Questo è un disco importante, di un importanza che prescinde dal valore stesso dell’opera e valica i confini imposti dai generi.
È importante, ripeto, e lo è per varie ragioni: la prima, banalissima, riguarda la centralità di Ben Frost nelle vicende musicali degli ultimi anni, il suo percorso artistico, la sua capacità di stare costantemente in mezzo alle “cose del suo tempo” pur portando avanti una ricerca sonora personale e distante da tutto ciò che è in voga. Il secondo aspetto riguarda la radicalità di “A U R O R A” inteso come album capace di scegliersi la parte in modo netto e senza compromessi, guardando avanti, o forse di lato. Chiedendo moltissimo all’ascoltatore in termini di attenzione e coinvolgimento, rifiutando da subito il ruolo di sottofondo, dichiarandosi apertamente non per tutti pur non essendo indirizzato a un target preciso. Il terzo punto, forse il più importante, ha a che vedere col conformismo dell’underground perché anche nei territori dove l’avventura e la sperimentazione dovrebbero essere di casa spesso si finisce per adagiarsi su una linea comune, su un trend da seguire fino a poterlo spremere per poi passare ad altro. “A U R O R A” gioca da subito in un altro campionato, è un disco di elettronica, è noise, è ambient, utilizza strumenti e macchine, è il free jazz del presente con un occhio verso il futuro. Segue i precedenti lavori di Frost, di cui rappresenta un’evoluzione chiara ma che passa anche per l’allontanamento da certi territori già battuti. L’oscurità presente in “Theory of the Machines”, le asprezze sonore di “By the Throat”, gli strumenti a corde, i pianoforti e le incursioni sinfoniche di “Sólaris” vengono abbandonate per poi confluire in un magma sonoro dai tratti molteplici e definiti nella sua stessa assenza di definizione. Al solito l’australiano di casa in Islanda si è circondato di collaboratori fidati e musicisti che, già solo in virtù delle loro esperienze passate o parallele, rappresentano bene l’idea di un suono unico e al tempo stesso globale che Frost vuole sviluppare: Thor Harris, percussionista di lusso, ben noto per la sua militanza recente negli Swans (di cui Frost può essere considerato un fiancheggiatore), l’ex batterista dei Liturgy, Greg Fox, e Shazad Ismaily, polistrumentista, già con Carla Bozulich/Evangelista e Bonnie Prince Billy. Tre spiriti affini, che arrivano da storie musicali simili ma pure molto diverse, perfetti per incidere su nastro le policromie tipiche della musica di Ben Frost, la cui estetica emerge potentissima in brani cone Nolan, quella che normalmente verrebbe definita come una cavalcata, e nel gran finale di Sola Fight e A Single Point of Blinding Light dove Tim Hecker viene preso di peso e trasportato all’interno di un rave in cui è impossibile ballare e conta solo lasciarsi investire dal suono.
“A U R O R A” è un disco importante, dicevamo, perché ha dalla sua la statura del classico capace di resistere all’usura del tempo e indicare una via, soprattutto in un momento storico in cui buona parte di quella strana bestia che chiamiamo “musica elettronica” ha messo da parte il coraggio finendo quasi sempre per scegliere sentieri confortevoli e scontati.