Arrivo a Ferrara di buonora e ritiro il biglietto in cassa. Mi ero trovato più volte davanti alla bellezza del Castello Estense, l’ultima delle quali qualche anno prima, e proprio per il Ferrara Sotto le Stelle. Era il 2010 e sul palco c’era Paolo Nutini. Sei anni a desiderare di tornarci, per poi, causa un impegno o un soggiorno all’estero, non riuscirci. Il Ferrara Sotto le Stelle, all’interno del quale nasce quest’anno ASTRO Festival, necessita di poche e lusinghiere presentazioni, che possono essere riassunte in: musica di alto livello in pieno centro storico, con un’annuale superba attenzione per i nomi in cartellone.
Una volta munito di biglietto raggiungo alcuni amici per un breve aperitivo (essere nel cuore di Ferrara e non in uno spazio in periferia ha i suoi vantaggi), per poi abbandonarli nel loro desiderio di andare a cena prima dell’inizio dei live. Per quanto mi riguarda scelgo invece di cenare salentino nutrendomi dei ritmi del nostrano Populous, primo artista ad aprire le danze della neonata kermesse di una notte, che riempie di giovani e palpitazione le strade circostanti fin dal pomeriggio.
Oltrepassato l’ingresso mi trovo con l’imponente castello sulla destra e un grosso palco davanti agli occhi, che mi parla di tutta la musica passata di lì nel corso degli anni (Bob Dylan, Lou Reed, Radiohead, Animal Collective, Paolo Conte, Lucio Dalla, Battiato, Caetano Veloso, PJ Harvey per menzionarne una piccolissima parte) anticipandomi tutta quella che, auspicabilmente, deve ancora venire. Passeggiando sopra al ponticello sul fossato del castello arrivo nel cortile estense, che ospiterà Junior Boys, Jolly Mare e, prima di tutto, il DJ set di Populous.
Andrea Mangia è già sul palco. Il cielo azzurro si intravede a tratti guardando in alto, è velato dalle nuvole ma non promette pioggia. E’ quel giugno elettrico e un po’ strano che fa fatica a partire e sa ancora di mezza stagione. Tranne in console, dove l’estate è già arrivata ed è evidente in ogni singolo dettaglio. Andrea è lì in t-shirt e pantaloncini a fiori, occhiale da sole e quello che ha tutta l’aria di essere un bello spritz. Insomma, ancora prima di sentirlo suonare fa già piacere vederlo.
Il set è Populous dalla A alla Z. Ritmi tribali e velatamente orientali, danze di marimba e vocals etnici che si intrecciano in una fusione di stili danzereccia al punto giusto, e abbastanza calda da far pensare che sia quasi un peccato vedere la lancetta delle ore non ancora sulle 8. Il cortile inizia a popolarsi (mi perdonerete il gioco di parole) e noto che, mentre me ne sto ancora relativamente tranquillo a familiarizzare con la bellezza dello spazio, ondeggiando lievemente a ritmo di cassa, c’è chi già è nel pieno delle danze e sostiene Andrea con calorosi ed esplicativi “daje Populous”. Un pensiero mi sovviene sul finale: quando esce il nuovo album?
Finito il set rimango in attesa dell’arrivo di Jolly Mare. Opto per una birretta al banchetto strategicamente locato di fianco al palco e noto con piacere, avendone poi la conferma, che i prezzi sono decisamente modici per un evento di questa portata. Tre euro per la birra, tre e cinquanta uno spritz, cinque euro un mojito e panini a tre. Penso agli amici che sono rimasti fuori per cenare perché “dentro sicuro ti pelano” e sono felice di aver dato fiducia, anche in queste piccole cose, all’organizzazione.
