Senza rubare troppo spazio alle sue parole, che sono tante e molto interessanti, e toccano più o meno tutte le cose che di solito si scrivono in introduzioni come questa: un altro come Matias Aguayo non c’è. Non c’è innanzitutto in quel mondo del clubbing che lo ha formato e nel quale ha ottenuto i primi successi, e non c’è nel più vasto mondo della musica underground in generale, dove il quarantaquattrenne cileno-tedesco ha cominciato ad avventurarsi ben presto.
Ecco, avventura è la parola giusta, per uno che ha cominciato ritrovandosi (senza volerlo del tutto?) fra i pionieri della techno minimale tedesca degli anni ’90, come metà dei Closer Musik prima e come solista poi, pubblicando per un marchio di rilevanza mondiale come Kompakt e avendo probabilmente davanti una carriera già pronta, a base di dischi sempre uguali e DJ set ben pagati. Invece, come molti di voi sapranno e come scopriremo dettagliatamente più avanti, matias ha fatto la strada al contrario. Pubblicando dischi sempre meno assimilabili al genere e sempre più liberi da condizionamenti, optando per un basso profilo sicuramente più produttivo dal punto di vista creativo, decentrando la sua attività lontano dai principali centri di produzione – e di potere – dell’elettronica eurocentrica.
Ultima fermata: “Sofarnopolis”, città immaginaria popolata da band misteriose, e titolo del suo album più recente. Suonato da un vero e proprio gruppo (Matias Aguayo & The Desdemonas, con lui anche un bassista, un batterista e un tastierista) e appena pubblicato dalla storica etichetta belga Crammed Discs, marchio noto per la sua ecletticità all’intersezione di post punk, elettronica, musiche periferiche e pop.
Da lì, dalle strade buie ed elettrizzanti di Sofarnopolis, cominciamo la nostra lunga chiacchierata.
Partiamo da “Sofarnopolis”. Prima ancora di ascoltarlo, anche solo guardando la copertina e l’inserto, mi sono venuti in mente i sogni di un ragazzino, i suoi disegni sul diario fatti mentre il professore fa lezione, l’idea e l’estetica del mettere su una band e occuparsene prima ancora che questa esista, immaginandone logo, copertine e poster. Lo facevo anche io, se vuoi saperlo. Il disco nasce come ritorno a quelle sensazioni?
Tutto quello che ho fatto ha sempre avuto molto a che fare con l’immaginazione, con l’idea di un mondo lontano da me. Ho sempre immaginato tutte queste band, ma non ho mai avuto l’ambizione di farne parte, era più un gioco. Nelle mie registrazioni casalinghe dell’epoca ho sempre fatto finta di essere un musicista serio, ma c’era della genuinità, e penso che la cosa mi abbia aiutato molto nell’evolvermi come musicista, e nel continuare a crederci. Nonostante i cambiamenti e le responsabilità, e il diventare un adulto, ma senza dimenticare il mio scopo iniziale, il perché lo stessi facendo e l’approccio molto libero nel farlo. Nel tempo, ho sviluppato parecchio l’abilità di ignorare le aspettative nei confronti delle mie uscite, quello che la gente vuole sentire. Così, quando sono tornato a Colonia per registrare le prime idee di “Sofarnopolis”, mi sono sentito come se tornassi indietro alla mia infanzia, alla mia adolescenza. Mi sono messo all’interno di un processo musicale che non puntava a nulla in particolare. Non volevo registrare un album, per dire, sentivo più un’urgenza di tornare a questo approccio molto libero del fare qualcosa e basta, e del farlo con mezzi ridotti. Mi ha sempre aiutato, creativamente, l’avere possibilità limitate.
Lavorare con poche cose, dentro confini innanzitutto tecnici, quindi?
Assolutamente. I confini tecnici, così come certe scomodità, il non avere il set-up più ergonomico possibile, il non essere in grado di fare immediatamente quello che immagini ma doverci lavorare su perché hai solo quattro tracce, o perché non stai usando un computer ma solo un field recorder… l’uscire dalla tua zona di comfort. In “Ay Ay Ay”, ad esempio, ho scelto di lavorare solo con le voci. Ma non tanto come scelta concettuale, quanto per creare un ambiente in cui non fosse possibile fare certe cose, i cui risultati saranno automaticamente diversi visto l’approccio così strano.
Comincia tutto con un ritorno a Colonia dunque, ma non per lavorare esplicitamente a un album.
