Fa un po’ specie parlare di un festival come il BangFace, abituati come siamo a vedere eventi progettati nella minima cura, con uffici stampa agguerriti e tendenze a massimizzare biglietti e profitti attraverso line up attente ai trend del momento, con un occhio alla replicabilità del festival in altri contesti. Tutto corretto, tutto normale e giusto ma, ed è questo il punto, il BangFace non ha quasi niente di tutto ciò, a parte l’organizzazione impeccabile e una cura per l’impianto invidiabile: è piccolo (più o meno tremila persone), ha una line up incentrata sulle nicchie più “hard” dell’elettronica, con un certo vezzo per il passato, in più è scanzonato e senza interesse nei mega allestimenti d’impatto. Il BangFace non ha interesse a risultare hype, ad apparire tra i migliori mag di stile del mondo. Il risultato è una tre giorni che difficilmente potremmo chiamare festival, semmai è più simile a un rave per molti aspetti ma, ed è questa la differenza, all’interno di un villaggio turistico che si tiene in piedi solo per eventi del genere, con tutti i miniappartamenti assegnati, in cui ci si sente un po’ una grande famiglia, piena di sorrisi e sonno arretrato. Si torna cambiati dal BangFace, si pensa più all’importanza della festa che al disco a tempo o alla perfezione del running order.
Ma andiamo con ordine, il nostro “weekender” (questa l’etichetta più giusta) inizia già al giovedì, con un treno diesel dall’aeroporto di Manchester che, in due ore di viaggio in mezzo al Lancashire, profonda Inghilterra, ci porta fino a Southport, ridente cittadina affacciata sul mare d’Irlanda spazzata costantemente da un vento non proprio amichevole, in cui trova spazio uno dei villaggi vacanze della catena Pontins, una struttura uscita dagli anni ’70, esteticamente oscena, a metà tra un villaggio operaio alienante e un’accademia razionalista per soldati.
Arriviamo con il festival che ancora non è praticamente iniziato, le due sale principali sono ancora in allestimento, c’è solo il Queen Vic, il piccolo pub del villaggio, in cui la pista è stata ricavata togliendo i tavoli e posizionando dei Funktion One (francamente giganteschi per lo spazio) da cui già escono note che viaggiano ben oltre i 140 bpm, contemporaneamente stanno cominciando ad arrivare i primi ospiti del festival, colorati nei capelli e nei vestiti, con la valigia piena di tutine attillate e improbabili camuffamenti, mentre la reception gentilissima indica a ognuno quale chalet gli è stato assegnato .Qualcuno si sta già caricando con del Buckfast, un discutibile miscuglio di vino liquoroso e caffeina prodotto da monaci scozzesi di origini francese probabilmente più dediti al diavolo che a dio, ma è ancora tutto sonnacchioso anche se cominciamo a intravedere il motivo vero per cui siamo qui: vedere i figli ideali dei rave inglesi dei primi anni ’90.
Dall’act di apertura della sera, francamente, non sappiamo cosa aspettarci anche se capiamo che la parola d’ordine è non prendersi sul serio. Detto fatto, la sera entriamo nella Bang Room e capiamo subito il mood, infatti stan suonando i ragazzi della Wrong Disco, gente che con una certa maestria mischia Gipsy King e Oasis, poi gli Human League e Madonna, tutto mandato ben oltre i 130 bpm, mentre visual improbabili mandano meme scaricati da internet a tema acid. Poche discussioni, è una delle cose più divertenti che abbiamo visto ultimamente, senza pretesa che non sia il “ballate e divertitevi senza preconcetti”. La risposta del pubblico infatti è incredibile, mentre dal palco vengono tirati gonfiabili da mare di ogni tipo: palloni, martelli con gli smile, mazze finte, canotti, totem e palme. Una follia ed è solo giovedì e manca ancora l’act di apertura dei Vengaboys, ma non eravamo qui per breakcore, acid e jungle? Lo show dei Vengaboys si trasforma in un vero e proprio delirio che noi ci godiamo dalla prima fila (da cui guadagneremo dei gran lividi), in un tripudio di hit dance che il pubblico canta a squarciagola visto il repertorio non proprio ampissimo, in un’ora scarsa di concerto finiamo sudati e sfiniti, quasi quanto un concerto punk. Cominciamo a capire che al BangFace la musica è e sarà importante ma mai quanto il puro divertimento, la festa senza orpelli e pretese culturali. Potremmo chiamarlo puro edonismo.
