Lo Stato Sociale? Che due palle, che scarsi, che “band da liceo“: giudizi così se ne sono sentiti, se ne sentono e ancora si sentiranno parlando della band bolognese, come no. Ehi: anche chi vi scrive c’è caduto, e magari ci cadrà ancora. Ma al tempo stesso, sarà anche “band da liceo” con “umorismo da liceo” ma intanto in due partecipazioni a Sanremo sono quelli che hanno portato due temi politici sanguinosamente importanti: uno in generale, quello del reddito garantito in una società a piena automazione che “mangia” sempre di più il lavoro, e uno in particolare, visto che quest’anno loro più di chiunque altro – e di gran lunga più di chiunque – hanno usato il palcoscenico sanremese non per farsi i fatti loro ma per lanciare il grido di dolore sulla drammatica situazione del comparto della musica live. Quindi ecco: “band da liceo” ok, ma forse c’è qualcosa di più. E se a questo si unisce il fatto che uno dei loro componenti a lungo è stato uno dei migliori giornalisti musicali “di nicchia”, dai gusti raffinatissimi, nonché una delle teste più pensanti ed interessanti si possano incontrare pascolando per le praterie di Facebook, allora ce n’è davvero abbastanza per dirsi “Ehi, qui bisogna affrontare l’argomento per bene“. E allora, quando c’hanno proposto la possibilità di intervistare Bebo de Lo Stato Sociale con la scusa della release pre-sanremese di un suo EP (come fatto dagli altri componenti del gruppo), aspettandosi magari uno sdegnoso rifiuto ma-che-c’entriamo-noi-con-quelli-lì, la risposta è stata invece un “Cazzo sì, assolutamente sì”. E come prevedibile, come previsto, ne è venuto fuori un confronto preziosissimo, tutto da leggere.
Parto con una domanda che potrebbe essere scherzosa, ma so che da te posso avere in realtà una risposta non banale: quante sono le persone che potrebbero effettivamente dire, come reciti ad un certo punto tu proprio dentro il disco, “Stavi ascoltando la radio che passa quei coglioni de Lo Stato Sociale”?
Eh be’, in effetti tantissime: potrebbero veramente dirlo in tanti. E ti dirò, dopo il 2018 ne avevano probabilmente anche ben donde.
Ecco, lo sapevo che con te saltavano subito fuori spunti interessanti…
Avevamo veramente rotto le palle parecchio con “Una vita in vacanza”, eravamo veramente ovunque. Ma anche prima non è che avessimo lesinato nel mostrarci, nel provare ad “aggredire” la realtà: ad essere cioè presenti e dire la nostra non solo con le canzoni ma anche noi come persone. Siamo appassionati dei bar e dell’opinionismo da bar: non lo nascondiamo. E allora sì, considerate queste cose ci sta tutto che qualcuno possa pensare che siamo un po’ dei “coglioni” e vada in giro a dirlo.
Ma col senno di poi, c’è stato qualcosa che potevate fare in più per evitare di passare per “coglioni”, giullari, eccetera, o era comunque inevitabile?
Noi abbiamo un certo modo di esprimerci ben preciso. Non siamo persone seriose, ecco. E’ la nostra cifra. Poi chiaro, quando c’è da fare i seri lo facciamo ben volentieri; ma riteniamo che l’aura di “santità” la meritino altre cose, altre pratiche, non certo lo stare su un palco – a maggior ragione poi se il palco è quello di Sanremo. Ma a parte il discorso Sanremo: proprio in generale, quello che noi facciamo ormai come mestiere cerchiamo di viverlo nella maniera più giocosa possibile. Anche nel rapportarci con quello che è il “pubblico”, nel farci insomma vedere dall’esterno. Dall’interno, come puoi immaginare ci possono essere facce lunghe e discordie di tanto in tanto, sfido chiunque a non averne dopo vent’anni di amicizia; e allora proprio per riconquistare la serenità bisogna anche saper essere ogni tanto giullari e fare un po’ i coglioni. Stiamo comunque parlando della punta dell’iceberg, sia chiaro: dietro ad ogni cosa di sostanza in grado possibilmente di durare nel tempo, ci deve essere sotto una solida struttura. Non puoi essere una scatola vuota. Non resisti a lungo, se lo sei.