No, quello che volevo fare era mettermi in una situazione in cui fossi disconnesso per due settimane, focalizzarmi sul lavoro, sulla musica. Non avevo urgenza di fare uscire qualcosa, tutto ha preso forma ed è diventato chiaro strada facendo, e il feeling di quei primi giorni è presente anche nel risultato finale. Parlando dell’adolescenza, la musica che ascoltavo e amavo in quegli anni non è stata tanto un punto di riferimento concreto in termini di suono, ma più qualcosa di legato alla mia memoria. Riascoltando quei pezzi adesso, suonano molto diversi da come li ricordavo: la memoria è stata un riferimento molto più della musica.
Erano anche tempi, lo dico da nato anche io nei primi ’70, in cui si compravano un paio di dischi al mese e li si ascoltava fino a consumarli, arrivando a conoscerne ogni dettaglio. E dando un valore enorme sia a loro, che erano pochi e preziosi, sia a ogni istante speso ad ascoltare quella musica strana con la quale venivamo in contatto. Adesso hai un milione di dischi al giorno, come fai?
Assolutamente. Quando i miei genitori sono venuti qui dal Sudamerica abitavo in campagna, e il mio accesso alla musica era estremamente limitato. La mia finestra sul mondo era la radio, e il mio boombox era un elemento essenziale nell’imparare a fare musica, perché potevo usarlo per registrare, aveva un microfono e ne potevo connettere un altro. È stato importante anche ascoltare e registrare le stazioni a onde ultracorte, quei suoni strani che sembravano sintetizzatori, o le trasmissioni della notte in cui a volte annunciavano nome e titolo del pezzo, ma altre volte non dicevano nulla e tu ti ritrovavi con queste canzoni misteriose sulla cassetta. È vero comunque, ne parlavo da poco con un ragazzo che mi diceva che sì, gli piace ancora la mia musica, ma non riesce a godersela come in passato: “Quando hai fatto ‘Are You Really Lost’, ad esempio, avevo cinque CD per tutta l’estate, e uno era lui, potrei tuffarmici dentro“. In un certo senso, “Sofarnopolis” è un tentativo di negare questa nuova realtà, creando un album in cui uno possa tuffarsi e scoprire col tempo un sacco di cose. Forse è per questo che ho cercato di dargli così tanti livelli di lettura, storie, misteri che spero qualcuno sia interessato a risolvere. Da ascoltatore provo a fare lo stesso, focalizzandomi su album che scelgo di ascoltare a fondo, o prendendo il walkman invece del lettore mp3 quando esco, per essere un po meno schiacciato dalla scelta che ti dà, per concentrarmi su meno cose.
Per la stessa ragione hai dichiarato che “il disco ha bisogno di molti ascolti, ha bisogno di essere assimilato e imparato piano… in controtendenza con come la musica è consumata adesso“?
Sì. Inoltre, dal punto di vista della produzione, ero molto interessato a dare una certa complessità al lavoro. Non sono una persona molto nostalgica, non voglio fare musica del passato, ma mi piace l’idea di avere la libertà di viaggiare nel tempo, fare cose che si possono fare solo oggi ma combinate con una storia che è lì da prima. Trovare un suono che in qualche modo sembra quello di un disco degli anni ’60, ma che negli anni ’60 non sarebbe stato tecnicamente possibile. Registrando, è stato molto importante lasciare il computer da parte e concentrarmi sul suonare dal vivo, sul registrare take complete invece di registrarne un paio e poi passare un sacco di tempo di fronte allo schermo. Ci siamo organizzati con… non dico un dogma, ma un po’ di regole.
Come entra nel quadro l’idea di avere per la prima volta con te una band, una vera rock band?
Anche questa idea è arrivata abbastanza presto, quando ho realizzato quale sarebbe stata l’atmosfera complessiva della cosa. Avevo immaginato delle band che non esistevano ma che suonavano questa musica, e il mio approccio al suonare dal vivo e allo sviluppare la mia musica su di un palco non è una cosa completamente nuova. Ho fatto dei live set in passato con i Closer Musik, e anche i miei DJ set sono da sempre abbastanza performativi, uso il microfono e i loop sulla voce ad esempio, ma rimanendo comunque legato alla postazione del DJ. Il bisogno della performance mi porta però ovviamente verso questo, verso una band.
Ne è venuto fuori un suono molto scuro e ossessivo, meno sexy del tuo repertorio precedente. Si tratta di una coincidenza, o la tua adolescenza era anch’essa così cupa?
