Ha diviso, questo nuovo lavoro degli Autechre. E non poteva essere altrimenti. Loro sono diventati un simbolo, un po’ come Aphex: sono non solo, e non tanto, la musica che suonano, quanto proprio un “segno” di valore e di appartenenza. Se Aphex parla molto urbi et orbi, ed è per antonomasia un po’ per tutti “L’elettronica dance intelligente ed anticommerciale” (a colpi ormai di richieste di 200, 300, 500.000 euro per data, ma vabbé), Rob Brown e Sean Booth sono gli affidabili e mai svenduti aedi di chi sperimenta, sono cioè per l’elettronica sperimentale quello che Jeff Mills è per la techno – incriticabili, e forse pure un po’ infallibili. Oppure ok, se li critichi e gli contesti delle scelte non hai comunque mai cuore di toglierli dal piedistallo per davvero. Album dopo album, live estremo dopo live estremo (…avete mai provato a vederli dal vivo? Avete mai vissuto quella che è una delle esperienze più estreme, meravigliose e al tempo stesso claustrofobiche possiate immaginare?), si sono guadagnati un profilo e un carisma al di sopra di ogni sospetto.
Esattamente come Aphex e Mills e pochi altri, questo ha permesso loro di poter sempre continuare imperturbabili per la loro strada. L’IDM è passata di moda, la jungle è passata di moda, la techno per anni era passata di moda prima che ci pensasse il Berghain a (ri)renderla digeribile alla massa danzettara Ibiza yeah, ma – nell’ordine rispettivo – il valore sia morale che mercatile di Autechre, Aphex e Mills non ha mai conosciuto flessioni (anzi, nel caso di Richard D. James ha visto crescite siderali e quasi imperscrutabili). Questi “passaggi di moda” hanno nel frattempo ammazzato le carriere di molti artisti validissimi ma timidi e non-iconici (ed è un peccato), più anche quelle di qualche bandwagoner (snob e di nicchia, ma pur sempre bandwagoner: e questi bene siano stati falciati via). Se siano più i primi o i secondi, la discussione è aperta e, probabilmente, ogni persona farebbe risultare percentuali diverse; ma quello che è certo è che la Triade Dell’Elettronica Intelligente che stiamo nominando anche nel momento in cui riceve critiche negative su questo o quel disco, questo o quel dj set, fondamentalmente non rischia di essere abbattuta tipo statua di Stalin post 1989. No. Resiste. Si rafforza.
E questo per un motivo ben preciso: in realtà, chi segue l’elettronica alternativa (…o underground, o di ricerca, o insomma chiamatela come volete – ci siamo capiti), spesso e volentieri è più conservatore e schiavo di dogmi di un ascoltatore, diciamo così, invece più casuale e meno raffinato. La serietà plumbea con cui si affronta un certo tipo di musica, e il piglio quasi un po’ adolescenziale de “La bellezza e lo spessore della musica che amo vs. la bruttezza e la superficialità del mondo” narrano di un contesto spesso un brezneviano e, al tempo stesso, un po’ da setta; quelle sette che pencolano un po’ fra rigore e ridicolo epperò non glielo puoi dire, sennò ti linciano. Avete presente? Ed è così sempre di più, anno dopo anno: un fenomeno che cresce di pari passo con la popolarizzazione (e dozzinalizzazione) della dance di stampo elettronico, EDM o business techno o Peggy Gou che sia.
Ora. E’ vero che se vuoi fare quello che “Il Re è nudo!”, e alla fine di un live di due ore degli Autechre (in cui ti triturano il cervello a sala buissima e combattendo scientificamente ogni tipo di climax e di mini-gratificazione per il pubblico) decidi che è il caso di declamare stentoreo “Oh, ma è stata una cagata pazzesca, mi sono proprio rotto i coglioni”, ecco, se fai così è semplicemente perché non hai avuto la pazienza da “speleologo delle percezioni” di entrare nel loro mondo (…del resto, pure la “Corazzata Potëmkin” è in realtà un film bello ed affascinante, oltre ad essere una cagata pazzesca). Un mondo, quello autechriano, che ha il pregio oggettivo di essere netto, coraggioso, privo di compromessi, “schierato” e per nulla paraculo. Quindi, se lo fai, di contestarli con petulanza, arroganza e superficialità, sei un po’ un pirla, un quaquaraquà. Ma è anche vera un’altra cosa. E qua veniamo al punto.
