Nati come poco più di una cover band hip hop, i Badbadnotgood hanno il grande merito di aver avvicinato tanti profani al jazz, e sono stati i primi a farlo, già nel 2011. Hanno creato un nuovo forte interesse soprattutto tra giovani “indiependenti” e “hipster” su questo storico e difficile genere, riesploso oltre l’immenso esercito di appassionati grazie ai vari Kamasi Washington, Thundercat (di rimbalzo quindi anche Flying Lotus e la sua cricca) e in ultimo al disciolto duo Yussef Kaamal.
Per questo motivo la data milanese in programma al Magnolia si presentava come un appuntamento irrinunciabile e, nonostante una serata fredda da collant sotto il tubino e un cielo plumbeo che per ore non ha promesso nulla di buono, la risposta del pubblico non si è fatta attendere.
Aprire la serata era compito degli Aquarama, che hanno portato sul palco del Magnolia il loro disco “Riva” uscito da pochissimo. Non siamo praticissimi del genere suonato da questi ragazzi, qualcosa tra i The Smiths e i The Beach Boys – ma con più groove – però l’esibizione senza sbavature ci è sembrata interessante tanto che un’ascoltatina al disco, una volta a casa, gliel’abbiamo data volentieri.
Alle 22:30 il cielo ha finalmente smesso di fare i capricci e sulle note iniettate di groove del tema di “007 Licenza di uccidere” attaccano i Badbadnotgood. Questi quattro ragazzi canadesi poco più che ventenni, apparentemente dei nerd strappati a Dungeons And Dragons e portatori sani di acne, in poco più di un’ora hanno fatto qualcosa di magico e incredibile: non si tratta solo di essere portentosi fenomeni del jazz, si tratta di interpretare il jazz ai più alti livelli in circolazione e di saper suonare con piglio esperto – un tempo si diceva essere dei “manici”. Il genere non ammette approssimazione, anche quando suonato con una formula che permette di avvicinare gente che magari non è andata – e non andrà mai – oltre “Kind Of Blue” di Miles Davis o “A Love Supreme” di Coltrane. Le venature hip hop nella formula live contano poi fino a un certo punto – l’esecuzione live di pezzi come “Lavender” ne è l’esempio perfetto – e servono solo come partenze per divagazioni in jam che mantengono giusto il refrain originario e si estendono su “solo” che a turni tutti e quattro ci regalano e si regalano, in una continua decostruzione e ricostruzione verso il crescendo dei propri brani più famosi.
Con una presenza scenica ai limiti dell’imbarazzo – diktat in realtà di ogni jazzista (ricordo camice hawaiane di manifattura scadente a serate di gala e pubblico confuso da tale noncuranza) – e inframezzi quali improbabili accenni di danza classica, air basket con tiro da tre e un’improvvisata “tequila” adorata dal pubblico, i quattro canadesi hanno regalato un concerto sublime a Milano. A parere di chi scrive, ad oggi il miglior live visto nel 2017.
Nessun appunto, nessun “ma”, nessun “se”: a nostro giudizio è stato tutto perfetto, eccellente, indimenticabile e non c’è spazio per riflessioni a posteriori o ulteriori analisi. Con pochi euro e qualche birretta, a Milano l’altra sera abbiamo assistito a qualcosa di bellissimo.
[Pics by Color Photo]