Penso che questo suono più severo, notturno e misterioso abbia diverse influenze. Come detto, ha contato il fare musica in quei posti, perché mi ha riportato a tempi in cui ascoltavo musica abbastanza dark, per cosi dire. Ma penso sia anche una cosa personale, che abbia a che fare con le diverse fasi attraverso le quali passiamo tutti nella vita, e la vita del musicista è particolare, è una vita un po’ più pazza. Ci sono stati molti fattori insomma, ma quello che comunque sento è che per me è sempre un gioco, nelle diverse canzoni provo a cantare in modi diversi, a interpretare diversi personaggi, e dal punto di vista ritmico è sempre musica molto spinta dal groove, anche se non proprio club oriented…
Beh, la si può decisamente ballare…
Sì, sì… ci sono così tanti modi diversi di ballare! Penso che al momento tutto sia formattato in una maniera molto rigida per cui la musica dance è per il club, la musica rock è per il concerto, la musica ambient è da ascoltare a casa seduti, eccetera. Ho sempre pensato che il ballare dovrebbe essere portato in ogni situazione della vita.
Che musica ascoltavi da adolescente?
Penso di dover citare i Tuxedomoon. Ho cominciato con cose come Cure e Jesus And Mary Chain, ma poi grazie alle registrazioni radiofoniche di cui ti dicevo mi sono imbattuto nei Tuxedomoon e in tutto il mondo Crammed Discs dell’epoca: la compilation “Made To Measure”, gli Aqsak Maboul, il lato più avantgarde di quella che si chiamava new wave. Il che, come puoi immaginare, mi rende particolarmente felice di avere oggi un disco pubblicato da quella stessa etichetta. È un sogno che si avvera. Non ho mai pensato che potesse accadere, quelle figure erano troppo mistiche e lontane da me per poter immaginare una cosa del genere.
Quando arriva la techno?
Nei ’90. Ero piuttosto stanco di come… se ti ricordi, negli ‘80 era tutto molto diviso in tribù: gli new wave, i punk, i rocker e così via. Io mi sono sempre sentito un po’ più aperto verso le altre cose, mi piacevano anche i Public Enemy e altro hip hop, ad esempio. All’improvviso, arriva questa musica dance che mette insieme molte cose, poteva essere dark e ballabile allo stesso tempo, i ritmi potevano essere quasi latini e le melodie estremamente scure ed elettroniche. Inoltre, se cresci come figlio di immigrati non ti senti davvero a casa nel posto dove vivi, ma nemmeno in quello da dove vieni. È una situazione strana, e la techno è diventata un rifugio sicuro in cui tutti gli outsider come me potevano stare insieme, e i loro background non importavano. C’era una pluralità che rendeva possibili molte cose.
Quanti anni avevi quando sei arrivato in Germania?
È complicato. Siamo arrivati in Germania quando ero piccolo, tre anni circa. Poi siamo tornati in Sudamerica e abbiamo vissuto in Peru, e quindi siamo ritornati qui, e il periodo più lungo in cui ho vissuto in Germania è stato dai dieci ai trent’anni, più o meno. Poi mi sono trasferito a Buenos Aires, a un certo punto ho vissuto a Parigi… e ora sono tornato in Germania, ma a Berlino.
Presentando il nuovo album hai parlato di nostalgia per un’era in cui “le band erano ancora la cosa più figa in circolazione, e l’industria discografica era grossa”: provi anche tu questa nostalgia? Come ti trovi in questo clima nuovo e in questi nuovi modi di produzione e fruizione?
È un’argomento molto ambiguo, ci sono anche vari vantaggi. Una cosa come la Cómeme, la nostra etichetta, non sarebbe stata possibile in quei tempi, perché i modi in cui adesso possiamo distribuire la musica, suonare uno la musica dell’altro e creare nuovi contatti… quando ho saputo che della gente in Sudafrica ascoltava le cose della Cómeme, ad esempio, è stato ovviamente bellissimo. Il tutto ha anche aiutato molto lo sviluppo della scena elettronica latino-americana, fino al punto in cui ha sviluppato un carattere proprio e ha cominciato a guardare non più tanto all’Europa, quanto a chi si trova lì accanto: gli argentini hanno cominciato ad ascoltare quello che fanno i cileni, i messicani quello che fanno i colombiani, e avanti così. C’è una serie di vantaggi incomparabili, e non mi metto certo dalla parte della nostalgia, ma è anche vero che a Sofarnopolis, in questo mondo parallelo, in questa strana utopia, o distopia, o chissà cosa, è tutto più focalizzato sui grandi personaggi, su queste figure fuori dall’ordinario che non condividono ogni loro umore sui social media, ma sono come alieni misteriosi.
Ad esempio?
Il mondo immaginario di Sofarnopolis è abitato da band, che suonano in un club chiamato Rabbit Hole. Ci sono Jonny Frugo And The Nutty Bananas, i Solid Bass… è una cosa che arriva dall’infanzia, come detto, da anni in cui ero sempre perso a immaginare gruppi, a disegnarli, a trovargli dei nomi, a stilare top 10 inventate e così via. Se c’è un significato di sorta, è il pensare un po’ di più, il dare un po’ di più, il fare sul serio qualcosa di grande. Anche se fallisci. Ho l’impressione che si sia guidati da una mentalità semplice e senza pretese, che si cerchi di essere il più casual possibile, di assomigliare al proprio vicino di casa gentile.