Avevamo veramente rotto le palle parecchio con “Una vita in vacanza”
Che poi il più serioso del gruppo sei tu, sbaglio?
Guarda, pubblicamente forse sì. Pubblicamente forse sono io quello che appare più serioso. Ma in realtà sono anche quello che dopo un po’ ha bisogno di mandare le cose in vacca allegramente. Se c’è da stare seri due, tre ore e rompersi la testa in riunioni complicate, beh, sono il primo della fila, e anzi mi vivo tutto questo con un certo senso di responsabilità: d’altro canto riesco a capire dove stanno le questioni veramente importanti, credo. Sul nostro mestiere è bello saperci scherzare sopra, è utile e terapeutico… e mi diverto molto a farlo. In generale: non mi piacciono le santificazioni, questo è il fuoco della questione. Non è questione di generico “ateismo”, occhio: il punto è che “santificare” qualcosa è il modo migliore per togliergli la magia. No? E al tempo stesso una dei doni principali della musica, la sua magia, è che riesce a farti “vivere bene le cose”, anche in un periodo storico complicato come questo che stiamo vivendo.
Posso dire che uno dei problemi storici della scena indie alternativa italiana dai ’90 al primo decennio dei 2000 e forse anche un po’ oltre era di prendersi drammaticamente sul serio?
Ma sì, penso sia stato un fattore. Forse era un problema più della scena che ci gravitava attorno, che degli artisti stessi. Io ho avuto negli anni la possibilità di conoscere quantomeno superficialmente uno come Manuel Agnelli, tanto per farti un esempio, uno che apparentemente non brilla per simpatia e leggerezza; invece, poi quando ci parli capisci molto meglio quanto stanno le cose. Capisci che è una persona che ha anche il gusto della leggerezza, e non per questo abdica dall’avere una visione molto forte e decisa. Con lui ti puoi bere un caffè, farti una birra, sparare cazzate, e lì scopri che parla di se stesso in una maniera felicemente leggera, autoironica. Poi chiaro: c’è la persona, e c’è il personaggio. E c’è anche ambiente ed ambiente. Ma mi sembra, ecco, sia soprattutto il pubblico a “pretendere” l’artista super-impegnato; e poi, proprio partendo da questo, ha il gusto di mettersi lì a fargli le pulci su ogni singola cosa. Non so, guarda, il punto è che penso sia veramente difficile viversi le cose per quello che effettivamente sono. Dovremmo ricordarci tutti: è musica. Fine. Non è altro. La musica è una cosa che scopri fin da quando sei ragazzino: è una cosa che ti fa stare bene. E’ una evasione. E’ una passione. Ha, o dovrebbe avere, solo delle positività dentro. Partendo da questi presupposti, non capisco perché viversela sempre con la maschera di quelli per cui ogni singolo aspetto è una drammatica questione di vita o di morte. Ci sono argomenti che vanno trattati con serietà, ovvio; e questo vale anche in musica, in più di un caso. Ma quando c’è la musica di mezzo, beh, è anche bello e credo pure giusto che ci sia sempre un po’ di caciara.
Che poi guarda, tu arrivi proprio da uno dei bastioni della serietà: il giornalismo musicale indie, o comunque non mainstream. Eri uno che leggevo sempre con attenzione. Che esperienza è stata? E soprattutto: ne possiamo parlare al passato, per quanto ti riguarda?
