Da quanto tempo non ascoltavo un disco Ninja Tune? Da troppo, a quanto pare. L’ultima cosa che mi è passata tra le, ehm, orecchie deve essere stata “Foley Room” di Amon Tobin. O era forse “What We Must” dei Jaga Jazzist? Anni, in ogni caso. Ci sono dischi che non ti aspetti e dischi che, più semplicemente, non aspetti. “Black Sands” di Bonobo, rilasciato dall’etichetta londinese un paio di mesi fa, rientra in quest’ultima categoria.
La prima cosa che faccio quando scopro di aver ignorato l’esistenza di qualcuno che avrebbe invece meritato tutta la mia attenzione è tentare di capire come sia potuto accadere: orientarsi nel mare magnum dell’offerta musicale non è sempre facile di questi tempi, ma non poteva trattarsi di semplice distrazione. La colpa è, come spesso accade, delle etichette – la maggior parte delle volte inappropriate – che vengono affibbiate agli artisti da giornalisti dal neologismo facile. Bonobo è stato da più parti catalogato come chill-out (termine piuttosto hip per definire quella che è in realtà mera background music, arredamento sonoro e niente più), ed ecco svelato il motivo per cui sino ad oggi avevo evitato il povero Simon Green come la peste.
Si parte con “Prelude”, composizione per soli archi il cui tema orientaleggiante viene immediatamente ripreso nella successiva “Kiara”, accompagnato però questa volta da bassi profondi e ritmi sincopati che scopriremo essere elementi ricorrenti in “Black Sands”. “1009” pare quasi una rivisitazione di “Aidy’s girl is a computer” di Darkstar (uno dei migliori pezzi dell’anno scorso, per chi scrive), solo più jazzy e calda della sua controparte robotica; “We could forever” attacca con un riff in puro stile !!! a sostegno di una linea melodica che mi ha immediatamente riportato alla memoria la leggendaria “So flute” di St. Germain; “El Toro” invece potrebbe benissimo essere una creazione partorita dal già citato collettivo Jaga Jazzist.
Non è certo un caso che due delle tre tracce in cui Bonobo si avvale del contributo vocale di Andreya Triana, “Eyesdown” e “The keeper”, siano diventate altrettanti singoli: scelta forse non troppo coraggiosa ma sicuramente azzeccata, vista l’immediatezza delle stesse e l’innegabile bellezza del timbro soul della cantante (già conosciuta ai più per collaborazioni con il compagno di label Mr. Scruff e con Flying Lotus).
Un album che ha dunque ben di più da offrire rispetto a quanto ci si potrebbe aspettare se considerato come parte di un filone (quello buddhabariano, appunto) con cui in realtà ha davvero poco da spartire.
Caribou, invece, lo attendevo al varco. “Swim” segue l’acclamato “Andorra” del 2007 ed è uscito a fine Aprile per Cooperative Music/City Slang, anche se ad un paio di mesi dalla release ufficiale circolava già il video di “Odessa”, primo singolo e traccia d’apertura dell’album in questione.
Ora, non so se ne esista un edit per le radio, ma sono convinto che questo pezzo abbia grandi potenzialità (sì, anche commerciali): sarà forse per la voce di Dan Snaith che tanto somiglia a quella di Erlend Øye, ma mi ha ricordato da subito i Röyksopp dei tempi migliori. So bene che si tratta ti un paragone azzardato (e un po’ rischioso: qualcuno, letto ciò, probabilmente non si avvicinerà nemmeno al disco), ma tant’è. Sarebbe un errore imperdonabile però fermarsi alla sola “Odessa”, per quanto riuscita, e rinunciare così ad avventurarsi in “Swim”, che ha tutte le carte in regola per diventare uno degli album dell’anno. Nota informativa da non sottovalutare: al disco hanno partecipato anche Jeremy Greenspan (alla produzione) e l’amico Kieran Hebden. Del primo si sente la mano in più di un’occasione: “Leave House” ne è l’esempio più calzante, pop ruffiano e raffinatissimo di puro stampo Junior Boys. Del secondo, invece, Snaith decide di seguire il percorso intrapreso nell’ultimo, bellissimo “There Is Love In You”: anche “Swim” infatti potrebbe essere definito come il disco della svolta “danzereccia” (“ritmica” suona meglio, ma non renderebbe altrettanto bene l’idea) di Caribou, per quanto grossolana possa apparire questa descrizione.
“Sun” colpisce subito duro con suoni trance, ritmi serrati, synth acidi, frammenti ossessivi di voce resa sub-umana da echi e riverberi: una sorta di James Holden in versione psichedelica (o liquida, come ama definire la musica qui contenuta lo stesso Caribou). L’influenza di Four Tet ritorna prepotente in “Bowls”, con il suo incedere sornione scandito da cowbells e cassa dritta: il parallelismo con “Plastic People” è immediato, addirittura automatico. Ma il meglio Dan lo tiene in serbo per la chiusura: “Lalibela” è un breve intermezzo dreamy che cresce gradualmente e altrettanto delicatamente si dissolve, una cometa che indica la via per raggiungere la stellare “Jamelia”, in cui la voce di Luke Lalonde (Born Ruffians) contribuisce a far raggiungere al pezzo vette, mi ripeto, stellari.