Se in questo momento siete sotto l’ombrellone, davanti al mare, se siete in ufficio e state sudando desiderando le ferie, se avete voglia di estate e di calore, non leggete quanto segue. Cliccate su Chiudi, compratevi un bombolone e mangiatevelo sulla battigia, andate al largo e poi fatevi salvare dal bagnino. Se desiderate comprendere cosa è stato il Berlin Atonal 2013, sappiate che le percezioni più comuni che riporterò saranno oscurità, profondità, rumori analogici, buio, cemento, freddo. E perfezione.
Il Berlin Atonal è tornato dopo un sonno durato più di vent’anni e ha vinto, gli errori (se proprio vogliamo considerarli tali) si contano sulle dita di una mano. Un festival di altissimo livello, dove ogni cosa è stata calibrata secondo le logiche della cultura e non dello show business, una cosa completamente diversa, seppur, ultimamente, molto più in voga. Ad ogni modo, come diceva quel tale, andiamo con ordine e cominciamo la marcia.
Il Kraftwerk Berlin è uno dei colossi dell’industrializzazione tedesca, la centrale elettrica che ha fornito energia alla Berlino Est fino al 1997. Rimasta chiusa e abbandonata per dieci anni, Dimitri Hegemann, fondatore anche del festival, ne riapre una parte trasformandola in un club, il Tresor, per poi, qualche anno dopo, estendersi per altri 8.000 mq2 come luogo d’arte; il Kraftwerk, per l’appunto.
Entro nel giardino attraverso un grosso cancello, l’insegna del Tresor alla mia sinistra e una porticina di metallo arrugginito davanti ai miei occhi. La sicurezza mi fa passare ed io smetto di vedere. Ci vogliono diversi minuti prima che mi abitui all’oscurità di quel luogo. Dentro c’è fresco, in netto contrasto con la temperatura insolitamente afosa di queste giornate berlinesi. C’è quel particolare odore di qualcosa che è stato abbandonato, ma che non si è disgregato, è rimasto lì, ad aspettare che qualcuno rientrasse a respirarci la vita. Penso che il Kraftwerk sia un luogo magnifico, è una cattedrale che ha cacciato il suo dio, conservando solo il silenzio e la sensazione di essere così piccoli e troppo, troppo rumorosi. I live non sono ancora iniziati ed io passeggio, tra la poca gente, ascoltando l’eco provocato dai nostri passi che rimbalza sul cemento armato e sul ferro, illuminato fievolmente da discreti neon blu e rossi. Penso che, un tempo, questo posto, forniva energia alla città, illuminava le case e le strade. Riscaldava l’inverno, mentre ora sta raffreddando la mia estate, calmandola, come il bacio di una sirena di metallo. Ci sono delle installazioni nei sotterranei, l’inserviente mi chiede se possiedo una torcia e presto capisco perché; attraverso i condotti e le piccole stanze che fungevano, molto probabilmente, da spogliatoi, c’è il buio. Alcune strobo si accendono a intermittenza lungo i corridoi, stridendo di raggelanti rumori di fondo. E’ un film horror.
Apre il festival Frieder Butzmann, una sorta di guru filosofo tedesco, gioca con le parole come se fossero suoni e rumori, reading in un tedesco perfetto, quasi liquido, a dispetto della rigidità di una lingua tanto fredda, quanto filosofica. Poi sale sul palco Glenn Branca con il suo Ensemble. Branca è un uomo bizzarro e difficile, un direttore d’orchestra curvo dentro una larga camicia nera, i rossi occhiali da vista sulla punta del naso. Si muove come se fosse una creatura primordiale, sembra scoordinato mentre dirige i suoi ragazzi in quello che è un viaggio nel suono-rumore e nelle origini della new wave, invece ha un’energia travolgente e, paradossalmente, una grazia da ballerina. Per quasi un’ora, mi sembra di essere nel Medioevo del “Jabberwocky” di Terry Gilliam, forse perché è un live grottesco, a tratti da favola nera, ove nella semplicità di un suono trasformato in rumore, puoi trovare la perfezione. La rigidità delle regole orchestrali è smorzata dalle mossette scherzose dei musicisti e dallo stesso Branca, che goffo si arrabbia perché gli cade il leggio o perché non sente la batteria nella spia, cercando l’approvazione di un pubblico divertito.