Sì sì, assolutamente al passato! Ormai sono tanti anni che non scrivo più di musica. Poi ti dirò, comunque scrivevo su Ondarock, che era un po’ un’”ammiraglia” in quel contesto: aveva un’aura molto formale rispetto ad altre testate e sì, quando ci scrivevo sopra ogni tanto mi sentivo un po’ un pesce fuor d’acqua. Scriverci è stato un passaggio comunque molto importante per me e penso anche per molti altri, sono finito lì proprio quando c’era un ricambio generazionale e quando in musica iniziavano a cambiare pesantemente certe dinamiche. Ti ricordi? Stiamo parlando del periodo in cui esplodevano i forum, i blog, le webzine… sembrava una rivoluzione, sembrava il futuro che irrompe all’improvviso. A me ha aiutato tantissimo. Mi ha dato una prospettiva diversa, più articolata, mi ha dato anche una riconoscibilità. Tant’è che ancora oggi ogni tanto qualcuno mi chiede “Ma che ci fai tu con lo Stato Sociale? Cosa c’entri?”…
Ogni tanto lo penso anche io, lo confesso.
Mi diverto con loro, non vedo perché non dovrei stare con loro. Sono prima di tutto degli amici. E poi senti, io faccio quello che sono in grado di fare, sono conscio dei miei limiti. Le mie orecchie, la mia testa sanno elaborare, processare, criticare, interpretare una musica che è molto più complessa di quella che invece sono in grado di fare da musicista, questa è la verità. E va benissimo così. Ti faccio un esempio stupido: io credo che molti possano andare a mangiare da Bottura ed apprezzarne la cucina, no?, purtuttavia di Bottura ce n’è solo uno, guarda caso. Ma è normale sia così. Non c’è nulla di male.
Bisogna capire che le persone e le cose sono sempre complesse, mai lineari, non ci sono steccati “o di qua, o di là”, “questo vale, questo è una merda”: e questa complessità è una risorsa, non un problema
Domanda secca: ma il giornalismo musicale del primo periodo del giornalismo musicale non mainstream, serioso ed analitico anche sulle musiche “nuove”, ha ancora una sua funzione e una sua utilità, o è invece un residuato di un periodo storico che non c’è più, soppiantato dagli articoli-flash sul feed o sulle stories di Instagram e cose così?
Io penso abbia ancora tantissimo senso. E’ una figata il giornalismo musicale, dovremmo rendercene conto molto di più: perché è un modo per provare a capire cosa succede nel mondo attorno a noi, facendolo attraverso una delle sue espressioni più dirette ed appassionate. Certo, oggi sono cambiate alcune dinamiche rispetto ad allora. Un tempo, se eri “giornalista”, anche in un blog o su una webzine avevi un piccolo vantaggio competitivo: i promo ti arrivano prima, potevi ascoltare molta più musica di quanto potessero farlo le persone normali che dovevano pagare o spendere le ore su internet per avere i dischi. Oggi questa cosa non c’è più, il vantaggio di essere “insider” si è abbastanza assottigliato. Oggi infatti cosa te ne fai di una anteprima, di un promo? A che ti serve? Che vantaggio ti dà averlo? Tanto un disco esce e voilà, eccolo lì a disposizione di tutti. Ma il giornalismo musicale fatto bene è ancora oggi un mezzo eccezionale per interpretare il mondo. Ecco, a me dispiace che la nuovissima generazione di giornalisti musicali – almeno quelli nei contesti che seguo di più – abbia avuto poco polso nel saper leggere ed interpretare fenomeni recenti molto significativi come, che so, la trap. C’erano alcune domande che ci si doveva porre: cosa vuol dire costruire un brano musicale con quel tipo di grammatica lì? Cosa vuol dire importarlo in Italia, essendo un modello estero anche molto specifico? Perché funziona, perché ha attecchito? Quali sono i suoi limiti? Perché alcuni artisti hanno subito credibilità e altri invece risultano solo dei pagliacci? E’ un campo d’indagine sterminato; mentre mi sembra che in molti, troppi dei giornalisti oggi in circolazione reputino degna d’analisi solo la musica che ormai ha più di vent’anni. Che poi, c’è passata pure la nostra generazione, in questo: quante volte i nostri genitori e i nostri fratelli maggiori c’hanno detto che quello che ascoltavamo era solo “robaccia“, e la musica “vera” era quella di vent’anni prima? Proprio qui capisci quanto sia importante il giornalismo musicale: è cronaca del contemporaneo. E la cronaca è importante. Quando fra dieci anni ci guarderemo indietro, sarebbe importante avere un corpo critico consistente che ci spieghi bene cosa era stato il fenomeno della trap lì, in quel momento, quando aveva conquistato all’improvviso il centro della scena anche qui in Italia.