Quando presentiamo il leccese Fabrizio Martina, in arte Jolly Mare, parliamo di un DJ ormai consacrato in Italia come all’estero, un virtuoso del giradischi che i dischi li ha messi al Sonar come al roBOt, ma anche un producer con interessanti e promettenti lavori alle spalle, tra cui il recente album d’esordio “Mechanics“, che ha incontrato i favori di Gilles Peterson della BBC come dell’etichetta newyorchese Bastard Jazz. Parliamo infine di un artista che viene da un’esperienza di tutto rispetto e dalla tripla A, quale la Red Bull Music Academy. Detto ciò, il live è ovviamente un’altra cosa, che, indipendentemente dall’abilità artistica come DJ e producer, può funzionare, andare così così oppure non funzionare affatto. Ebbene, nel caso di Jolly Mare possiamo dire con piacere che il nuovo live si rivela un’esperienza estremamente positiva, e forse la più importante rivelazione della serata.
Sul palco salgono in tre. Paco Carrieri alle tastiere, Alex Semprevivo alla batteria e Fabrizio al centro, a dirigere l’orchestra con qualche controller, un computer, un giradischi e (questa è una sorpresa, almeno per me) una chitarra. Il live inizia con l’intro ideale, che è poi lo stesso dell’album, Hun. I versi delle scimmie, che per qualche strana ragione suonati da Jolly Mare sembrano delfini, ci introducono ad un universo di synth avvolgenti, bassi funky e, se non vado errato, una doppia base ritmica mandata sia in console da Fabrizio, che suonata live alla batteria da Semprevivo.
Le parti suonate alle tastiere sono semplicemente sublimi, e se c’è qualcosa che le batte sono solo i fraseggi instaurati con la chitarra. Ed è qui la rivelazione vera: Fabrizio l’eclettico, l’ingegnere e il DJ, con quella Stratocaster color legno in mano fa davvero la sua figura. Si divide tra scratchate sul vinile e tocchi funky à la prince, e quando si cimenta nei secondi il live sale ulteriormente di livello sfiorando la perfezione, che sarebbe raggiunta o addirittura superata solo con l’aggiunta sul palco di una voce femminile.
E’ così che brani come “Broken Ceilings” (registrata con Crazy Bitch in a Cave) e “Hotel Riviera” (con Lucia Manca) riescono eccellenti ma mancano un po’ di quel tocco di calore, improvvisazione e imprevedibilità che solo una voce dal vivo può dare. Con questo non voglio però dare adito a fraintendimenti: il live è una stratificazione di sound tanto bella quanto difficile sulle prime da decifrare. E questo è da prendersi come sinonimo inequivocabile di ricerca, rielaborazione stilistica e dunque originalità. La scaletta funziona molto bene, soprattutto grazie alla qualità degli strumentisti sul palco, e dove manca la voce dal vivo, Fabrizio compensa scratchando sulla traccia dei vocals (arte nella quale se la cava egregiamente), e cacciando urli inaspettati che lasciano emergere un inusuale carisma da palcoscenico. Molto ben eseguita anche la notevole Universe of Geometry, ed impossibile non menzionare un assolo di batteria sul finale, che nel live di un artista che hai conosciuto come DJ, fa sempre piacere come lo fa ricevere una lettera (una di quelle di carta, non una mail, ve le ricordate?), mandata da un vecchio amico che non senti da tempo, e della cui esistenza ti eri quasi dimenticato.
Piccolo asterisco. Il pubblico gli chiede “Hotel Riviera”, lui li tranquillizza e la lascia per il finale, a coronamento di una performance sorprendente e di tutto rispetto. Le labbra delle persone si muovono sul testo, e questo è forse il momento più squisitamente pop della serata. Parola d’ordine in conclusione: orgoglio made in Italy.
ASTRO senza intoppi si dimostra la maggior concentrazione possibile di performance nostrane ed internazionali, che si avvicendano nel giro di poche ore una in fila all’altra. Se questo da un lato si rivela subito una mitragliatrice di qualità musicale che guida i partecipanti nel cammino che si articola tra la piazza e il cortile, la puntualità dell’evento a volte si rivela forse un’arma a doppio taglio, che rende un po’ difficile sentire la fine di un live e avere quei due minuti in più per una birra, un panino o una tappa in bagno prima dell’inizio del successivo. L’introduzione di un quarto d’ora accademico sarebbe forse l’unica vera miglioria da considerare per le prossime edizioni, per permettere ad ognuno di godersi tutte le performance senza dover correre, e prendersi anche, perché no, un po’ di tempo per ammirare la bellezza della location, sedersi e fare due chiacchiere.
