Tempelhof è un parco, uno dei più grandi di Berlino, ma non lo è sempre stato, fino al 2008 era un aeroporto. Qui nasce la Lufthansa, fondata nel 1926, per intenderci, questo è quello che chiamavano il City-Airport, l’aeroporto cittadino. Ora, come si è detto, Tempelhof è un parco, dove d’estate i berlinesi si divertono a correre, andare di longboard e a far volare decine di acquiloni, su quelle che erano le piste d’atterraggio. E’ anche qualcos’altro però.
Oltre ad essere un simbolo di libertà per i berlinesi, Tempelhof è anche una delle maggiori location per concerti, meeting e congressi della città, polo attrattivo di cultura, economia e marketing. Così arriviamo al punto: BERLIN FESTIVAL 2013. Due giorni di musica di spessore, con artisti di altissimo livello, alcuni dei quali non capita di vedere spesso, gli hangar aperti per lasciare spazio a quattro palchi e un main stage sulla pista di decollo, dancefloor sparsi un po’ ovunque e aftershow con gente del calibro di Justice, Boys Noize e Miss Kittin.
L’allestimento ricorda un luna park, un piccolo aereo 575 è parcheggiato nel fulcro del Festival, campeggia in quel luogo da molti anni, come una statua di un sovrano, ma stasera quel simbolo ha un altro effetto. Quasi psichedelico. Il giorno uno è tutto per i Blur, il giorno due sarà per Bjork. Con due act di quel genere scritti a cubitali sul tabellone e altri di cui parleremo, certo non si può dire che il prezzo del biglietto sia troppo alto, in ogni caso qualcuno si lamenta, forse perché ormai, da queste parti, fa figo puntare il dito sul costo di ogni cosa, assodato che Berlino non è più la città santa del risparmio. Quando salgono sul main stage i Pet Shop Boys, per chi scrive questo articolo è un po’ come tornare indietro negli anni, sentire cantare Neil Tennant con quella sua inconfondibile voce è quasi malinconico, vedere ragazzi di appena vent’anni seguire a memoria testi datati anni ottanta è addirittura commovente, oserei dire troppo. Forse quel tempo è finito, anche se nella realtà dei fatti alcune cose non finiscono mai, anche se forse i Pet Shop Boys fanno parte di una storia che rimarrà sempre aperta, come le leggende, anche se chi scrive, con nemmeno troppo rammarico, dopo mezz’ora decide per i Tomahawk.
Mike Patton e soci si presentano sul palco gestito da Pitchfork davanti ad un pubblico eterogeneo e, per chi conosce il gruppo, non è nemmeno così strano. Il primo sguardo va dritto a John Stainer (anche e soprattutto il batterista dei Battles) mentre si accomoda alla batteria, con quei piatti altissimi che fanno sempre un po’ ridere, poi Patton, vestito come un pescatore di Positano, ma con una camicia bianca e una coppola. E’ un’ora di puro delirio ed estrema bravura, dove tutto è calibrato secondo strutture che noi umani, probabilmente, non comprenderemo mai. Patton si destreggia con quella sua voce imprendibile, toccando ogni punto possibile e facendo il cazzone, come al solito. Indimenticabile il siparietto in cui domanda al pubblico, con un fare fintofurioso: Volete sentire i Pet Shop Boys? Andatevene, sono di là! Per poi attaccare a cantare uno dei brani più famosi del duo, scimmiottandolo, il gruppo lo segue accennando un 4/4 sbilenco. Chiude il concerto con due minuti di velocissimo hardcore punk, spezzato improvvisamente da un classic country americano. Immensi.
I Blur sono un’altra emozione, è chiaro. Ascoltare dal vivo Beetlebum, Girls and Boys e Song 2 è qualcosa, come già detto in precedenza, che non capita tutti i giorni, è come se il brit-pop, in tutta la sua essenza, si fosse sciolto sulle teste delle migliaia di persone che compongono il pubblico, è come prendere la Delorean e tornare indietro di quindici-vent’anni. Trovarsi davanti Albarn e soci, vestiti come se non siano più in contatto con la civiltà dagli anni ottanta ad oggi, con quel taglio di capelli che ha fatto il giro almeno quattro volte nella storia delle tendenze, è estasiante. Gli applausi, sul finale, sono come uno scroscio di pioggia torrenziale, bagnano tutti e la Delorean riporta nel presente i pensieri. Si chiude la giornata con il live di John Talabot, che si fa accompagnare dallo spagnolo Pional, suo stretto collaboratore ormai da diversi anni. Ci si muove lenti, su note liquide dettate da batterie elettroniche e melodie eteree, poi le ginocchia vengono spezzate da tipici passaggi in stile Border Community, per tornare a stendersi sulle nuvole di un’elettronica concettuale. Occhi chiusi, buio e orecchie aperte.