Il giornalismo musicale di cui stiamo parlando si è anche fatto sfuggire l’esplosione dello Stato Sociale, diciamolo pure. Oh, mi metto in prima fila: non vi ho presi sul serio prima del concerto sold out al Paladozza, coi suoi cinquemila paganti.
Mah, non lo so: siamo sempre stati poco “in vista”. Siamo emersi forse proprio nel momento in cui quel piccolo valore aggiunto che poteva darti la critica musicale fatta in un certo modo, quello diciamo più canonico, andava davvero ad estinguersi. Ci ha favorito la rivoluzione digitale, da un lato; e dall’altro il fatto di essere ignorati dalla migliore stampa specializzata – che so, un Blow Up – non era più qualcosa che ti penalizzava, che ti faceva perdere spinta.
Che appunto potrebbe essere la dimostrazione di quanto un Blow Up conti meno di prima.
Le cose non sono così semplici, così lineari: io stesso per primo andavo e vado a vedere dal vivo solo cose “da Blow Up”, e non certo le cose indie o i concerti hip hop. Ora che sto a Roma vado (vabbé, ora con la pandemia in corso è più corretto dire “andavo”…) al Klang a vedere la gente che fa i live noise coi synth modulari, quelle cose lì; noi due tra l’altro le ultime volte che ci siamo incontrati di persone era Club To Club o al Sónar, no? Parrebbe una cosa strana, un controsenso, ma bisogna invece capire che le persone e le cose sono sempre complesse, mai lineari, non ci sono steccati “o di qua, o di là”, “questo vale, questo è una merda”: e questa complessità è una risorsa, non un problema.
Concordo. E capire tutto ciò renderebbe anche tutti molto più rilassati.
Mamma mia! Sarebbe bellissimo, infatti! Poi, andando sul caso più personale: io quando vado a vedere la gente coi synth modulari è come tornare il ragazzino anonimo che andava al Covo a Bologna a vedersi le band indie, con grande gusto. Ora invece se vado a vedere, che so, Frah Quintale, che tra l’altro mi piace pure, se qualcuno mi nota in mezzo al pubblico subito senti che inizia mormorare o anche solo a pensare “Oh, guarda lì quello dello Stato Sociale, chissà che ci fa qui, chissà cosa bolle in pentola”. Ma cosa vuoi che ci faccia qui? Sono qui ad un concerto, coi miei amici, e stop! Non c’è mica per forza altro.
La musica è un mestiere, un’arte “di relazione”. Nasce dalla socialità. Anche solo dall’andare al bar. Se sei blindato in casa o sei Marcel Proust, o è difficile che ti vengano fuori delle idee interessanti
Tanto ora per un po’ di concerti non se ne parla, e non se ne sta parlando già da un anno.
Già, e chi ha fatto uscire dischi nell’anno passato non è che abbia ottenuto chissà quali soddisfazioni.
Vero. Come mai?
Ho una spiegazione, per questo.
Vai.
La musica è un mestiere, un’arte “di relazione”. Nasce dalla socialità. Anche solo dall’andare al bar. Se sei blindato in casa o sei Marcel Proust, o è difficile che ti vengano fuori delle idee interessanti. Infatti io, per l’EP, mi ero dato proprio come ordine il fatto di usare solo materiale precedente all’inizio della pandemia. Il paradosso è che alcuni testi hanno rivelato di essere sinistramente profetici: “2020: Fuga dall’aperitivo” esisteva già da due anni, ben prima insomma dell’arrivo dei lockdown.
Fantastico.