Sofarnopolis è davvero così lontana, so far?
Non ho un approccio molto concettuale alle cose, mi piace creare situazioni in cui si possano trovare automaticamente delle soluzioni strane, e in quel contesto Sofarnopolis era… è lo stesso modo in cui ho lavorato con i testi, che sono molto improvvisati: canto in un linguaggio che finge di essere un linguaggio ma non lo è, e in seguito provo a scoprire parole e a decifrare cosa ho detto. Mi piace cominciare a lavorare dalle sonorità delle parole, e da lì andare verso il contenuto. La cosa strana è che, in qualche modo, così facendo arrivo veramente più a fondo in quello che davvero voglio dire, più che se lo facessi in modo razionale. Il nome Sofarnopolis arriva così, cantavo qualcosa e ho sentito questa parola, e suonava sia come “so far no police” (“per ora niente polizia” – ndr) sia come una sconosciuta città greca antica, Sofarnopolis appunto.
È la stessa ragione per cui i testi dell’album sono in varie lingue, tedesco inglese e spagnolo? Qualunque cosa veniva in mente la mettevi, e la aggiustavi strada facendo?
Sì. Suona semplice, ma è un processo assurdo, perché passa attraverso molte possibilità di sentire qualcosa, di dare forma alle cose, ed è magico scoprire come i pensieri, i sogni o le esperienze attraverso i quali uno è passato all’improvviso si rivelino, in quel processo. È un po’ un principio di lavoro surrealista, o qualcosa di simile. È come lavorare con qualcosa che potremmo chiamare magia, o spiritualità, senza cercare di dargli un nome o spiegarla troppo.
Il disco suona come il culmine di un percorso che pare contrario rispetto a quello di molti: dalla forma-canzone canonica e dal songwriting tradizionale – seppure in ambito techno/elettronico – a cose sempre più sfumate, meno definibili. Sei d’accordo? È un passaggio cosciente, cominciare dalla propria zona di comfort e guadagnare via via la sicurezza per abbandonarla?
Sì, ci vedo decisamente un processo di liberazione. Le cose che facevo da ragazzo erano estremamente free, perche non avevo molti punti di riferimento. Con la techno e la musica da club c’erano riferimenti molto più chiari sugli obiettivi, sulle motivazioni, sulla direzione da prendere. Col tempo ho sviluppato la capacità di essere più sciolto, più rilassato, e ho riscoperto delle abilità che pensavo sarebbero state inutili per ciò che stavo facendo, e per il contesto in cui stavo lavorando.
Ad esempio?
Quelle performative, che non erano così importanti per fare il DJ quando ho cominciato. O il lavorare molto con la voce… nei miei primi dischi non è così prominente, è lì ma solo col tempo ho cominciato ad essere più sicuro di me, a capire che anche quella è la mia cosa. Anzi, che è la cosa che posso fare meglio e sviluppare ulteriormente.
Immagino che questo percorso abbia a che fare con le cose che dicevi prima: non ti interessano le aspettative ma fai quello che ti senti.
Sì, penso di poterlo dire. Mi sono evoluto sempre di più verso quell’atteggiamento. Avevo un buon background, in effetti, perché se cresci in un paesino tedesco e fai queste cose sei quello strambo. Poi arrivi nella grande città e tutti sono cosi professionali, parlano di LFO e di banchi mixer, e pensi “Ok, è tutto troppo complicato per me”. Può diventare molto intimidatorio, ma poi capisci che in realtà non è troppo diverso da come hai sempre fatto, che non è troppo difficile, e cominci a prendere confidenza. Per me è stato sempre importante mantenere questa attitudine, essere continuo nel lavoro, non seguire mode e tendenze che si manifestano in scene dalla vita altrettanto breve.
Hai detto che “il momento creativo fondamentale è quello in cui non si è focalizzati su un risultato, ma sul momento stesso”. Ogni disco che hai fatto lo dimostra più del precedente, o no?
Posso dirlo solo ora, guardando indietro, perché mentre fai le cose non ci pensi molto. Ma ovviamente oggi realizzo che posso analizzare la timeline di quello che ho fatto, e vedere che c’è una logica, una storia.
Ha a che fare con la tua musica, come detto, ma anche con le tue scelte di carriera e con il tuo percorso personale. Hai cominciato con un’etichetta techno molto famosa come la Kompakt, e da lì ti sei mosso nella direzione opposta a una possibile grande stardom nel mondo del clubbing. La musica si è allontanata da quegli scenari, e tu con lei. Avresti potuto restare e fare i grossi club in Europa d’inverno e a Ibiza d’estate, e invece te ne sei andato in Sudamerica a fare i party per la strada. C’è una logica anche in questo?
