato in mezzo ” A love Explosion” che aveva un po’ spezzato il tutto. Io “Novanta” l’avevo anche finito presto, poi l’avevo lasciato lì a maturare; in mezzo appunto avevo staccato con l’altro lavoro e avevo fatto in modo di arrivare alla pubblicazione di “Novanta” pronto per i live e per “rivivere” il disco. Considera poi che non era passato nemmeno tutto sto tempo, con “Curaro” la maturazione è stata di un anno in più, la linfa per questo nuovo album verrà invece dai live fatti con la band.
È un rapporto di amore e odio quello che hai con la tua musica. Ho avuto la fortuna di vedere nascere e crescere “Curaro” fino alla sua completa definizione, credo sia abbastanza lecito avere una sana esasperazione al termine di un periodo così lungo.
Esasperato sì, ma nel senso della difficoltà di lavorazione. Questo album è stato più difficile rispetto a gli altri, le collaborazioni sono state molto complicate, molte persone mi hanno abbandonato in corsa facendomi ritardare mesi. Ho ricevuto molti pacchi, non voglio far nomi ma è andata così.
È un disco stanco?
No, non è propriamente un disco stanco, è un disco che mi ha stancato. Chi mi conosce bene sa che ora sono completamente proiettato verso altre cose e vedere uscire questa cosa, ribadisco per chi mi conosce bene, potrebbe essere vista come un passo indietro. Lo è! È un disco di tre anni fa.
Credo sia comunque un disco che meriti di uscire e di essere amato.
Assolutamente! Io con la musica sono completamente libero, non avessi voluto farlo uscire ci avrei messo un secondo a dire “Ragazzi non esce più“. Se lo faccio uscire è perché secondo me ne vale la pena, nel senso che davvero ci ho dedicato tanto tempo e il concept è ancora un argomento che mi appassiona.
Beh, era il 2015 quando ti dicevo “Anche tu nella musica etnica…” e mi preannunciavi che sì, nel futuro disco ci sarebbe stata molta meno elettronica. Tre anni fa questa cosa di lanciarsi nella musica etnica poteva anche essere vista come una novità, ora rischi di pagare il fatto che “Curaro” venga bollato come l’ennesima uscita su quel genere lì.
Ne sono consapevole, però che andassero a fare le stesse storie per l’ennesimo disco techno, per l’ennesimo disco house, per l’ennesimo disco di sound design. Ci sono correnti che risuonano da anni: non vedo perché la gente mi deve rompere il cazzo se faccio un disco di world music. E’ vero, ho fatto un disco di musica etnica come dici tu, ma l’ho fatto a modo mio cercando di personalizzarlo, mischiando suoni italo disco, cosmic e dub, con la musica africana e amazzonica, perché lo sai sono un amante del minestrone. Credo di aver fatto un disco differente rispetto a Populous o Clap! Clap!, che trattano la materia in maniera diversa, o Dj Khalab. Che male c’è? E’ un disco che ha una sua anima e una sua personalità, così come ogni disco techno ha una sua anima e una sua personalità. Tra l’altro – e secondo me è importante – per fare la mia musica non mi ispiro mai a nessuno, anche perché ascolto pochissima roba nuova.
Tu sei un “vecchio” con la musica, Giulio…
No dai! Con Balera Favela, la serata che abbiamo messo su a Milano, mi sono aperto. Tre anni fa hai ragione, ero un “vecchio”.
Con l’odore di naftalina addosso aggiungerei…
Che schifo (ride, NdI)! Però è vero: io ascolto la musica confacente alla ricerca che in quel momento sto facendo. E’ ovvio che non vado ad ascoltare cose nuove: se voglio fare un album con una forte componente etnica non vado ad ascoltare Clap Clap!, con tutto il rispetto, ma vado ad ascoltare i dischi africani di venti, quaranta anni fa. La mia giornata come quella di tutti è fatta di ventiquattro ore, non posso essere aggiornato sia sul vecchio che sul nuovo.
(continua sotto)
Ad un certo punto, esattamente un anno fa, mi fai sentire per la prima volta “Curaro” e cominciamo a scambiarci opinioni. È il periodo dei dubbi e delle pause…
Esatto, comincia quel periodo lì. Avevo fatto sentire il disco sia a te che ad altra gente vicina e tu mi hai fatto questa osservazione dicendomi: “Sì Giulio, è un bel disco di world music” ma ricordo benissimo che hai anche aggiunto: “…però hai rotto il cazzo“. Quando ti ho chiesto il perché, mi hai detto: “Sei troppo rispettoso della materia, secondo me dovresti metterci qualcosa di più, renderlo più interessante, più moderno, più al passo con i tempi, perché questo sembra un disco veramente fatto dalle tribù, gente autoctona. Hai preso tutto sto materiale l’hai rivisitato senza stravolgerlo secondo me abbastanza“.