Questa cosa mi ha quasi spaventato! Dal punto di vista musicale, per fare questo mio lavoro solista ce la siamo presa molto comoda. Ed è stata saggia la scelta di lavorare solo su un pugno di canzoni, su un EP insomma, invece che su un album che, ecco, è sempre un po’ un “moloch” da affrontare. Abbiamo proceduto in maniera molto più rilassata. Tanto più che ho lavorato a stretto contatto con due persone che sono prima di tutto amici vero: uno è Matteo Romagnoli (che fa parte anche del nostro management, quindi figurati quanto siamo legati), e l’altro è Stefano Maggiore, con cui sono anni che ci dicevamo “Dobbiamo fare qualcosa assieme, dobbiamo fare qualcosa assieme” e finalmente ci siamo riusciti, sennò veramente andava a finire che ci ritrovavamo in studio solo a parlare di macchine, di strumentazione, visto che poi ognuno aveva i suoi impegni artistici. Sai qual è la cosa più bella di questo mio disco?
Quale?
Che per le parti musicali non siamo partiti dalle mie composizioni. No. Perché io sono lento; e a dirla tutta non sono neppure tutto questo talento. “Fantastico!” è nata da una strumentale dei cLOUDDEAD; altri brani invece sono nati prendendo punto da roba di The Streets, o di James Holden. Prendevo la strumentale, ci andavo sopra e “…vediamo quello che succede”. Che è il mio spirito originario, quando si tratta di musica!
(Il risultato finale dello “spirito originario“; continua sotto)
E roba come cLOUDDEAD, Holden, The Streets so bene essere l’architrave dei tuoi ascolti, ricordandomi di te giornalista. Senti, com’è messa appunto ‘sta scena qua, quella diciamo dell’elettronica / hip hop “intelligente”?
A me sembra sia in forma, però ammetto che non sono più aggiornato come in passato. Prima di farci questa nostra chiacchierata stavo ascoltando il disco di Madlib, un artista che per me è sempre stato un culto… Lo so che stai per dire: è già uscito da un po’, e io lo ascolto solo ora…
Esatto!
Ma è proprio questo il bello! Non scrivendo più di musica, non sono più accompagnato dall’ansia di sentire le cose immediatamente. Ad ogni modo, dicevamo del disco di Madlib: col fatto che c’era pure il coinvolgimento di Four Tet era come ovvio curiosissimo e mah, non so, è un bel disco, ma non mi ha folgorato. Come non mi ha folgorato l’ultimo singolo di Jamie Xx. Per release che però non ti infiammano ne trovi subito altre spettacolari: vogliamo parlare di Kareem Riggins? O dell’ultimo singolo di Ross From Friends? Maledizione, quando l’ho sentito m’è bruciato come non mai il fatto che non si possano fare serate e non possa più andare in giro a fare dj set in cui metterlo! Insomma, stanno uscendo delle belle cose. Ma…
Forse non ci si rende conto che la crescita impetuosa del fenomeno del clubbing negli ultimi vent’anni è stato un miracolo, un’eccezione insomma, e non una scontata ed inevitabile regola. Partendo da questo consapevolezza si arriva a capire che probabilmente è pure fisiologico, un momento di flessione
Ma?
E’ una scena complicata, quella legata più all’elettronica. Non bastano i dischi, non sono sufficienti. Ci vuole la “scena”. Ci vogliono i concerti, i dj set. Molto più che in altre scene musicali. E ora come ora stiamo attraverso una crisi del clubbing e dei club che, attenzione, non è solo italiana, c’è anche in tutto il mondo. Forse non ci si rende conto che la crescita impetuosa del fenomeno del clubbing negli ultimi vent’anni è stato un miracolo, un’eccezione insomma, e non una scontata ed inevitabile regola. Partendo da questo consapevolezza si arriva a capire che probabilmente è pure fisiologico, un momento di flessione. Ma attenzione, come dicevano Fabio De Luca e Luca De Gennaro a Weekendance “C’è sempre voglia di dance”… (risate, NdI)
Io credo comunque che l’avvento della pandemia abbia rimesso in riga molte persone che avevano preso gusto a fare passi molto lunghi, forse più lunghi di quel che si doveva: più lunghi della loro gamba, e della scena italiana in generale
Tra l’altro una cosa interessante di questa esplosione a trecentosessanta gradi del fenomeno del clubbing è che ha generato la concreta possibilità, per molti, di trasformare una propria passione nel proprio lavoro, nel proprio mezzo di sussistenza personale. Stessa cosa che sta accadendo ora con la musica indie italiana. Ecco: quest’ultima cosa, te l’aspettavi? E: come va affrontata?