Penso di sì. Certo non è stata la scelta migliore dal punto di vista della carriera, appena le cose hanno cominciato a diventare più grosse e consolidate ho preso e me ne sono andato in Sudamerica a fare street party chissà dove, ma non rimpiango nemmeno un secondo. La vita è breve e puoi ovviamente farti una carriera figa da DJ, ma migliorare ed evolvermi come musicista mi interessa di più. Suonare nei club è bello, ma anche abbastanza limitante: è un format, e al suo interno diventa difficile essere davvero creativi, sviluppare ulteriormente il proprio discorso. Volevo avere la possibilità di suonare una traccia molto lenta, ad esempio, o magari cose senza beat… quando abbiamo fatto gli street party, abbiamo potuto vedere come questi incoraggiassero un modo molto diverso di fare musica, che ci ha dato nuove idee e si è sentito come risultato nei nostri dischi. Per me è importante continuare a evolversi in questo modo, più che la carriera.
Fai ancora DJ set, o suoni soprattutto dal vivo?
Suono ancora DJ set nei club, è qualcosa che amo molto e intendo continuare. È solo che non voglio esserne completamente dipendente, non voglio che sia l’unica cosa che posso fare. Ma lo faccio, e mi piace: uso il microfono, suono le percussioni, creo loop con le voci… è una specie di mezzo live e mezzo DJ set.
Cosa pensi del mondo del clubbing attuale? Ti stimola ancora, o non è più come quando hai cominciato?
Non so. Cambia sempre, e come ho detto non ho uno sguardo così nostalgico verso il passato. Alcune cose sono migliorate, l’accessibilità ad esempio: oggi possiamo ascoltare musica migliore di prima, ci sono molti buoni DJ e molti buoni input musicali. Non direi che è pegigo quindi, ma solo diverso. Mi sono sempre sentito un outsider… i ’90 erano forse una cosa diversa, ma quando sono arrivati gli anni Duemila e tutta la minimal, con i Closer Musik eravamo sempre abbastanza lontani, facendo la nostra cosa ma venendo in qualche modo accettati dalla comunità, ed è andata avanti cosi. Penso che i grandi cambiamenti… è come il tempo, se sta piovendo sta piovendo, non puoi farci molto. Ci sono vantaggi e svantaggi. Per me, ad esempio, è stato piu facile sviluppare un suono personale: oggi usano tutti gli stessi programmi, ed è più difficile definire quello che fai. Io avevo solo un computer Amiga, una chitarra e un delay. Più tardi ho avuto un campionatore, ma limitava molto il mio suono. Un’altra cosa: oggi siamo tutti più o meno intrappolati in questa, non so come dire… buca della connettività e della presenza che ci si aspetta da ogni artista, e la cosa pone un problema. Non solo nella musica, ma in generale; molta gente ne soffre e non è in grado di gestire la cosa, perché ovviamente anche in una scala molto piccola diventi comunque una persona pubblica, e capire cosa significa è un processo abbastanza difficile. Un processo attraverso il quale per fortuna sono passato abbastanza presto, vivendo in una piccola città e facendo teatro e musica: eri automaticamente esposto, e abbastanza presto capivi che l’immagine ufficiale di te non aveva molto a che fare con la realtà, ma anche che non era così importante. Ti concentravi su quello che stavi facendo, sull’essere presente nel momentoi in cui ti trovavi, non come oggi che ti trovi faccia a faccia con qualcuno e questo qualcuno ha l’impressione che tu abbia altre cinque conversazioni in contemporanea sul telefono. Stiamo tutti facendo fatica a gestire questa situazione, che ha anche un impatto molto negativo sul mondo, perché incita all’odio, alla superficialità nell’analisi dei nostri problemi, alle teorie del complotto, etc. Tutti ne soffriamo, e non capiamo realmente dove andare, o come uscire da questa trappola in cui stiamo tutti lavorando gratis per qualche impresa di social media. Sono tempi molto strani, e fare un disco come questo è una specie di risposta, conscia o meno. Non è abbastanza, chiaramente, ma è almeno un’idea, un’incoraggiamento ad avere qualche tipo di utopia.
Sul tuo sito hai una sezione dove parli di argomenti che ti stanno a cuore: su tre interventi, due sono sul femminismo e uno sull’attacco di Orlando del giugno 2016. Quanto è importante per te che un artista abbia una coscienza politica e sociale? Pensi che il mondo del clubbing sia ancora il rifugio sicuro per outsider che era in origine, o è diventato uno specchio della società al di fuori?