Adesso mi stai dando una responsabilità enorme nei confronti di “Curaro”…
Ma no, ci sta! Io ascolto mille input che mi arrivano, poi, alcuni li ascolto dubbioso, altri invece mi fanno riflettere e comincio a chiedermi come potrei superarli. Tra le altre cose, le osservazioni che hai fatto tu al disco sono poi le stesse che ha fatto anche Dj Khalab. Capisci che dal momento in cui voi due mi dite esattamente le stesse cose, era doveroso ci riflettessi attentamente. A quel punto ho cominciato a ripensare a tutto il discorso delle tribù e a quanto avevo letto.
Ricordo la telefonata questa estate: “Mirko, sono arrivati gli alieni”.
Ti ricordi? Mi sono ascoltato alcune cose cosmic, ho immagazzinato certi suoni e ho chiamato questo mio amico di una vita, Massimiliano Baccolini: l’ho chiamato con la classica telefonata del “Come stai, becchiamoci“, e gli ho proposto di venire a Milano per fargli sentire i pezzi e lavorarci sopra. Mi ha detto subito di sì, gli ho fatto sentire i pezzi gli ho parlato di questo concetto spaziale; mentre per le parti dub volevo suonasse tutto meno macchinoso. Lui ha risuonato praticamente tutto e in quel momento, sarà che ci siamo fumati l’impossibile in tre giorni, sono arrivati gli alieni e mi hanno trasformato il disco.
Intitolerò questa intervista: “Go Dugong sono arrivati gli alieni”…
Dai, così la gente penserà davvero che sono Marco Columbro! Però da quel momento è cambiato radicalmente il disco e ho pensato che fosse qualcosa di spaziale.
Se prendi “Herzog” c’è questo synth alla “Stranger Things”, per dire. È un disco molto organico: ci suono il basso, mentre in un pezzo – per la tua gioia – ci son ben tre chitarre.
Se ci sono tre chitarre chiudiamo qua l’intervista…
Però le ho usate col software, ho attaccato la chitarra alla scheda audio e ho usato gli amplificatori finti, puoi passarmelo.
Non c’è tanto computer in questo disco, forse giusto in fase di scrittura…
No, esatto. Pochissimo sampling e tanto in scrittura, forse qualche flautino qua e là, il resto è quasi tutto suonato.
È un’antitesi al tuo essere beatmaker, sempre ammesso tu sia mai stato un beat maker. Lì l’errore fu quello di considerare beatmaker chiunque avesse un MPC. Come si passa dal “faccio tutto con il laptop” a “faccio un disco suonato”? In realtà anche fare un disco sulla natura e farlo con il computer è un controsenso.
Io nemmeno ce l’avevo l’MPC! Questa è una bella domanda, comunque. Ho fatto fatica, tantissima fatica; si sentiva che l’utilizzo esclusivamente del computer era abbastanza limitato e limitante, anche asettico, infatti per questo ho deciso di suonarlo tutto. La struttura è sicuramente fatta con il computer, ma è normale che per fare un disco così il rapporto con il computer dovesse finire lì, non credo sia possibile fare un disco di cumbia psichedelica amazzonica utilizzando esclusivamente il computer.
Secondo te perché in Italia siete tutti impazziti per la cumbia? Qual è il legame tra l’Italia e la cumbia, passato addirittura da Celentano?
Ah ma lui è stato il pioniere di questa passione. Io credo sia per una questione di ritmi. La cumbia ha un ritmo lento su cui è impossibile star fermo, è un ritmo sexy e secondo me è tutto dovuto a questo. Non mi stupisce per nulla abbia avuto tutto questo successo. Semplicemente in Italia è arrivato tardi, come tardi in Italia arriva tutto.
Il perché di questo ritardo secondo te ha una spiegazione?
Perché siamo un paese chiuso in se stesso, non solo musicalmente, in tutto. Guarda la società contemporanea in cui viviamo, confiniamo con paesi tipo la Francia che ha un’integrazione enormemente differente.
È un’integrazione partita almeno vent’anni prima però…
Certo in Italia questo tipo di percorso integrativo nemmeno è iniziato, anzi, gran parte di questa popolazione non è nemmeno a favore di questo processo d’integrazione.