No. Non me l’aspettavo. Ma da persone che faceva e fa parte dall’interno di questa cosa dell’indie, è ovviamente difficile accorgersi in tempo reale di quanto cambino le cose attorno a te. Il primo momento in cui ho pensato che forse davvero qualcosa di grosso stava succedendo è stato fra il 2016 e il 2018, che è il primo periodo in cui abbiamo rallentato un po’ coi concerti, per nostra scelta. Lì ho visto che iniziavano a venire fuori sempre più act con richieste sempre più esose per quanto riguarda i cachet dal vivo: ecco, quello è il momento in cui ho iniziato a pensare che forse non tutto stava andando per il verso giusto. Sai, quello italiano è un mercato piccolo. Siamo una nazione con sessantacinque milioni di abitanti, non di più, nulla rispetto ad altre che sono egemoni in campo musicale; e per giunta, di questi sessantacinque milioni solo una parte relativamente piccola è realmente appassionata di musica, fruitrice attiva. Belli i tour nei palazzetti coi biglietti a 40 euro, belli: ma una volta che li fai, ammesso e non concesso che sia riuscito a farli, non è che hai rischiato un po’ di bruciarti e bruciare il terreno? Sai, per formazione personale – ma anche per i contesti in cui opero – a me piace sempre ragionare in prospettiva, pensare al medio-lungo periodo. Anche per questo noi ci siamo fatti sì il concerto al Forum, ma con biglietto a 18 euro. Ci abbiamo guadagnato? Certo che no! Siamo andati in pari, pagando tutti il giusto. E’ nata ed è sempre stata pensata come una festa, una celebrazione, un evento unico e non ripetibile, stop. Io credo comunque che l’avvento della pandemia abbia rimesso in riga molte persone che avevano preso gusto a fare passi molto lunghi, forse più lunghi di quel che si doveva: più lunghi della loro gamba, e della scena italiana in generale. Sia chiaro, io ammiro molto il coraggio di chi prova ad alzare il livello, a crescere e migliorarsi; ma dobbiamo tutti renderci conto che da questa pandemia verremo sì fuori, ma verremo fuori quasi tutti molto più poveri – a partire anche dal pubblico che ci segue. Cosa fai? Torni a girare chiedendo i cachet di prima? Io, di sicuro, non lo farò. Come Stato Sociale non lo faremo. Usciremo ad un costo dimezzato, se non addirittura qualcosa di meno. Guadagneremo tutti di meno, comunque continuando a ridistribuire tutto con la nostra crew di tecnici e collaboratori: che è una delle meglio pagate in giro. E non lo dico per vantarmi, eh, è proprio una questione di principio, io non posso guadagnare cento volte di più di quanto guadagna il mio backliner. Sarebbe assurdo. Anche perché io, senza il mio backliner, non potrei fare bene il mio lavoro, sarei perso. Il problema è che in Italia c’è molta pudicizia a parlare di soldi e se operi nel campo della cultura, beh, ce n’è ancora di più: se diventi famoso sei uno stronzo, se sei povero un po’ stronzo lo sei sempre, sì, ma almeno sei un santo. E tutto quello che c’è in mezzo? Non viene nemmeno considerato. Non esiste. Quando invece dovrebbe essere il primo scenario di cui occuparsi, e su cui ragionare.
Sia chiaro, io ammiro molto il coraggio di chi prova ad alzare il livello, a crescere e migliorarsi; ma dobbiamo tutti renderci conto che da questa pandemia verremo sì fuori, ma verremo fuori quasi tutti molto più poveri – a partire anche dal pubblico che ci segue. Cosa fai? Torni a girare chiedendo i cachet di prima? Io, di sicuro, non lo farò. Come Stato Sociale non lo faremo. Usciremo ad un costo dimezzato
Non ti chiedo di fare nomi, ma: quando il mondo indie ha iniziato a mietere numeri da mainstream in qualche caso si è persa un po’ l’anima, sì o no? O, detta in modo meno melodrammatico, si è insomma iniziato ad adottare strategie e dinamiche tipiche del mainstream?