Penso che rifletta molto l’esterno. Ma molti all’interno della comunità stanno lavorando attivamente per mantenere questo spazio il più aperto e plurale possibile, è qualcosa che dobbiamo proteggere ora più che mai. Alcune delle cose che ho scritto sono molto spontanee, ho fatto fatica a superare i fatti di Orlando, dovevo dire qualcosa. Non saranno molti, ma almeno un po’ di gente legge e ascolta quello che dico, e magari ci pensano su. È una piccola cosa che posso fare per aiutarli, o per stabilire una comunicazione. Cerco di essere costruttivo, in questi tempi di insulti e aggressività; penso sia importante non dimenticare che lo scopo è quello di migliorare la situazione esistente. Su un piano più generale, però, penso che sia la nostra attività offline a dover essere rinforzata, perché alla fine tutta quella online è solo… siamo intrappolati in qualche strano algoritmo che crea una realtà adatta a noi. È molto importante prendere iniziativa anche offline, è cruciale evitare di arrivare a queste situazioni, instaurare più comunicazione su un vero livello sociale, confrontarsi con la gente anche in privato, con i propri pensieri, discutendo. È ben più importante delle dichiarazioni che puoi fare sui social media.
Mi piacerebbe ripercorrere con te gli album della tua discografia. Cominciando da “After Love” dei Closer Musik, anno 2002.
La cosa che ricordo subito e molto bene è il vivere insieme a Dirk Leyers a Mülheim, periferia di Colonia. Conducevamo una vita molto intensa e povera, concentrata quasi totalmente sul fare musica. Ci ispiravamo a progetti come Pan Sonic, o la Elektro Music Department di Berlino, Kotai e cose del genere. Abbiamo creato il nostro mondo, in quell’appartamento: facevamo musica con due Commodore Amiga e un Atari, provavamo a fare questa musica elettronica molto pura, sbarazzandoci di tutti gli elementi usuali e dandole una funkiness molto essenziale, usando hi-hat non aperti ma chiusi, più corti. Guardavamo anche a Miles Davis e Charlie Parker, ascoltavamo molto jazz, anche se non si traduceva in senso ovvio nella nostra musica. Ma avevamo questa idea di essere davvero musicisti, di provarci sul serio e di fare anche un po’ i matti. Era un periodo un po’ fuori di testa, questo ricordo.
Quanto ci ha messo a prendere forma?
La cosa bella di “After Love” è che sono tutte canzoni che avevamo già suonato dal vivo prima di registrarle. Avevamo solo un singolo fuori, “One Two Three (No Gravity)”, e abbiamo cominciato a suonare abbastanza in giro… penso che i Closer Musik fossero molto meglio dal vivo che su disco, avevamo un set-up molto strano e scomodo, dovevamo mettere continuamente a tempo i beat perché non siamo mai riusciti a capire come funzionasse la sincronizzazione fra quei due computer, cose così. Siamo andati in studio per finalizzare il tutto, per registrare queste performance dal vivo. Non eravamo digitali, dovevamo registrare tutto in una take, il che non è così immediato ora ma è un metodo che uso ancora. Entro più in profondita nella musica quando riesco ad avere una take completa, invece di stare ore di fronte allo schermo del computer.
Perché avete fatto un solo album?
Perché come succede a molte band e progetti, ovviamente si litiga. Adesso non è più un problema, è tutto a posto fra di noi. Ma eravamo molto giovani, e l’intensità del lavorare, viaggiare e abitare insieme, vivendo quella che è praticamente la vita di una coppia, è diventata troppa. A un certo punto non mi sono sentito più a mio agio.
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“Are You Really Lost” allora, primo disco da solo, uscito nel 2005.
Ricordo molto bene Amburgo, dove registrai, e Marcus Rossknecht, che era il produttore. Avevo fatto dei provini di molte canzoni a Colonia, e Marcus mi aiutò dare loro forma e a mixarle. Era un momento difficile, mi ero separato dalla mia ragazza e lavoravo ad Amburgo, una città dove non vivevo e non conoscevo molta gente. Fu il primo passo verso il traguardo del realizzare un disco da solo, un nuovo inizio.
Perché è cantato in inglese?
In quel momento era naturale, non dovetti pensarci, è un linguaggio molto musicale. Tante band che mi piacevano cantavano in inglese, e la cosa è successa automaticamente. Il tedesco è sempre stato difficile per me, nella mia discografia ci sono poche canzoni in tedesco, o con elementi tedeschi, le puoi contare sulla dita di una mano. Ma lo vedi anche nella musica che ci circonda: i D.A.F. ci sono riusciti ottimamente, i Kraftwerk anche, ma cantare in tedesco può essere complicato.