E’ tempo di Roly Porter. E’ tempo di decretare il vincitore a posteriori. Se c’è una classifica del Berlin Atonal 2013, lui ha vinto il campionato, quantomeno per il sottoscritto. L’ex Vex’d si presenta accompagnato dagli MFO alla parte visuale, il suo è un live di una potenza senza eguali, i suoni che genera sono delle lande invernali, sono il dolore di guance che si graffiano nell’inverno gelido dell’Alaska. Sono un lupo che non ulula, ma è sempre dietro di te e, ciclicamente, lascia che il suo fiato si posi sul tuo collo. Ma sono anche l’autunno in un bosco, il giallo delle foglie cadute e un ruscello che potresti bloccare con una manciata di terra, ma che lascerai lì, a scorrere. Il live di Porter è un ciclo continuo di armonie malinconiche e taglienti staffilate che dividono a metà ogni cosa, fisica e spirituale, è un viaggio che ti strappa dalla terra, è un labirinto, con una partenza e un arrivo, ma senza tempo né orientamento. Se gli orologi non esistessero, non saprei dirti quanto tempo è passato. Un secondo, un’ora, un’eternità. Detto tecnicamente, Roly Porter ha suonato dark ambient macchiata da droni, ma è riduttivo. Credetemi.
Chiudono la prima giornata Paul Jebanasam ed Eric Holm, il primo è stato totalmente ucciso dal live di Porter, anche se, in ogni caso, con tutto il mio rispetto. Il povero Holm, invece, è stato annientato dall’aftershow organizzato da Electronic Beats in altra sede. Io mi sono imposto di restare, almeno per altri dieci minuti. Poi ho mollato.
Per la seconda serata l’organizzazione decide di togliere anche le poche luci che durante la prima mi avevano permesso di arrivare in qualche modo alla zona palco. La vista impiega ancora più tempo ad abituarsi al buio (non scherzo) e dunque tentenno una camminata fantozziana salendo le scale che conducono allo stage.
Jon Hassell suona le pieghe sul liscio. E’ quello che penso dopo venti minuti di concerto. Lui non è soltanto un trombettista e un compositore, Hassell è uno di quelli che dona forme al suono e le lascia sospese a mezz’aria, come ologrammi cui puoi passarci attraverso, ma non toccare. La sua musica è balearica, mi sembra di essere da solo dentro una barca a remi al centro del Triangolo delle Bermuda, a immaginare quanto tempo impiegherei ad arrivare sul fondo di quel cratere senza fine, e cosa ci troverei in quel buio sconosciuto. Le sue composizioni sono difficilissime ma semplici, che quasi scompaiono come fantasmi del jazz, in un locale fumoso di Memphis, la sua città natale. Quando mi risveglio da quel sogno magnifico, la gente applaude ed io sono appoggiato contro una delle casse a metà sala, a cercare di prendermi ogni cosa di quel suono.
Juan Atkins e Moritz Von Oswald sono l’accoppiata vincente a prescindere, chi conosce anche solo per sentito dire i due signori che si presentano sul palco lentamente, quasi arrancando, sa di cosa sto parlando. Atkins è il creatore ufficioso della techno Detroit, Von Oswald è l’eroe nazionale in Germania; Resident del Tresor, natio berlinese, insomma una sorta di Santo da queste parti. Quello che fanno per guadagnarsi la pagnotta è suonare per un’ora tutta una serie di macchine analogiche e digitali, farne uscire dei suoni vecchi ma messi quasi al posto giusto, condire con un po’ di serietà musicale, e il pubblico è in delirio. A mio parere niente di speciale, ma la gente che si porta verso il palco con i vinili in una mano e i pennarelli nell’altra, credo di comprenderla, almeno un po’. Vorrei dire loro: correte, che Atkins ormai non riesce nemmeno più a camminare, ma non lo faccio e aspetto il prossimo.
Il prossimo è Vladislav Delay, suona potente, notevolmente più sperimentale dell’ultima volta che l’ho sentito, qualche mese fa, a Milano. Suona una glitch trascinante, spezzata come un puzzle da ricomporre, dove la linea comune sono melodie sotterranee, complicate come un intrigo politico, ma allo stesso tempo soffici come una favola raccontata dal nonno. Bravo.