Punto positivo sono invece i negozi rimasti aperti in piazza, dal bar alla pasticceria, che aggiungendosi ai banchetti all’interno del festival (e seguendone i prezzi politici su cibo e bevande) rendono l’esperienza piacevole e le file tutto sommato brevi e scorrevoli.
Per quanto riguarda la musica, alle 9 è il momento di Floating Points, e per diverse ragioni è proprio questo il live che muove in me più curiosità. Forse perché i suoi dischi sono ormai una sezione sacra della mia libreria, forse perché, data la loro giovane età, ciò è decisamente singolare. Forse ha a che fare anche col fatto che Sam Shepherd è un personaggio di straordinaria umiltà e cultura musicale, e sicuramente, in ultima analisi, perché l’esperienza costruita da lui + band per la creazione del live in questione, è qualcosa di totalmente unico e che trascende la mera e classica realizzazione di brani registrati in studio.
Quello che Sam e soci creano sul palco è infatti un’opera d’arte da guardare da diverse angolazioni, allontanandosi per gustarne il senso d’insieme e avvicinandosi per studiarne i dettagli. Difficile incapsularla in una scaletta, in quanto rappresenta un riadattamento dell’album Elaenia per un live che avrebbe quasi il profilo della jam, se non apparisse chiaramente studiato nel più minuscolo particolare. Le fondamenta sono di totale psichedelia con sentori di drum n’ bass re-immaginata, flashback di free jazz e quell’evidente tocco “Floating Points” che ne rappresenta il marchio di fabbrica, la rielaborazione elettronica del suo background come pianista, della sua passione per il jazz e allo stesso tempo della sua inglesità. La band formata da chitarra, basso, batteria e Sam ai synth è essenziale ma potente, il cielo imbrunisce e il palco si illumina della musica e dei visual a fibre ottiche in pieno stile “Elaenia“.
Si sa che se si desidera tanto l’arrivo di un momento, quando poi questo giunge si tende a scontrarsi con il muro della realtà, che a volte rispecchia totalmente le nostre aspettative, ma il più delle volte non lo fa, spesso nelle piccole cose. E’ così che, proprio perché il live di Floating Points rappresenta forse il momento più “intellettuale” della serata, quando noto che il volume è stranamente basso, e che ciò crea un brusio di voci nel pubblico piuttosto fastidioso, mi trovo a riflettere sul fatto che, anche durante eventi che fanno grandi numeri come ASTRO, si creano momenti in cui l’ascolto, da azione “passiva”, deve evolversi in esperienza attiva ed essere accompagnato da una buona dose di attenzione a livello individuale. Su questo punto posso infatti dire che il pubblico per il live si divide nettamente in due parti: i “distratti”, che esternamente, a causa del volume basso, e forse dei ritmi piuttosto serrati del festival, si abbandonano alle conversazioni, e dall’altro lato uno zoccolo duro di fedelissimi raccolti più vicini al palco, affamati di vibrazioni e onde sonore da captare con solerzia ed estatica porosità.
Ma è ghiotta l’occasione per misurare le diverse personalità artistiche sul palco, che proposte una dopo l’altra si mostrano in tutte le loro differenti sfaccettature. Il volume dei Junior Boys è infatti decisamente adatto a come dovrebbe suonare la loro musica, soprattutto se parliamo della nuova creatura “Big Black Coat”. Ed esibendosi successivamente e nel più piccolo cortile estense fanno il pienone facile, permettendo alla sera di lasciare ufficialmente il testimone alla notte.