Tu sei stato sempre molto vicino a questo processo di integrazione e multiculturalità dei popoli.
Sì, perché è una cosa che ho sempre trovato nei paesi in cui ho viaggiato e che invece in Italia è, se tutto va bene, agli albori. Anche musicalmente parlando l’Italia è un paese molto chiuso, non ci sono label italiane che provano a lanciare artisti stranieri. In Italia esistono etichette italiane che producono artisti italiani, che si fanno grandi tour in Italia, non esiste altro. Qualcuno che esce da questo cerchio ovviamente c’è, ma se ci pensi son numeri bassissimi.
Ricordo che uno dei tuoi più grossi dubbi durante la genesi del nuovo album era se potesse o meno girare all’estero… Nonostante “Curaro” non abbia nulla di Italiano, i dubbi sul fatto che possa varcare il confine erano e rimangono tanti. Secondo te perché?
Io ci ho provato a mandarlo ad un po’ di etichette straniere, non credo l’abbiano nemmeno ascoltato.
Non sarà alla base un problema culturale? Nel senso: nessuno ascolta perché tanto si sa che di base dall’Italia non può uscire nulla per altri paesi.
E ultimamente si è anche sdoganata questa cosa, pensando al successo di artisti come Cristiano (Clap! Clap!, NdI), come Lorenzo Senni, che hanno dimostrato come dall’Italia sia uscito materiale interessante e competitivo. Io credo che da qui ci siano tanti progetti meritevoli di uscire. Penso la motivazione sia la stessa che ti ho dato prima: siamo un paese molto, molto chiuso. Ultimamente si sta muovendo qualcosa, ma da pochissimo tempo.
Si può cambiare qualcosa facendo cartello? Andando a tirar fuori nuovamente quell’idea di fare una scena nostrana?
Sì, ma dovremmo riuscire ad esportare qualcosa di veramente nostro, e questa è una critica che faccio anche nei miei confronti. Fino ad oggi la mia ricerca si è basata su viaggi lontani, sia fisicamente, che mentalmente; se in un’ipotetica scena prendessimo qualcosa di nostro e profondamente italiano e riuscissimo a dargli un suono proprio riconoscibile e riuscissimo a conquistare Europa e resto del mondo, allora sì, potremmo fare un cartello.
In minima parte quello che fa Liberato…
Liberato di personale e di unico ha solo un fatto linguistico e il cantato, ma musicalmente non ha un sound italiano, dobbiamo parlare invece di suono.
Simone Mace (ex Reset!, producer tra grime, trap e pop, co-autore tra le altre cose di “Pamplona”, NdI) su questo discorso mi ha detto “Mirko, non è che siccome sono italiano devo per forza suonare la tarantella”.
Vero anche quello, però se fai una ricerca nel nazional popolare italiano e sei così bravo da modificarla con un nuovo suono, una nuova veste, quelli sono ritmi che funzionano.
Puoi giurarmi su Dio, o sui tuoi alieni, che non farai mai un disco di pizzica? La tua ultima affermazione mi terrorizza molto.
Aspetta un attimo! (Torna dal soggiorno con in mano una copia di “Il Dio Che Balla – culti e riti del tarantolismo in Italia”, NdI) Vedi questo libro? Questa è l’idea di base per il nuovo disco: andare a riprendere suoni e ritmiche della tradizione italiana e reinterpretarla. Un esperimento difficile, perché è difficile prendere quei suoni e spogliarli di quella veste abbastanza freakettona di cui sono fatti e dargli il giusto appeal, rendendoli affascinanti anche alle orecchie di chi come te non sopporta quei suoni. Con la cumbia è successa esattamente la stessa cosa: questi artisti elettronici sudamericani che suonano la cumbia altro non hanno fatto che prendere le loro musiche paragonabili al nostro liscio e reinterpretarle facendo successivamente cartello. Mi sto concentrando molto su questa cosa ultimamente.
E uscirebbe sempre come Go Dugong?
Sì, perché no?
Allora, fortunatamente, non è vero che “Curaro” è l’ultimo disco di Go Dugong.
“Curaro” è l’ultimo disco di Go Dugong che impiegherà tre anni per uscire, e su cui lavorerò così tanto e con un processo creativo così lungo. Non accadrà più. Qualora riuscissi a tirare fuori idee buone da questo nuovo studio e a realizzarle in poco tempo, allora ci sarà un nuovo disco di Go Dugong; se invece diventa un processo infinito come il prossimo in uscita, resterà tutto lì. Farò solo dischi viscerali immediati se sarò in grado di crearne così, in più rimarrà sempre tutto il discorso di “Furs” iniziato con “Indian Furs” e che spero presto avrà un seguito.