(Eccolo, “Sign”; mettetelo pure in sottofondo, ora che inizia l’analisi dell’album più nello specifico)
“Sign” ha raccolto qualche critica e perplessità perché troppo “morbido”, troppo leggero, troppo superficiale, troppo comprensibile già al primo ascolto. Ad esempio perché troppo “dritto”, ecco: ci sono addirittura dei ritmi che riconosci subito (perché semplicissimi da riconoscere, in effetti) e che manco cambiano nell’arco del brano. O pure perché troppo “melodioso”: ci sono delle parti che puoi immaginare pure trascritte su pentagramma e/o suonate su una tastiera, si fanno magari largo tra distorsioni, schegge e rumorini ma sì, ci sono, certo che ci sono; e anzi alcune sono proprio ai limiti del romanticismo mieloso, se disboschi fra i glitch e le sfumature ( ad esempio come in “gr4”, peraltro la meno riuscita dell’album). Facendo così, gli Autechre picconano il loro asset principale: quello di essere per definizione complicati, estremi, inaccessibili (se non agli eletti, ai sapienti).
Fanno persino di peggio, i due, in “Sign”: assomigliano in qualche passaggio ad un artista che va molto di hype, di questi tempi, ovvero Lorenzo Senni (e che un italiano a) sia su Warp b) sia considerato come hype, dovrebbe essere una soddisfazione per tutti). “si00” infatti e “th red” per certi versi sembrano proprio aver seguito la lezione del “rave vouyerism”, di quel pointilismo techno-trance che da un paio d’anni piace-alla-gente-che-piace, ed è di conseguenza avversata dai veri custodi della purezza. Gli manca solo di assomigliare a “…quella paraculata della Barbieri” (sì, c’è toccato leggere pure questo) e abbiamo fatto tombola – finché i DPCM non chiudono anche le sale gioco.
…in realtà a Rob e Sean non gliene frega un cazzo, per quel poco che li conosciamo di persona e per quello che c’abbiamo parlato negli anni. E non parliamo di Conte, e delle sale bingo. Siamo convinti si siano molto divertiti ad aver tirato fino all’estremo il peso carismatico dell’essere quasi monumento di se stessi, sì: ovvero del fare show difficilissimi, release-fiume (nove ore “AE_LIVE”, che peraltro è l’equivalente di un album di tool per un dj techno, e cinque ore “elseq 1-5”), cercando in generale di essere sempre più estremi nella loro ricerca sonora e nel loro essere unici. Non l’hanno fatto per posa o per vezzo, non l’hanno fatto con l’idea di essere i Cavalieri Della Purezza, i Soldati Dei Veri Valori Dell’Elettronica; l’hanno fatto perché gli andava di farlo, perché gli prendeva bene farlo, punto.
Esattamente come alla constatazione oggettiva che in “Sign” ci sono alcuni delle composizioni più potabili, comprensibili e “sensibili” (nel senso di romantiche), non è per voglia di guadagnare di più – chi diavolo ci guadagna poi oggi, coi dischi? – o di essere più popolari (non saranno MAI popolari come quelli che fanno i soldi veri: troppo complicati, troppo timidi, troppo affezionati tanto alle loro radici quanto alla loro storia così come s’è sviluppata), ma semplicemente perché con ogni probabilità hanno avvertito che era il momento di tirare il fiato, di distendere le atmosfere, di divertirsi coi software e coi synth in una maniera meno cervellotica e scientifica, e più avvolgente ed emotiva.
Nel farlo, sono rimasti molto bravi. Nel farlo, hanno dimostrato che se si mettono a fare roba alla Oneohtrix Point Never (“F7”), loro senza sforzo la fanno meglio – più interessante, più disturbata, più obliqua; così come hanno dimostrato che se in filigrana citano (magari involontariamente) i Depeche Mode, come in “sch.mefd 2” lo fanno assolutamente a modo loro. E nel decidere di fare infine musica avvolgente, pastorale, ambient, “dolce” (“r cazt” in chiusura, o la bellissima “psin AM”, il vertice assoluto del disco per chi scrive), porca eva se lo fanno bene, con classe. Non sono più esempio di purezza ed originalità e rigore adamantini&supremi, con musica ai limiti dell’inaccessibile nella forma e nella sostanza? Effettivamente, no. Ma è un male?
Gli Autechre, nel mutare e nel farsi più “buoni”, non perdono valore. E restano coloro che hanno piegato e piegano la musica elettronica verso il campo non del denaro e del business (che c’è anche nei campi “alternativi”), ma del gusto di creare, di suonare, di divertirsi facendo musica sentendosi liberi. E non sentendosi monumenti di se stessi, solo ed unicamente. Cosa in cui le release-mattone da svariate ore rischiavano invece, loro malgrado e al di là delle loro intenzioni, di rinchiuderli.
Mah, boh: se tutto questo servirà a scuotere i sacerdoti dell’elettronica più accigliata ed incorruttibile dalla loro comfort zone, sarà una gran cosa. Se al contrario non ci riuscirà, pazienza. Non muore nessuno. E’ pur sempre musica. Niente di più. E ognuno se la vive come meglio crede. Di sicuro, “Sign” è un’esperienza d’ascolto appagante, affascinante. Per chi vuole ascoltare, e non (solo) lottare contro la superficialità della vita moderna e dell’underground paraculo gentrificazionista.