Purtroppo la fame mi costringe a barattare un panino per l’inizio del concerto, e quando arrivo, “Over It” sta riecheggiando tra i colonnati del cortile. “The night is gone”, canta Jeremy. E non si è mai sbagliato così tanto in vita sua.
Il sound della band si è evoluto molto con l’ultimo album, e nel live si sente tutto. Sembra una curiosa (e decisamente potente) via di mezzo tra i Kraftwerk e la techno della scuola di Detroit, con qualche spolverata dei synth, delle chitarre minimali e della voce pop di Jeremy che ce li hanno fatti amare. Non sorprende dunque che i tre di Hamilton, Ontario, abbiano ricevuto la simpatia e il remix, per la traccia che dà il nome all’album, di sua maestà Robert Hood. (In passato c’erano stati comunque altri signori quali Kode9 e Carl Craig).
Il live, nonostante la saltuaria durezza dei suoni, piace, il pubblico si muove e il nuovo album funziona bene, anche nelle lunghe parti strumentali. Doveroso chiudere però ricordandoci da dove arrivano i Junior Boys. Banana Ripple è probabilmente il momento più coinvolgente dell’esibizione, e le ultime parole “No you’ll never, no you’ll never, no you’ll never, no you’ll never see me go” rimangono a lungo nell’aria e nelle nostre menti, anche quando sul palco non c’è ormai più nessuno.
“Caribou sta per spaccare sull’altro palco”, ci aveva annunciato Jeremy verso la fine. Su questo prendendoci al 100%.
Vi chiedo di seguirmi per un attimo, e di non storcere il naso se per parlare dei Caribou (e il plurale è qui voluto e sacrosanto) decido di tirare in ballo i Rolling Stones. Il motivo per cui lo faccio è che ci sono artisti che possono permettersi di organizzare tour anche non in relazione ad una nuova uscita discografica, e gli Stones ne sono forse oggi il migliore degli esempi. Il loro ultimo album risale infatti al 2005 e nessuno si sognerebbe mai di partecipare ad un loro live per “sentire come suonano i nuovi pezzi”. Un concerto degli Stones è un’esperienza unica e totalizzante, un rito che ha senso di per sé, perché consacrato da una band che non ha più nulla da dimostrare a nessuno, ma regolarmente continua a dimostrare tutto live. Ebbene, i Caribou sono ad ASTRO gli artisti in cartellone meno freschi di release, i cui ultimi album abbiamo ascoltato e riascoltato e sappiamo ormai a memoria, i cui video integrali dei live hanno popolato le nostre home di Facebook per mesi. Eppure, pur premettendo tutto ciò, Dan Snaith e compagni inscenano una performance che porta la serata ad un livello successivo, in alto che più in alto non si può, appunto, sulle stelle del talento esplosivo, della presenza scenica magistrale e dell’esecuzione chirurgica. I Caribou fanno un live che è, senza mezzi termini, assolutamente perfetto.
L’apertura soft è lasciata a “Leave House”, interrotta da un piccolo problema tecnico e seguita da “Our Love”, giusto per far capire come andranno le cose nell’ora a seguire. “Mars” diventa un incalzare di hi-hat assassini e varchi spazio-temporali sintetici, alternati da sample vocali techno-house in un crescendo destinato ad esplodere in una festa di sirene e ritmiche impazzite. Con “All I Ever Need” i Caribou hanno già preso la piazza ed ogni suo temporaneo abitante. Dai ventenni ai sessantenni, da chi balla a chi canta o sta seduto tranquillo ai margini senza perdersi una nota. Anche i poliziotti e le guardie mediche oltre le transenne sembrano rapite dallo show. Accolgo l’arrivo di “Bowls” come un regalo gradito, uno dei brani forse più fourtettiani, ma a mio parere, anche più interessanti e raffinati di “Swim”. Dan va ad affiancare Brad Weber e la batteria si raddoppia, la distorsione è alle stelle e non ce ne è più per nessuno. La certezza è che una data dei Caribou, specialmente quando, come in questo caso, è l’unica in Italia, sia un’occasione da cogliere ad occhi chiusi.