Non so se si è persa l’anima; sicuramente però è arrivata dell’avidità… che magari è andata ad “entrare” nell’anima, chissà. Non voglio essere malizioso, non voglio giudicare, e soprattutto penso di poter dire che non c’è nessuno che volesse il male di qualcosa o di qualcuno, quello no; ma che ci siano state delle ingenuità, è vero. Ad esempio, ci sono stati dei tour che sono stati venduti a peso d’oro e che invece di arricchire chi li organizzava li hanno invece impoveriti, segno che le cose non sono state fatte col giusto equilibrio, ma si è probabilmente puntato un po’ troppo alla massimizzazione dei profitti. Parlavamo di bar, no, di filosofia da bar? Ecco: è come vincere al Superenalotto, ti può capitare, è una figata, ma se poi ti sputtani subito tutta la vincita beh, puoi stare certo che non ci saranno più altre botte di culo. Nel nostro mondo, non devono entrare delle dinamiche da “Wolf of Wall Street”: bisogna lasciarci dentro un po’ di etica invece, e pure un po’ di realismo. Come diceva Mark Fisher: devi capire il tipo di realtà che ti circonda. E io di mio continuo a rompere il cazzo pubblicamente su queste cose, a costo anche di farmi dei nemici, di avere chi sparla di me alle spalle: perché credo che siano temi molto importanti per tutto il nostro sistema.
E’ proprio una questione di principio, io non posso guadagnare cento volte di più di quanto guadagna il mio backliner
Ecco, lo penso anche io, in effetti. Ma siamo noi che siamo in minoranza, a pensare che questi siano temi ineludibili e decisivi? Siamo degli inutili rompicoglioni residuali?
Beh, ne parli con le persone con cui sei più in amicizia, prima di tutto, con cui sai che c’è fiducia reciproca. E’ più facile capirsi. Ma se mai dovessero esserci gli Stati Generali della musica italiana, o di una certa musica che potremmo definire “nostra”, è importante che ci sia una operazione di grande, grande trasparenza. Ti racconto un aneddoto: io, come sai, faccio parte de La Musica Che Gira. Bene, durante una riunione avevo tirato fuori il fatto che erano usciti dei bandi della Siae, “Oh ragazzi, dateci un occhio, è una cosa per autori e musicisti, facile abbiate i requisiti per farne parte”; poco dopo mi è arrivato un messaggio in privato “Oh Bebo, ma pensa, non credevo che tu occupassi di queste cose, che pensassi ai requisiti del bando Siae… Credevo fossi molto di sopra di queste cose, in primis come requisiti”. Capisci?
Eh…
La verità è che puoi fare un successo anche molto buono, come il nostro, ma quando poi i guadagni vanno divisi per sei – noi cinque, più Matteo – e hai comunque molte persone da pagare quello che rimane non è poi così tanto. I nostri cachet però sono sempre stati pubblici: puoi chiederli a chiunque, non sono certo un segreto industriale. Il mio reddito è quello di una persona normale. Non posso certo comprarmi il Porsche, ma ora come ora sono abbastanza tranquillo. E proprio con questa tranquillità, comunque rientravo nei limiti del bando Siae. Ed è giusto spargere la voce, anche per capire che non sempre le istituzioni fanno così schifo e non sempre sei così “invisibile” ai loro occhi. Ma finché c’è tutta questa pudicizia attorno all’argomento soldi, fino a quando nessuno vuole far sapere agli altri quanto guadagna, si perdono molte occasioni e molte possibilità di ripensare intelligentemente alle dinamiche del nostro sistema. Dovremmo imparare dal mondo dell’industria, della grande impresa: lì i bilanci sono pubblici. Di segreto possono esserci i brevetti, ma non i bilanci.
