Con la rivoluzione del nu-dubstep in pieno atto, la cosa più interessante è osservare oggi gli anziani del filone e i loro intenti più o meno autorevoli di far breccia in un panorama completamente nuovo: c’è chi ha continuato a mantenere una propria durezza originaria ma sempre attuale (Caspa), chi ha annunciato una rivisitazione dell’old school alla luce delle novità (salvo poi restare indietro almeno di 5 anni, Plastician), chi ha mandato tutto a quel paese e s’è messo a fare house e disco (Skream) e chi s’è divertito a mischiare le cose con una nuova passione come il footwork (Kode9). E poi c’è Benga, uno personalmente convinto che la dimensione del suo nome possa permettersi qualsiasi svolta estetica senza che il seguito o la critica sollevi dubbi, quindi deciso – in maniera anche abbastanza sfrontata – a sposare fino in fondo i meccanismi del nuovo che avanza. Che non significa semplicemente l’aggressività dei drop (cosa tutto sommato prevedibile, visto che l’afro-warrior di Croydon certe spinte sul wobble se le concedeva anche prima di 26 Basslines) ma una più generale affinità con le spavalderie EDM radiofoniche che l’hanno recentemente fatto avvicinare agli ambienti OWSLA. Tanto se qualcuno non capirà, significa che è vecchio, no?
No. C’è differenza tra l’entusiasmo giovane che porta freschezza e il furbetto di quartiere a cui interessa solo alzare i toni, e Benga non fa molto per evitare di cadere nella seconda categoria. Questo “Chapter II” ha poco a che fare con prese di posizioni autorevoli e suona invece più come una vetrinetta domestica di suoni di facciata, che riepiloga su superfici di plastica tutti gli stilemi già noti del nuovo sound: l’elettronica dei drop (“Yellow”), la mascolinità rappusa del grime (“High Speed”), i 140 bpm di electro house (“Getting 42”) e la collezione completa di umori pop mainstream che vanno dalle ruffianerie dnb (“Higher”) ai nuovi volti del dubstep da Mtv (“Smile”, “Warzone”, “Waiting”). Tutto materiale che poteva suonare spiazzante e coraggioso ai tempi di Magnetic Man e Katy B ma che oggi è solo blando riciclo, ed è inevitabile ripensare ai singoli usciti nei mesi precedenti, “I Will Never Change”, “To Hell And Back” e “Forefather”, fatti di una natura più genuina e conservatrice, che avevano generato un certo ottimismo tra i fan irriducibili. Chi insinua che in questa scelta strategica ci sia anche un po’ di imbarazzo verso il pubblico storico farà anche peccato, ma magari ci azzecca, resta il fatto che a quest’album manca l’energia tipica dei prodotti ispirati: qualcosa di impossibile da replicare in un puzzle pensato a tavolino sulla base delle mode del momento. Qualsiasi nome porti.