Anche per gli ascoltatori poco attenti è facile che il nome di John Tejada non sia del tutto nuovo: magari hai sentito qualcuna delle sue uscite recenti su Kompakt, oppure se sei un po’ più anziano ti ricordi di qualcuno dei sui grossi successi di metà anni duemila, tipo “Sweat (On The Walls)” o “Sucre”, che all’epoca mettevano d’accordo davvero tutti i dj grazie a un groove inarrestabile e melodie semplici ma densissime, di quelle che ti si piantano in testa e non se ne vanno più.
Si potrebbe essere portati a pensare che Tejada sia solo quello lì, uno da stanze buie e roventi con decine di persone tutte vicine che si muovono all’unisono, e saltano fino a quando il sudore comincia a grondare anche dalle pareti, ma in realtà lui, che è in giro già dallo scorso millennio, negli anni le ha fatte un po’ tutte. E’ passato attraverso fasi melodiche e “ambienteggianti” in stile Kaito, come in “The Idle Of Toiling Hands” (tuttora il suo album che preferisco), ma anche da momenti un po’ più “grattoni” e vicini all’electro, tipo “Mono On Mono” e “Paranoia”, e ha avuto, come molti, un lungo periodo minimal in cui tra gli altri ha fatto cose anche con un mostro sacro del genere come Dan Bell e prima ancora anche una fase drum’n’bass, sempre con risultati più che soddisfacenti.
Dopo quasi vent’anni di carriera passata ad agitare i dancefloor in tutti i modi possibili, quindi, ci può anche stare che l’ottimo John abbia voglia di dedicarsi a qualcosa di un po’ più tranquillo, da ascoltare in cuffia di pomeriggio, che forse era l’unico genere in cui non si era ancora cimentato, ed ecco che entra in gioco Kimi Recor. Per chi non la conoscesse, quindi anche per me prima di quest’album, Kimi ha all’attivo un EP su International Deejay Gigolo e un album come cantante degli Invisibles (di cui faceva parte anche Qzen, che tra le altre cose ha prestato la voce proprio a “Sucre” e “Paranoia”), oltre ad aver già cantato in alcune produzioni recenti dello stesso Tejada, col quale sembra si sia trovata bene al punto di mettere in piedi questo progetto, di nome “Bavaria” in virtù delle origini austro-germaniche dei due componenti.
I primi dieci secondi di ascolto dell’album sono un po’ spiazzanti, se ti aspetti il solito Tejada sexy e danzabile, ma la sensazione di straniamento dura giusto un attimo: se c’è una cosa che John sa fare è proprio accoglierti nella sua musica e tirartici dentro, che si tratti di strumenti di devastazione del dancefloor o, come in questo caso, di cose più tranquille, che ricordano un sacco artisti come Lusine. Si parte morbidi quindi, senza fretta, col downtempo di “We Break Through” in cui si mette in chiaro fin da subito che la voce di Kimi Recor ci cullerà dolcemente da qui alla fine dell’album, e si procede senza esitazioni sullo stesso solco: pad morbidissimi, ritmiche lente e vocal protagonisti ma mai sparati in faccia, che ti si insinuano in testa lentamente ma inesorabilmente fino a quando, giorni dopo, ti sorprendi a canticchiare tra te e te qualcosa che lì per lì magari non ti ricordi cosa sia (e probabilmente è “When We Were Young” o “Persephone”, i due earworm più efficaci del disco), ma poi ci arrivi e pensi “ah però, Tejada me l’ha fatta ancora una volta” e metti su l’album per sentirlo di nuovo.
In sostanza, “We’ll Take a Dive” è come una cioccolata calda in un pomeriggio invernale: non è uno di quei dischi devastanti che ci fanno uscire dalla nostra “comfort zone” e ci fanno imparare qualcosa di nuovo lasciandoci a bocca aperta, ma ogni tanto è anche piacevole crogiolarsi in qualcosa di più comodo, anche perché per uno come Tejada che non è esattamente avvezzo al genere non si può certo dire che si tratti di una scelta di comodo: per lui è, di fatto, un esperimento, e si può dire che gli sia riuscito appieno.