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Poi arrivano i BumBumBox, le feste di strada che tu a la crew Cómeme organizzate in varie città dell’America Latina. E “Ay Ay Ay”, il disco che nel 2009 cambia tutto. Quanto sono state importanti quelle feste per l’album?
Più che le feste in sé, penso sia stato importante il fatto di essere così lontano dall’Europa, anche con lo spirito. All’improvviso, cosa succedeva là non era più importante. Forse suona un po’ arrogante, ma a Buenos Aires – con il giro di gente con cui stavo e con cui tuttora lavoro e sono in contatto – il mood era più “Ah, l’Europa e gli Stati Uniti, che noia”. Avevamo notato come da lì non arrivassero più nuove idee, e avevamo smesso di guardare così tanto in quella direzione, non erano più i nostri riferimenti principali. Nei party dove suonavamo, era il 2008 o giù di lì, non si poteva suonare proprio quella musica. Una traccia techno romantica e introspettiva dalla Germania non sarebbe stata molto bene in uno street party, non avrebbe funzionato. Quello che funzionava era roba old school, come disco, musica latina, prima house, acid house… tutte queste cose europee più nuove non andavano granché, mentre andava eccome la musica sudafricana, ad esempio. Di conseguenza, volevamo anche creare il nostro suono per quel contesto, che ha ispirato molto tutto il movimento Cómeme innanzitutto. “Ay Ay Ay” è un album più personale, naturalmente, perché c’è solo la mia voce con giusto qualche ospite qua e là, qualche strumento sparso, ma è la voce il suo motore principale. La regola che mi ero imposto, registrando nel mio appartamento, era di usare solo il microfono, per tutto. Era un principio di lavoro, più che la base di un concept album decisa in partenza. Ma mi piacque come suonava, ed era anche una presa di posizione da parte mia: ok ragazzi, non è una questione di produzione, ma di immaginazione. Con la mia voce posso creare ritmi impossibili da programmare, posso trasmettere un’idea e trasformarla immediatamente in qualcosa. È lo strumento più potente.
Ed è il modo più veloce rendere tangibile un’idea.
Esattamente. Inizialmente pensavo che avrei registrato così e poi tradotto tutto con altri strementi, cosa che ho fatto in altre occasioni. Ma è rimasto tutto così, e ne è uscito qualcosa che mi ha portato un sacco di passi avanti rispetto quello che facevo prima.
È interesante anche il discorso “Usa/Europa contro resto del mondo“. Tendiamo a pensare in modo molto eurocentrico, ma questo mi pare uno degli ambiti in cui Internet ha in parte cambiato le cose. Oggi una traccia sudafricana, una brasiliana e una statunitense sono sullo stesso livello, in un certo senso, o almeno più di prima.
Sì, e no. Da un lato lo sono più di prima, e lo abbiamo visto quando abbiamo cominciato con Cómeme: tutti ascoltavano kuduro, cose sudafricane, champeta colombiana, e abbiamo pensato “Ok, è finita, i tempi sono cambiati“. E invece no.
Hanno vinto i soldi?
Sì, ma non solo. Per molti motivi. Anche solo il fatto che io e te adesso stiamo parlando in inglese, ovviamente, perché il mio italiano non è all’altezza di una conversazione così complessa.
E il mio spagnolo idem.
C’è un normativismo, un anglo-normativismo, che ci viene imposto. E che regola anche lo spazio pubblico della musica. Se parlo con i miei amici italiani, giapponesi o palestinesi, è in inglese. E la cosa ci trasporta anche in un’altra mentalità. Sui nostri media, se qualcosa succede a Città del Messico, a Johannesburg o a Cartagena, viene esaminata non tanto con una reale curiosità, per conoscere sul serio gli artisti che ci sono là e come lavorano, ma piuttosto come un fenomeno culturale. Se parliamo di Stati Uniti ed Europe, invece, questo non succede. È molto difficile affrancarsi da questo modo di vedere le cose. Parlavo di recente con Branko dei Buraka Som Sistema, e concordavamo su come la gente ci metterà comunque sempre in quellla scatola: la maggior parte delle interviste che faccio negli Stati Uniti è per siti latini o simili. Quando fondammo la Cómeme, invece, MySpace in un attimo ci diede l’opportunità di parlare con chiunque, in tempi in cui gli algoritmi non erano ancora così definiti. Ora è tutto molto più limitato, allora invece ci fu all’improvviso un grande senso di libertà, ma non mi pare che sia andata a finire completamente così. Per questo è stato importante per noi creare Radio Cómeme, una piattaforma nostra: perché non vedevamo i nostri pensieri, le nostre opinioni e il nostro approccio rappresentati in altre piattaforme. Le collaborazioni con il Sudafrica, ad esempio, erano diventate molto importanti per noi, da là è sempre arrivata musica molto stimolante, e quando ci sono andato a suonare ho realizzato in un attimo che vi succedono molte cose interessanti. Ma quello che noi scegliamo come approccio è l’auto-documentazione, aiutare la gente a realizzare i propri show radiofonici, non noi che li intervistiamo ma loto che intervistano loro stessi, ad esempio. C’era questo pezzo su una rivista inglese, tempo fa, che parlava dell’ascesa della cultura dance messicana, e raccontava di un europeo che andava nei club là e restava stupito di quante cose succedessero… mentre la cultura dance messicana è qualcosa che esiste da centinaia di anni, la soundsystem culture messicana è qualcosa che esiste dagli anni ’40 o ’50, e la musica elettronica dagli anni ’80!