Ho detto cominciamo perché il vero BangFace inizia il giorno successivo, il villaggio si comincia a popolare dal venerdì e, grazie al tempo clemente del pomeriggio, dagli chalet inizia subito a uscire musica a tutto volume, persone alterate dalla qualsiasi e alcolici a profusione, porte aperte, divani fuori e lenzuola usate come mantelli. Un po’ Woodstock, un po’ festival moderno e un po’ autogestione scolastica, i pomeriggi del BangFace, tra gli chalet e i prati, sono un momento di rilassatezza e convivialità estrema, sembrando una bolla spazio temporale rispetto al mondo esterno. Da subito vorresti che quel clima non finisse mai perché, semplicemente, è bello, senza senso e senza dubbio poco produttivo per la società ma è ingenuamente positivo, senza pensieri negativi o antisociali. Chiaramente nessuno, tranne la decina di italiani presenti, si è minimamente preoccupato di portarsi del cibo, i più si nutriranno alla bisogna in un turbine lisergico di tre giorni, ne restiamo un po’ inquietati ma è l’ennesima conferma di una certa propensione all’eccesso, che caratterizza vari aspetti del pubblico che, ovviamente, non risulterà mai molesto, esagerato nei comportamenti o sopra le righe.
C’è anche un canale tv del festival, che caratterizza le televisioni degli chalet al pomeriggio, il cui studio è aperto a tutti e che servirà anche come piccola sala after dopo la chiusura delle room principali, si chiama BangFace TV e farà quasi solo dirette assurde come il karaoke acid, il karaoke normale in cui l’acid ce la mettono i partecipanti, lo Scooter Poetry Club e cose di questo genere:
Dopo un giovedì che è stato più un warm up che una vera e propria serata, il venerdì si dimostra ricco di spunti e di validi act, ma perché parlare dei set di Luke Vibert, di The Mover (che personalmente abbiamo trovato un po’ noioso e scontato) o di un b2b tra Perc & Truss, che pur mantenendo la tipica impronta dura e quadrata, propongono una techno meno industriale e sferragliante di quella a cui ci hanno abituato, perché dovremmo parlarne quando il punto più alto della serata è sicuramente il matrimonio acid di Mark Archer? Con i testimoni presi dal pubblico e la promessa di matrimonio a tema rave e 303, intonata da tutto il pubblico, ennesimo capitolo del libro “BangFace: la festa è più importante di qualsiasi altra cosa”. Poi, chiaramente, dopo la parentesi matrimoniale, va in scena il live degli Altern8 e qua sì che possiamo tornare a parlare di musica, di un live che descrivere come collaudato è riduttivo ma che è decisamente bello e di sostanza, che ci riporta direttamente in quel 1992 che cercavamo, nel momento di massima di quel movimento rave prettamente inglese, caratterizzato da breakbeat e dall’ardkore. Qua gli Altern8 giocano in casa, si balla come ossessi tra le varie Evapor-8, Activ-8, Infiltrate 202 e tutte le hit di un gruppo iconico mentre i due ballerini del gruppo, imbolsiti dall’età, fanno improbabili balletti lanciando gli onnipresenti gonfiabili sulla pista.