Kanding Ray è una sorpresa. Ovvero, le produzioni dell’uomo calvo della Stroboscopic Artefacts le conosco bene, ma mai mi sarei immaginato un live di tale potenza e precisione. Tutto al posto giusto: la techno, la dub, l’oscurità e la profondità delle tenebre di cui si cinge. E’ una dissolvenza che si apre e si chiude, a intermittenze regolari. Per la prima volta da quando è iniziato il festival, io ballo con la testa e con i piedi.
Il sabato è il giorno degli italiani. In line up i nostrani Grün, Dadub e Voices From The Lake, insieme al messicano Murcof, accompagnato dai visuals di Simon Geilfuls, membro del collettivo Antivj. Attacca Grün e scalda il pubblico con un live che non ha niente d’italiano (nel senso buono del termine), niente cambi fatti apposta per gasare, niente giri inutili volti a caricare, ma con un buon impatto sonoro, oltretutto suonato in analogica. I Dadub, lo ripeterò sempre, li dobbiamo rispettare e supportare. Suonano bene, davvero bene. Il set parte che mi sembra di sentire i Death in Vegas in versione omicida, poi girano sparando cannonate dubtechno che piegano lo sterno. Bravi. Murcof e Simon Geilfus. Impiegano mezz’ora a preparare il palco consigliando ai presenti di visionare lo speciale spettacolo stando seduti a terra. Insomma, è un’installazione live di proiezioni rielaborate tridimensionalmente, in cui Murcof spiega, con la musica, il suo concetto di cosmo, d’infinito e di vuoto. Forme geometriche complesse si spiegano sulle nostre teste, sciogliendosi con i soundscapes del messicano, universi in movimento lasciano alla nostra immaginazione il pensiero di essere in volo verso altre galassie. Un live che, se solo a tratti è stato musicalmente di alto livello, non ha peccato di nulla a livello visuale. Chiude il duo romano Voices From The Lake, e come già mi era capitato in passato, un’altra performance di altissimo livello, senza sbavature, di una techno fatta apposta per stare seduti in riva al lago, di notte, ad ascoltare le voci che ne affiorano.
Nel giorno del Signore c’è la tirata, s’inizia alle due del pomeriggio. Fuori c’è il sole e l’afa, naturalmente, dentro il buio e il fresco, come sempre. Tanti act (la maggior parte presentati da Contort) ma ho una parola per tutti: Lower Order Etichs, cicciotella e dolcissima, si presenta sul palco con una bottiglia di rosso e un calice, attacca con la violenza, finisce la violenza, saluta tutti timidissima e leva le tende. Rashad Becker, prodotto di Raster-Noton, usa le macchine analogiche come un professionista, ne ricava suoni meravigliosamente glaciali, forse senza finalità, ma coinvolgenti. Positive Centre c’entra l’obiettivo come Robin Hood centra il bersaglio. Un live perfetto. Grischa Lichtemberger, altra giovane perla della scuderia di Noto, è bravo e lo spiega benissimo a tutti, ma è troppo rigido su degli schemi pre-impostati da gente che non citerò, ma che ha fatto la storia di una cosa che è morta, soprattutto perché loro stessi hanno deciso di lasciarla morire. Zan Lyons, con il suo live di violino e visuals interattive: se, invece che suonare un’ora, avesse suonato la metà del tempo, io avrei evitato di pensare al suicidio. Russell Haswell, nonostante io sia la voce fuori dal coro rispetto alla maggior parte delle persone che erano con me durante il suo set, non ha fatto altro che irritarmi, utilizzando filtri analogici giusto per provocare rumori senza senso e senza una direzione, che io non disprezzo quando qualcuno decide di essere concettuale, però anche il concettuale deve avere un senso e, in questo caso specifico, non solo per te, bensì per tutti quelli che hai davanti. Ancient Methods è uno di quelli che è destinato a diventare qualcuno, un fenomeno a livello di produzioni, però pecca d’inesperienza durante i live, non c’è stato un filo conduttore, seppur sottile, che unisse una traccia all’altra a completare il set. Samuel Kerridge, trascinante e violento. Un tornado di rumori perfetti. Senza dubbio una delle migliori cose sentite durante la giornata. Violetshaped subiscono la line up poco adatta al loro sound e preparano, forse, un set difficile, troppo techno e troppi bpm, gestiscono male i volumi. Un peccato. Sentire i Raime subito dopo il live dei Violetshaped è difficile per tutti. Solito viaggio, solite visuals, ma con altri input da parte del pubblico, che sonnecchia, fino a quando non sale sul palco Cut Hands, il miglior act della giornata, secondo solo a Roly Porter nella mia classifica personale. Devastante, anche se le visuals autoprodotte (parte importante del suo live) sono svogliate rispetto ai viaggi psichedelici che furono. Lui è in buona vena, si sbatte davanti al suo laptop, si slaccia la camicia rimanendo a petto nudo e venera dei di cui non abbiamo conoscenza. Trascinante. Le mie ginocchia si muovono da sole, come se avessero vita propria, come se la magia del voodoo fosse dentro di me, a scuotermi il sangue e a rendermi un vulcano.
