Parlare con Ben Frost è esattamente come ascoltare la sua musica: un’esperienza intensa, bellissima e mai banale. Ecco perché quando NeXTones ci ha proposto di scambiare un po’ di battute col musicista australiano (ma trapiantato prima in Islanda e ora a Berlino) abbiamo accettato subito, anche se eravamo ancora abbastanza freschi di una lunga session telefonica che era seguita all’uscita del suo ultimo lavoro, quel “The Centre Cannot Hold” sorprendentemente prodotto da Steve Albini (una leggenda del punk rock, e uno che con la musica elettronica non ha mai avuto un rapporto particolarmente amichevole ed intenso, tanto per usare un eufemismo). L’argomento-Albini qua è solo stato sfiorato, in realtà la conversazione fin dall’inizio ha preso pieghe molto diverse. Ma anche molto, molto significative. Citazioni sorprendenti di dischi country comprese.
Ben ritrovato, Ben! Ci eravamo sentiti ancora qualche mese fa, per un’altra intervista, e mi raccontavi quanto era stata intensa l’esperienza con Richard Mosse, in un progetto multimediale incentrato sul tema dell’immigrazione clandestina. Un tema che, soprattutto in Italia in questi tempi, è più attuale che mai, nel bene e nel male, visto che abbiamo una nuova compagine governativa che pare orientata alla linea dura per quanto riguarda la loro accoglienza. Come ti sembra che si stia sviluppando la sensibilità collettiva attorno a questo tema? Qua in Europa finiremo con l’avere una linea australiana – tu tra l’altro sei proprio australiano di origine – ovvero quello di una nazione che è severissima nelle sue politiche contro ogni forma di immigrazione illegale, fino alla licenza di sparare?
Quando tempo fa avevo visto “I figli degli uomini”, un cupissimo film distopico di Alfonso Cuarón dove appunto si immaginavano politiche feroci contro l’immigrazione, mi sembrava tutto molto implausibile, lontano dalla realtà; beh, dopo le immagini arrivate dal confine tra Texas e Messico a seguito delle ultime decisioni dell’amministrazione americana, coi bambini imprigionati, ho cambiato abbastanza idea… Immagini che avevo visto l’ultima volta mentre ero seduto felice in un parco di Berlino, l’altro ieri, rilassatissimo: mio figlio che corre in giro tutto contento e spensierato, la gente attorno svaccata che si fa le canne o suona qualche strumento. Capisci il contrasto? Non lo so, stiamo veramente vivendo in una fase in cui, nella nostra vita, entrano i contrasti più estremi. E fatichiamo qualche volta a rendercene conto. Ma venendo più nello specifico alla questione sulle politiche australiane, che sì, sono esattamente come dici tu, e sì, io sono australiano: è ovviamente un argomento molto complesso per me, non mi nascondo. Io alla mia nazione d’origine sono legatissimo: non c’è nessun posto al mondo che dia più serenità ai miei sensi, o comunque mi faccia più sentire a casa, di quando in Australia mi sveglio alla luce dell’alba col canto degli uccelli a fare da colonna sonora. Ok. Ma non posso più abbandonarmi solo a questi pensieri molto semplici, molto infantili, sarebbe troppo facile e superficiale. Ora che sono un essere adulto e consapevole, devo rendermi conto che per anni e anni a scuola nella mia terra mi hanno indottrinato presentandomi una versione edulcorata della storia. Una storia che non mette in conto che l’Australia, così come la conosco io, è una nazione che nasce da un genocidio, e la storia e la vita che è stata offerta a me è stata in realtà sottratta in origine a qualcuno altro – agli aborigeni. Certo, la storia e la vita che mi ha offerto è stata piena di cose splendide, di contatto con la natura, di civiltà, ma questo peccato originario da un certo momento in avanti ha iniziato ad avere un posto preciso nella mia coscienza e nelle mie consapevolezze… ed è forse da lì che nasce il mio continuo senso di inquietudine, qualcosa che molto probabilmente influenza in modo tangibile anche la mia produzione artistica. Ma sarò sincero: se parlo con un europeo, faccio fatica a spiegare la complessità di tutte queste emozioni. Le condizioni che l’Australia impone agli immigrati illegali sono terrificanti, assolutamente; e che ora ci sia una parte dell’Europa che applauda a queste politiche e che guardi ad esse con invidia, come ad un esempio da imitare, è per me terribile. Qualcosa che mi fa vergognare. Io voglio tirarmene fuori. Per me è come un incubo. La retorica imperante del populismo vuole convincerci che siamo invasi, sopraffatti, anzi, per usare un’espressione di Trump “infestati”: e la gente ci casca. Guarda, lo vedo nella mia stessa famiglia, la parte che è rimasta a vivere lì, che casca nelle cazzate allarmiste che si trovano su Facebook e che beve tutta la propaganda dei giornali sensazionalistici di Murdoch, perdendo tra l’altro così di vista i problemi che rischiano di cambiare la vita nella nazione australiana per davvero, come il progressivo ritirarsi della barriera corallina o il gap sempre in aumento nelle aspettative di vita tra australiani di ceppo anglosassone ed aborigeni. Perché vedi, stiamo perdendo di vista tutto ciò che è naturale, umano… Anche nell’affrontare il problema dell’immigrazione: è nella natura dell’uomo muoversi, spostarsi da una zona all’altra del pianeta terra, no? Ma oltre a questo, andiamo dritti al punto: non ci vuole un genio per capire che nessuno mette la propria vita a rischio attraversando il Mediterraneo su una imbarcazione di fortuna se non è proprio disperato, se non è rimasto senza altre opzioni, se non ha più nulla da perdere.