(continua sotto)
Nel 2013 esce “The Visitor”: come cambiano, di nuovo, la tua musica e il tuo modo di fare le cose? Il disco esce per Cómeme, innanzitutto…
Sì, è il mio primo album a uscire per Cómeme. Sentivo che fosse una cosa abbastanza naturale farlo con Cómeme e non Kompakt, sarebbe stato strano il contrario anzi, visto quanto è influenzato dal suono dell’etichetta e dei nostri party. È un disco molto più itinerante, a differenza di “Ay Ay Ay” che era stato fatto tutto in casa, ad esempio. È anche il mio disco più collaborativo, ci sono voci, qualcuno che suona le percussioni, qualcun altro che suona il basso, etc. Penso sia il mio disco più colorato, in cui tutto è possibile, ed è anche il mio disco più spagnolo, più latino.
Ti ha sorpreso quando una rivista rock con la R maiuscola come Mojo, uno dei mensili musicali più venduti al mondo, lo ha fatto disco del mese?
Sì, sono stato positivamente sorpreso. Mi ha fatto molto piacere perché hanno capito che la musica non era confinata al solo contesto dei club. Il disco è stato poco recepito dai media europei, ma molto da quelli latini, ed è sempre abbastanza strano vivere questa contraddizione, per cui cresci in Germania ma i posti in cui più gente ascolta la tua musica sono il Messico e la Colombia…
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Chiudiamo con una canzone, che non sta su nessuno dei tuoi album: quanto “Minimal” è stata importante per te? Solo uno scherzo, o qualcosa di più significativo per la tua carriera e le direzioni che avresti preso in seguito?
Quella canzone ha una storia strana. L’ho registrata con Marcus appena dopo “After Love”, il suono che veniva chiamato minimal stava dominando le piste, e con i Closer Musik ne eravamo stati in un certo senso dei precursori. Ma non era assolutamente quello che pensavamo sarebbe stato, si era sviluppato in una direzione che non ci piaceva, diventando una cosa pacchiana e non così groovy. La canzone l’abbiamo fatta come uno scherzo, non prendendola troppo sul serio. Ma ho cominciato a suonarla dal vivo, come ultimo pezzo, e la gente è impazzita. Per molto tempo in tanti hanno insistito perché la pubblicassi, ma ero dubbioso, non ero sicuro di voler prendere una posizione così ridicola… era davvero così importante? Poi a un certo punto ho detto “Ok, facciamolo“, e ha avuto abbastanza successo.
Mi pare che il pezzo marchi un cambiamento di direzione, nella tua musica e nelle tue scelte. Pubblicarla a quel punto, nel 2008, suona molto come un “Ok, da adesso in poi facciamo qualcosa di diverso”.
Sì, guardando indietro pare proprio così, ma in realtà non era voluto, non c’era tutta questa grande intenzionalità. È buffo, perché ricordo che al tempo ci furono grosse discussioni nei forum, e c’è stato anche chi mi ha insultato per quel pezzo.
Traditore!
Sì, c’è stata gente a cui proprio non è piaciuto. Ma in fin dei conti… c’è una parola in tedesco che trovo strano non esista (in realtà esiste: filisteismo, ovvero atteggiamento gretto e retrivo – ndr) in altre lingue: Spiessertum. Descrive il modo di pensare a compartimenti stagni, conservatore e piccolo-borghese. Il non lasciarsi andare. Chissà, magari c’è bisogno di avere una parola così in tedesco. Io ho sempre detto “Ok, sono questo ragazzo nato a Santiago del Cile e che ha vissuto a Lima, arrivo in questa piccola città in Germania e ovviamente la gente qui è di vedute ristrette“, ma poi ho trovato questa ristrettezza di vedute dappertutto. E se qualcuno mi dice di non fare qualcosa, che non posso, io di solito rispondo: “Yeah! Allora lo farò!“.
Foto di Marcelo Setton