Chiude Vatican Shadow, un altro producer fenomenale, ma incapace di suonare dal vivo. Preferisce saltare come una scimmia davanti ad un pubblico per metà arrabbiato e per l’altra metà teneramente divertito dalle sue condizioni mentali critiche, piuttosto che mixare le tracce, non dico suonarle, ma quantomeno evitare di distruggere l’impianto usando solo il volume master. Una vera delusione.
Un giorno di riposo in cui metto il ghiaccio sulle orecchie e poi di nuovo nell’oscurità profumata di cemento e fumo sintetico del Kraftwerk Berlin. E’ il giorno di Actress, il giorno in cui tutti si stanno chiedendo con quale umore salirà sul palco, perché è proprio quello che determinerà il suo live. L’umore. Parte Anstam seguito da Kassen Mosse, entrambi uniscono alla techno i suoni più step che dub, il primo è riflessivo e serioso, il secondo un giocherellone, si presenta con occhiali da sole e microfono, tenta di far ballare, proclamandosi il prodotto più “commerciale” fino ad ora ascoltato, perché non appena è il turno di Francesco Tristano, Mosse perde lo scettro. Il ragazzo di Lussemburgo è accompagnato da un amico alle macchine, lui si accontenta di una tastiera, invece che del pianoforte a coda che ha contraddistinto molti dei suoi live. Tristano è uno degli errori dell’organizzazione di questa edizioni del Berlin Atonal. Il suo live non ha nessun significato all’interno della rassegna, è un Piano Bar con la cassa dritta. Io non metto in dubbio che il giovane spagnolo sia un musicista e nemmeno che abbia talento, solo non capisco perché sprecarlo in questo modo.
Actress sale sul palco, si mette davanti al laptop, i primi cinque minuti sono di suoni soffusi che lentamente si schiariscono. Molto lentamente. Poi si apre e il set sboccia nel genio maledetto del ragazzo inglese. Actress è un anarchico del suono, se ne frega delle regole del dancefloor o dell’ascolto live, lui suona il suo viaggio e se tu ci sei dentro non è importante, fai solo parte di quella cosa, come può far parte una qualsiasi altra cosa secondaria nel ciclo della vita. Un passaggio meraviglioso nel suo trip.
L’ultimo giorno di Berlin Atonal si fanno le cose leggere, ci si schiarisce le idee per poi tornare alle nostre cose, finita la vacanza. Il primo a suonare è Z’ev, con i suoi tipici droni composti suonando tamburi di metallo e una grancassa amplificata, poi è il turno del polacco Jacaszek, suona la sua ambient triste e malinconica, accompagnato da un vari tipi di clarinetti e da un cembalo ed io un poco lo amo, perché lui è un triste, è uno di quelli che fa la musica per farti piangere o per farti riflette. Suona la ninna nanna che ti farà addormentare con i dubbi. Tutt’altra pasta la Brandt Brauer Frick Ensemble, che si presenta al gran completo. L’unica nota di colore di tutto il Berlin Atonal 2013. Bravissimi, rigirano il Kraftwerk Berlin e lo trasformano in una strada soleggiata dei sobborghi americani oppure in un inseguimento tra Franco Nero e il Gobbo Milian, strizzando l’occhio al poliziottesco italiano, al funky, ma soprattutto al minimalismo, in molte delle sue sfaccettature.
Quando esco è buio, ma fa caldo, leggo che Deadbeat suonerà all’Aftershow di chiusurà e tirando un sospiro, mi dico: Ok Mattia, soltanto altri dieci minuti, poi imponiti di andare a casa e Fine.