Su “Jamelia” la voce passa al bassista John Schmersal, e la luna inizia ad affiorare da sopra i palazzi del centro. “Odessa” scoppia con i suoi urli stridenti scanditi da Dan a voce e shaker, la chitarra effettata sa quasi di funky e il basso si trasforma in voce narrante del viaggio che conduce verso la più hit di tutte: “Can’t Do Without You”, dopo la quale non possono esserci che i ringraziamenti. Ma come ogni grande band che riesca a prendere le redini del pubblico portandolo a spasso a suo piacimento, c’è spazio per un ultimo pezzo. E’ così che mentre la luna è alta nel cielo, il sole (“Sun”) prende forma sul palco. 11 minuti di esecuzione tra giri di synth e voci in delay, improvvisazioni siderali e pause strumentali a mandare in delirio il pubblico, accompagnate da applausi che ringraziano chi, come Dan e la sua band, prende l’esperienza col pubblico così seriamente da farla entrare di diritto nell’olimpo della musica dal vivo.
Dopo tanta bellezza suonata con gli strumenti, un DJ set rappresenta l’epilogo di serata più appropriato, e Four Tet, anche lui in data unica in Italia, a quanto pare è riuscito a muovere persone e portarle a Ferrara almeno quanto le band che lo hanno preceduto. Ciò a cui Kieran dà forma è un set di pura techno astrale ma senza esagerazioni, creando un viaggio tanto magistrale quanto lineare e privo di grossi stacchi di genere. E qui il pubblico si spacca ancora in due, tra chi da Four Tet si aspetta proprio quel sound ipnotico e si lascia cullare dal beat e chi, memore di suoi set più eclettici, si sarebbe aspettato di vederlo correre qualche rischio in più. Ai posteri l’ardua sentenza, semmai si scoprirà qual è il modo migliore per fare una chiusura. Kieran intanto ne ha fatte tante nella sua carriera, di qualsiasi tipo.
Con le ultime note in console si chiude dunque un evento che, dopo più di sei ore ininterrotte di musica, ha le carte in regola per essere definito straordinario. Straordinario non solo per la qualità delle singole esibizioni, quanto per il piacevole quadro d’insieme. Sui due palchi, accanto a due eccellenze italiane, si alternano infatti grandi nomi dell’elettronica contemporanea, che sono prima di tutto, tra loro, grandi amici. Fa dunque sorridere che artisti che hanno lavorato tanto insieme in passato si incontrino, anche solo per una notte, nello stesso luogo, davanti allo stesso palpitante pubblico. E non si può non sentirsi fortunati ad aver partecipato a questa riunione di famiglia, che emana le vibrazioni musicali forse più caratteristiche del nostro recente passato e del prossimo futuro, raffinate e allo stesso tempo accessibili.
In conclusione ASTRO si rivela la sorpresa nella conferma, la novità all’interno di una realtà quale Ferrara Sotto le Stelle, che, pur essendo ben consolidata, non teme di abbracciare nuovi paradigmi e spalancare le porte all’elettronica di più largo respiro. Ed è il testimone stesso del festival che dal rock passa almeno in parte nelle mani di veri e propri scienziati della musica, cultori di dischi e sperimentatori che portano la fiaccola della creatività verso una nuova generazione di nativi dell’elettronica. Ed ecco che ASTRO diventa un tripudio di strati e strati di sound che hanno caratterizzato le decadi alle nostre spalle, portandole in alto verso il più incerto, promettente e sperimentale futuro. E’ un varco nello spirito del tempo, ASTRO Festival, in un’architettura pregna di storia e vibrante di sintetizzatori e chitarre distorte. Il tutto sotto ad un cielo stellato che ad ogni edizione vede migliaia di ragazze e ragazzi di ogni età trovare in Ferrara un punto di riferimento. Una capitale a livello italiano ed europeo, ed un piccolo gioiello di cui andar fieri e sul quale continuare a puntare in futuro.