Il sabato invece, passato il consueto pomeriggio rilassato, si caratterizza per le migliori perfomance del festival, oltre al grosso spazio dato all’hardcore nella sala principale, mentre il Queen Vic mantiene l’impronta jungle e tekno e la Face Room (dove il giorno prima abbiamo assistito al set di Perc & Truss) si lancia in cose molto più acid, ma in cui assistiamo anche a un ottimo set di The Bug. Nella sala principale, prima degli act di Marc Acardipane e dei Rotterdam Terror Corps, che riusciamo a inquadrare poco vista la poca familiarità con certe sonorità (specie i secondi che, seppur icone del movimento, ci sembrano discutibili), abbiamo prima il piacere di ballare sul set acid techno di Miss Djax e poi di farci deludere dal set di Joey Beltram, piatto e scontato. Sulla dj olandese però è d’obbligo aprire una parentesi e una domanda, visto che probabilmente è stato il miglior set del festival (almeno tra quelli a cui abbiamo assistiti): com’è possibile che uno dei mostri sacri della techno europea non sia minimamente presente in line up ed eventi ben più blasonati di questo? Non si capisce davvero come sia possibile che un’artista con un bagaglio tecnico e musicale che pochi, pochissimi, possono vantare ,non appaia a caratteri cubitali sulle locandine di mezza Europa. Ci pare quasi un’eresia, premettendo che farebbe sfigurare un sacco di dj ben più giovani, ben più blasonati e innalzati a mostri sacri del genere, che da lei prenderebbero tante lezioni. La dj olandese, come avrete capito, ci ha fatto divertire da matti, infilando nel peak time anche un classico come Acid Phase di Emmanuel Top, altro mostro sacro che oggi, pian piano, viene riscoperto e riproposto frequentemente.
La domenica è il giorno di chiusura e la stanchezza si fa sentire perché, nei giorni precedenti, appena finite le serate, i più non sono andati a letto ma semplicemente si sono ritirati negli chalet, tirando fuori i propri soundsystem, perciò dormire è stato veramente difficoltoso (dormire, come mangiare, è stato quasi un optional per gran parte dei partecipanti). Nonostante ciò i nomi in cartello sono troppo gustosi per risparmiarsi ma, comunque sia, ce la prendiamo comoda e arriviamo giusto per il set acid, manco a dirlo, di Ceephax Acid Crew, dopodiché si scende verso la fine, purtroppo in chiaro scuro. Infatti se da una parte l’atteso live degli 808 State con basso e batteria ci rapisce il cuore e l’anima, non certo si può dire la stessa cosa di Venetian Snares, il live portato al BangFace è stato, semplicemente, fuori contesto, totalmente sconnesso dalla logica del festival che è tutta focalizzata sul divertimento e sul ballo sfrenato. Aaron Funk porta un live tecnicamente ineccepibile ma da ascoltare comodamente seduti, premettendo una gran passione per certe sonorità piuttosto dure, ma sempre e comunque impossibili da ballare. Mettere l’artista canadese praticamente a chiusura è una scelta incomprensibile, che svuota la sala principale e ci dà l’opportunità di farci un giro nel resto del festival, dove vediamo gente piangere per la festa che sta finendo. Ma non si può chiudere con un Venetian Snares messo lì per caso, la cerimonia di chiusura infatti è affidata a Saint Acid e alla BangFace Crew che ci riportano sui binari fino ad allora seguiti, portando pop trito e ritrito in salsa acid e chiudendo nello stesso modo in cui si era aperta l’edizione 2016, con il non sense e una stupidità musicale solo apparente ma, in realtà, ben studiata mentre ricomincia il lancio di tutti i gonfiabili possibili, tanto da avere difficoltà a camminare per la quantità finita a terra, degna istantanea che conclude il nostro BangFace.
Questo primo BangFace, almeno per chi scrive, è stato illuminante perché ha riportato l’attenzione sul concetto di festa, sul divertirsi prima di tutto, un downsize rispetto ai mega eventi curati all’estremo e molto alla moda, per la proposta musicale e per chi vi partecipa. Qua la festa, alla fine, la fa il pubblico, vero protagonista dentro e fuori le sale, vestito come capita, travestito in modo assurdo, senza pensare a mode del momento. Se credete che la festa sia più importante dei vestiti, dei dj di ultimo grido, allora fateci un pensiero perché, fermo restando una propensione alla musica hard-qualsiasi, sarà un’esperienza che cambierà il vostro modo di intendere e vivere una festa di musica elettronica.