Ma quanto è giusto che una forte sensibilità e consapevolezza politica entri nella propria arte, nell’arte che si produce?
E’ difficile da dire. Da un lato mi viene da constatare che, quasi sempre, quando l’arte si è messa al servizio del messaggio politico i risultati sono stati abbastanza deludenti. Ma è anche vero, guardando sempre all’Australia, che ha fatto più per la causa dei diritti degli aborigeni una band come i Midnight Oil che qualsiasi politico nel nostro parlamento. E allora il dubbio viene.
Invece, andando più nello specifico visto che questa chiacchierata nasce dopo la tua splendida esibizione a NeXTones, fino a che punto gli spazi fisici entrano come effetto e come influenza in quello che crei? Qui hai suonato in un luogo incredibile, una gigantesca cava di granito…
Le caratteristiche delle venue che ospitano i miei set mi influenzano eccome; anzi, vorrei che mi influenzassero molto di meno, perché talora diventano un fattore perfino troppo ingombrante, un surplus difficile da gestire. Credimi: spesso mi dico “Vorrei che non me ne fregasse nulla”. E invece… invece, il modo in cui il suono si muove, in cui i colori mi circondano, in cui gli spazi delimitano il perimetro sonoro di quello che produco entrano sempre, davvero sempre, nei miei live, sono un fattore ineludibile.
Senti, è possibile creare un fil rouge che metta in connessione tutti i tuoi lavori usciti finora, in una discografia come la tua che è ormai ricchissima? C’è stata insomma una precisa evoluzione sonora, nel tuo percorso?
Dubito sia possibile individuare a prima vista un fil rouge chiaro e riconoscibile. Ma in realtà c’è: ed è quello per cui ogni album è stato il tentativo – assolutamente non riuscito – di fare qualcosa di completamente diverso rispetto alla release precedente.
Nei tuoi live usi laptop e sfotware vari, a partire da Ableton: insomma, il classico set up che usano anche gli artisti legati esplicitamente ai mondi più da dancefloor, techno, house e dintorni. Musicalmente parlando, quello è un contesto che comunque segui e ti interessa?
Io di mio cerco sempre di ascoltare molta musica, con generi diversi fra loro, ma la cosa interessante è che comunque ci sono artisti con cui qualche modo scatta subito una connessione – sarà per il loro approccio, non so – ed è qualcosa che va al di là del genere musicale che fanno. Un esempio in tal senso è Jon Hopkins, che adoro. Nel suo caso, come in altri, devo comunque dire che non mi pongo praticamente mai il problema di quale strumentazione usino, non mi metto a cercare informazioni in tal senso. E’ più questione di come gestiscono gli “spazi”, di come organizzano geometricamente i suoni: Hopkins, appunto, in questo è magistrale. Amplia e comprime gli spazi, con la sua musica, in un modo incredibile… o che almeno a me suona davvero incredibile, seducente. Quando mi è capitato di incontrare lui o altri artisti che stimo, ho avuto l’impressione che queste nostre sensibilità estetiche comuni arrivino da contesti che vanno ben oltre la nostra semplice tecnica compositiva da musicisti, il modo in cui lavoriamo, gli strumenti che usiamo: il vero fulcro sta nel modo in cui facciamo nascere e gestiamo le emozioni, oltre naturalmente al background personale e al carattere. Per dirti: con uno come Eno lavorare assieme sulla musica è stato un mezzo disastro, ma passeremmo ore su ore e parlare assieme, senza fermarci mai. Anche a mangiare assieme – entrambi infatti abbiamo il piacere del buon cibo.
Comunque, quali sono i dischi altrui che sono stati una grande influenza per te?
Beh, “Wrecking Ball” di Emmylou Harris credo sia il disco da ascoltare più di chiunque altro, per capire l’ultimo mio “The Centre Cannot Hold”: è stato concepito e realizzato in un modo molto simile. Albini, senza saperlo, aveva già rivoluzionato il mio approccio verso la musica già un po’ di volte, prima che iniziassimo a lavorare assieme. Pensa all’apertura pazzesca, in primis dal punto di vista delle dinamiche, di “Rid OF Me” di PJ Harvey, per non parlare di quei dischi dei Whitehouse, che nessuno colpevolmente cita mai. Insomma, se uno ascolta quelle cose capisce che, in fondo, non c’è nulla di strano che abbia accettato di lavorare con me. Senza contare, tanto per farti un altro esempio, che solo di recente ho scoperto che era stato lui a registrare un po’ di batterie per “The Fragile”… beh, una volta che lo sai ti viene subito dire “Ma cazzo, certo che l’ha fatto!”.
Le tue ultime uscite discografiche sono state fatta attraverso una label leggendaria come la Mute. Di tutto l’incredibile catalogo della label, c’è qualcuno che è stato importante negli anni per la tua formazione musicale?
Beh, visto che siamo entrambi due australiani migranti, dovrei dire Nick Cave. Daniel (Miller, il boss della Mute, NdI) più volte scherzando ha detto che ha passato più di metà della sua vita circondato da australiani: io sto facendo del mio meglio per continuare questa tradizione, dicendo un sacco di parolacce e svaligiando regolarmente il suo armadietto degli alcolici ogni volta che ha la cattiva idea di invitarmi a casa sua.