Finché c’è tutta questa pudicizia attorno all’argomento soldi, fino a quando nessuno vuole far sapere agli altri quanto guadagna, si perdono molte occasioni e molte possibilità di ripensare intelligentemente alle dinamiche del nostro sistema
E, come si vede con Confindustria, quando c’è da fare pressione sanno unirsi compatti eccome. Cosa che nel mondo della musica invece…
Già. Con l’aggravante che ci sono persone del nostro mondo – professionisti eccezionali, penso ad esempio a fonici o light designer – che in questo momento sono disperati e sbattono la testa contro il muro, mentre invece il mondo della discografia va avanti tranquillo, programma, crea, fattura bene, va a Sanremo. Ecco, Sanremo è stata una questione delicata. A me piace l’idea di andarci, ed è stato triste vedere in qualche caso ricondurre questa questione a “crumiri versus sindacalizzati”. Perché poi ci vai, a Sanremo, e magari ci vuoi andare proprio per poter rappresentare alcune istanze di fronte ad una platea più ampia, per cui altrimenti non esisteresti. Ma anche quello può essere complicato: perché tu artista ti esponi, e subito dopo senti i commenti “Eh, facile per lui che naviga nell’oro…”. E’ un casino, insomma. Ma vale la pena provare. Vale la pena esporsi. Vale la pena provare a lavorare tutti insieme per mettere ordine in un mondo che, per troppo tempo, è vissuto in maniera completamente deregolamentata, con tutte le storture che ciò comporta. Iniziamo dalle basi, allora. Tipo: iniziamo a capire chi è libero professionista, chi è assunto da una cooperativa, chi è impresa. Già lì c’è da mettere ordine, no? Ripartiamo intanto da questo.
E’ un processo lungo.
Assolutamente.
E che nasce anche da un difetto di fondo: per tantissimo tempo si è pensato, in certi ambiti musicali, che alla fine la musica era solo un hobby, qualcosa di lontano dal mondo degli “adulti”, del mainstream. E invece all’improvviso non è più così.
Scontrarsi con questi processi è difficilissimo. Io lo capisco, sai, il disinteresse per la politica, per certe beghe amministrative e burocratiche; ma arriva un momento in cui tutte queste beghe ti cadono addosso che tu lo voglia o no, e allora devi imparare ad averci a che fare. E quando capisci che ci devi avere a che fare, ti rendi conto che sono faccende lunghissime, eterne, molto complicate. A me questa cosa non fa paura, l’ho messa in conto fin dal giorno uno. Ma questo non vale per tutti. Bisogna avere fiducia – pazienza e fiducia. Io capisco che quando dico ai miei colleghi “Lo so, sono settimane che non vi diamo aggiornamento, settimane che non riusciamo ad interloquire con nessuno del Ministero, ma c’è una crisi di Governo in atto, non è che ci possiamo fare molto…” qualcuno ci resti male, e la compattezza un po’ s’incrini; ma non cadiamo nella trappola di trovare dei colpevoli interni. Non è per forza “colpa di qualcuno”. Certe cose sono lunghe, complesse e faticose che tu lo voglia o meno. Anzi, visto che siamo su Soundwall e so che è un contesto dove puoi anche fare un certo tipo di discorso, fammi dire quale è secondo me il passaggio fondamentale, o comunque uno dei passaggi fondamentali.
Vai.
Secondo me la chiave sarebbe riuscire ad istituire, dentro il Ministero dei Beni Culturali, un Dipartimento di Arte e Cultura Popolare Contemporanea. Quella sarebbe una svolta vera. Noi non siamo uguali al Colosseo, all’Ara Pacis, al mondo dei musei. Non perché siamo meglio o peggio; siamo una cosa diversa. E nell’essere una cosa diversa, dobbiamo avere il coraggio di fare delle cose importanti. Di rottura. Se ci pensi, anche programmare gli hi hat come nella trap è stata una cosa “di rottura”: io per dire di mio, come musicista, non l’avrei mai fatto. Ma c’è qualcuno che ha pensato di farlo, ed è riuscito a fare qualcosa che è entrato nell’immaginario collettivo. Per raggiungere cose importanti, bisogna prendersi dei rischi. Bisogna essere coraggiosi.