Ti sei sentito ad un certo punto il peso di essere Go Dugong? Potrebbe anche essere una stronzata questa domanda, perché non è che hai fatto le musiche dell’ultimo film di Fassbender, però ecco in un certo senso magari quel peso addosso per cui doveva uscire un disco di Go Dugong, alla Go Dugong, come lo farebbe Go Dugong…
No non credo. Forse un pochino per via del nome sì, perché il nome era molto legato alla mia roba precedente più che a questa. Però è figo vedere anche come si è evoluto nel percorso musicale questo mio nome.
È un nome al quale sei legato più in una visione tipo graffiti, più legato al writing che ad una tag?
È un’idea abbastanza giusta. Col writing ad esempio per me è andata proprio così: ho iniziato con il wild style per finire invece a fare un letterina che sembrava fatto da un bambino di due anni, quindi semplificato, anzi, volutamente imbruttito.
Per come ti conosco io, secondo me hai portato molti concetti del writing nella tua musica.
Guarda non ti so dire in che modo ma sì, secondo me il writing è un’esperienza di vita enorme. Io faccio parte della seconda generazione del writing. Quella già più staccata dal dover essere obbligatoriamente hip hop, io già a metà anni 90 o poco di più dell’hip hop ero completamente disinnamorato, suonavo Brit pop.
Eh ti ci vedo con la capigliatura alla Damon Albarn…
Effettivamente non ce l’avevo però tentavo, risultando ridicolo; avevo i capelli, quelli sì. Io facevo graffiti ma ascoltavamo metal, punk, andavamo alle jam con lo stereo con dentro i Sepultura. Naturalmente, mi riferisco all’hip hop italiano, a me che cazzo me ne fregava che Gruff odiasse i sucker; fa ridere eh, però per me tutto suonava poco interessante. Era interessante a livello di metriche, ma a livello di contenuti mi sono annoiato in fretta.
Non ti ho chiesto perché hai chiamato il disco “Curaro”.
Mi ha affascinato questa storia delle tribù che già tantissimi anni fa utilizzavano un veleno di difficilissima fabbricazione, con un processo di estrazione così complicato che è morta un sacco di gente, di scienziati, cercando di riprodurre quel veleno, senza riuscirci. Come hanno fatto queste tribù migliaia di anni prima a fare qualcosa di così avanzato? Questa cosa mi affascina. Poi secondo me rispecchia molto il piglio un po’ dispettoso e oscuro che ha il disco.
Amico mio, leggevi Focus da bambino? L’influenza è nata lì.
Sì a volte sì, può essere.
Arriviamo alla fine nell’ultimo periodo, rimani fulminato come San Paolo sulla via del baile funk, inventandoti una festa – Balera Favela – che da cosa per quattro amici è letteralmente esplosa.
Fulminato sì, ma non solo dal baile funk, è più un discorso global. Da tempo ragionavo sul fatto che a Milano non ci fosse una festa “global” e che fosse il momento giusto per farla. Io come al solito mi butto in mille cose e poi non ho mai il tempo di portarle avanti finché non mi sono deciso, così ho fatto nascere una cosa che secondo me a Milano non c’era. Ho scelto di fare una festa senza che fosse pretenziosa: libera, gratis senza diktat di età o vestiario. La prima persona che mi è venuta in mente per farmi dare un mano è stato Ckrono, che è un nome rispettato a livello mondiale nella scena global bass. Da lì lui subito ha detto “Facciamolo“.
Chiudiamo l’intervista, la prossima necessità a questo punto quale sarà?
Mia o in generale?
Entrambe.
La prossima secondo me nascerà dal libro che ti ho fatto vedere prima.
Fantastico! Una rottura di coglioni di pizzica e tarantella firmata Go Dugong…
Non è detto lo faccia io, magari lo farà qualcun altro, non ti sto parlando per forza di me. Ti parlo di una ipotetica scena global italiana che va verso quella direzione.
Potresti fare un mixtape, che so, alla “50 Mc’s”…
Potrebbe essere una gran bella idea, però conosco Andrea (Populous, NdI) e se gli parli di pizzica e tarantella gli vengono le squame, giusto per dirne uno. Storicamente l’Italia è un mix di culture diverse per cui non è detto sia pizzica o tarantolismo, ma sicuramente folklore italiano.
(Foto: Luca Orsi / Masks and costumes: DEM)