La fortunata parabola che ha visto il berlinese Paul Kalkbrenner tramutarsi in pochi anni – forte di un turning point fondamentale coinciso con la piuttosto fruttuosa apparizazione sul grande schermo in “Berlin Calling” – da promettente talento della BPitch Control di Ellen Allien ad autentica superstar globalmente insignita direi che ormai la conosciamo più o meno tutti. Nel mezzo di questa evoluzione peró, inutile negarlo, il minimo comun denominatore è sempre stato un lavoro certosino in studio, testimoniato da qualcosa come una decina di album a cavallo fra 2001 e 2015. L’ultimo dei quali, “7”, ha posato la prima pietra sul contratto a lungo termine stipulato pochi mesi prima con Sony. Il timore che serpeggiava a suo tempo era che un passo del genere potesse intaccare questa costante come avvenuto in casi analoghi dove la cura del proprio arsenale produttivo aveva assunto un ruolo diciamo non marginale ma paradossalmente meno incisivo rispetto ad altri aspetti legati al marketing ed alla presenza scenica.
Sotto questo punto di vista Paul Kalkbrenner è rimasto una sorta di ibrido: seppur non si sia mai negato le gioie del corollario tipico del dj/superstar – tramutando i suoi set in autentici concerti, come ormai da tradizione, e non disdegnando la magnificenza delle grandi scenografie e della notorietà urbi et orbi – ha mantenuto peró un profilo musicale sempre piuttosto interessante. Magari non sempre innovativo e rinfrescante come i suoi primi lavori, forse un po’ inflazionato nella scelta delle sonorità. Ma banale, quello mai. Per questo motivo, quando ha annunciato (tramite la pubblicazione di una serie di tre mixtape dalle tinte fortemente old school) di voler intraprendere un tour europeo dall’emblematico nome “Back To The Future” ricreando, tramite un’appropriata selezione musicale e la scelta di location particolarmente funzionali allo scopo come il Printworks di Londra o l’E-Werk di Colonia ma anche festival open air come il MIF di Rimini ed il Kappa FuturFestival di Torino (unici appuntamenti italiani), un po’ di quella che fu la grande epopea della rave culture continentale a cavallo fra ’80 e ’90 tramite un concept musicale volto a dare allo stesso Paul la possibilità di esibirsi sotto vesti inedite per molti dei suoi fan, celebrando insieme le sonoritá che lo hanno ispirato nei primi anni alla rincorsa delle luci della ribalta in un viaggio lungo tre mesi e diciassette tappe.
Proprio perchè quando si tratta di Kalkbrenner abbiamo sempre quel prurito subliminale che ci spinge a voler vedere cosa si sarà inventato anche stavolta, abbiamo deciso di acquistare un biglietto e salire sul treno, precisamente alla fermata del Melkweg di Amsterdam lo scorso giovedì. L’ex-officina di Leidseplein forse non sarebbe stata la nostra primissima scelta per un concept di questo tipo, non tanto per la qualità della venue in se (anzi, l’impianto audio rimane fra i migliori d’Olanda) ma proprio per una questione di apparenza. Se cerchi di ricreare un’ambientazione da rave e ti esibisci in un locale dove la cura dei particolari rimane comunque un fattore primario, considerata anche la notevole quantità di spazi post-industriali più “grezzi” disseminati nell’area urbana della città dei canali, rischi di compromettere un minimo la tue premesse. Così come avere uno stand del merchandising e vendere i classici “bomber” – tanto tornati di moda di recente e fra i simboli della rave culture – marchiandoli con lo stemma di “Back To The Future” come se quel tipo di stile di vita si potesse indossare per una sera, non lo nascondiamo, ci ha lasciato un po’ di amaro in bocca.
Ma è proprio in questi particolari che il curioso caso di Paul Kalkbrenner torna ancora una volta ad essere un ibrido. Nella capacità di prendere un concetto puro ed adattarlo al proprio brand ed al tipo di pubblico che ne deve usufruire. Non diciamo svenderlo perché sarebbe poco corretto e siamo sicuri che la spinta emotiva alla base del tutto fosse più che legittima, ma sicuramente è un processo figlio dei tempi che cambiano e del voler rendere tutto accessibile a costo di snaturarlo e “semplificarlo” un po’. “Back To The Future” non poteva essere infatti un nome più azzeccato. Lo si è evinto anche e soprattutto quando il tedesco ha fatto capolino sul palco del Max, la sala principale del locale. Il setup con due laptop ed un mixer rotary, senza ausilio di cuffie per mixare, lo racchiude perfettamente. La notevolissima e assolutamente mai banale selezione musicale, a cavallo fra techno, UK rave e progressive, ha peró tenuto incollati tutti i presenti agli speaker per le due ore di spettacolo (precedute e seguite dai dj set di due che della rave culture ne sanno più di qualcosa come Clè e Remy) nonostante il buon Paul abbia voluto comunque mantenere sempre un po’ quel tipo di struttura tipica dei concerti con dei sostanziali “blocchi” musicali con la musica che si ferma e via un altro giro di montagne russe o lui che nel finale saluta e se ne va e poi encore e poi va via di nuovo e poi un altro encore e cose così. Forse evitabili, ma gliele perdoniamo in funzione di uno show davvero solido, che lo ha visto scatenarsi come poche volte lo avevamo visto fare negli anni dietro la consolle. Ci ha lasciato la netta sensazione che lui più di chiunque altro stesse traendo giovamento da ció che avveniva tra quelle quattro mura. Il che, inevitabilmente, ha avuto un effetto domino anche su una pista strapiena di gente di ogni età e provenienza andando così a consegnare agli annali un evento che sicuramente merita di essere vissuto, anche a scapito di veder un pochino allontanarsi la purezza dei tempi che furono in nome di un mondo che cambia in cui i meccanismi di ingaggio sono, volente o nolente, qualcosa di dissimile.
Del resto a questo livello di popolarità il target a cui Kalkbrenner si deve rivolgere è infinitamente più trasversale dei meri amanti della rave culture o di quelli che ne hanno fatto parte. Il che puó essere una minaccia per chi pretende di conservarne intatta la memoria, ma anche una preziosissima occasione per conferire ad un artista il potere di innestare nuovi archetipi musicali nell’immaginario collettivo del proprio pubblico, andando così ad accrescere la voglia di espolorare le fondamenta della musica che lo stesso Kalkbrenner ha controbuito a fargli apprezzare in tutti questi anni. Il fine giustifica sempre i mezzi? Questo sarà la storia a dircelo, ma stavolta per noi la risposta è un “SÌ” bello grosso.