Il secondo giorno, il sole si soffia sulla pista di atterraggio e sugli hangar e sull’erba e sul cemento. Riscaldando ogni cosa. Sotto i raggi di un’estate all’arrivo suonano gli Is Tropical, vestiti a festa, ovvero rigorosamente di nero, i tre londinesi di Kitsuné, dopo aver sfornato il peggior album della loro breve carriera (I’m Leaving) presentano un live senza troppe pretese, con i soliti singoli riempipista per andare sul sicuro e un centinaio di ragazzini con pantaloni skinny e t-shirt The Cure a saltellare dentro Doc Martins.
Di tutt’altra pasta, invece, Matias Aguayo. Il cileno, tra le sue molte e diverse collaborazioni, oggi si fa accompagnare da The District Union, ne nasce un live divertentissimo e molto “sud americano” ovviamente, una techno “latin-lo fi” si mischia al tipico ed ipnotico cantato di Aguayo. Si divertono tutti, perché sembra di essere su di una spiaggia e si respira il profumo della salsedine, mentre ogni cosa gira vorticosamente nella canzone popolare sudamericana che si prende l’ombra della techno.
L’attesa pomeridiana è tutta rivolta ai My Bloody Valentine, anche se c’è tempo per il concerto delle Savages, saltando a piedi pari quello dei White Lies. Le quattro bestie londinesi sono una forza della natura, post punk acido e violento, senza sconti per nessuno. La francese Jehnny Beth alla voce, capello rasato, vestito nero, si muove scoordinata ma affascinante come un felino. Le sue ragazze la seguono, sferzando l’aria di sciabolate noise e revival. A tratti è un po’ come sentirsi all’interno di una parodia pulp di Pulp Fiction. E’ un estremo, ma molto coinvolgente.
Ed eccoli, i My Bloody Valentine, passiamo i dieci minuti prima che loro salgano sul palco a contare quanta gente si munisce di tappi per le orecchie: molta. Quando aprono, è un muro di suono che colpisce dritto allo sterno e allo stomaco. Loro sono la shoegaze e chi non lo sa che se ne vada dallo stage di Pitchfork, che vada a ballare o ascoltare l’hip hop tedesco di Casper, sul main stage. Loro sono i My Bloody Valentine e il rispetto è avanti ad ogni cosa. Suonano bene, come il solito, quasi facessero il compitino, ma come biasimarli, per loro è un compito ormai, mentre per alcuni di noi è un capolavoro.
Si riposa un attimo, ci si siede a terra ad ascoltare Sohn, mentre il sole se ne va e lascia solo le ombre della gente che si muove indistinguibile nel giorno che cede il posto alla notte. Sohn convenziona un live ispiratissimo, post-garage e malinconico, una voce meravigliosa, aspirina per le orecchie, una carezza.
Ok, mi ero ripromesso di scrivere questo report evitando di cucirci troppo la prima persona, di utilizzare, solo di tanto in tanto, espressioni come “l’autore” oppure “chi scrive questo articolo”, ma per quanto riguarda Bjork non lo farò.
Avete preso la persona sbagliata, mi dispiace. Io sono segretamente innamorato dell’islandese dall’età di sedici anni, sono innamorato dei suoi occhi, come sono innamorato delle curve di Edwige Fenech, per intenderci, sono sedotto dalla sua voce e dal suo modo di vedere la musica. Amo profondamente Bjork, quindi non sarò imparziale nel mio commento a riguardo del suo concerto, ma prometto che ci proverò.
Durante i dieci minuti prima dell’inizio, un monitor proietta la richiesta di non utilizzare macchine fotografiche con flash, perché l’artista si potrebbe distrare facilmente, rischiando così di rovinare lo show.
Bjork sale sul palco, come ormai accade da diversi anni, con uno dei suoi bizzarri vestiti. Sembra un fiore, un Dente di Leone, il volto nascosto da una chioma di petali argentei ed è accompagnata da uno scatenato coro di quindici ragazze. Sentire canzoni come Isobel oppure Possibly Maybe è un’emozione senza precedenti, per me è come essere davanti alla ragazza che non ti ha mai guardato e notare che per un secondo i vostri sguardi si sono incrociati, oppure passando ti ha sfiorato il braccio. Io capisco che non è un concerto semplice, soprattutto durante un festival, ma è Bjork e non può essere semplice.
Effetti scenici coinvolgenti e grandi classici in versione remix, in ogni caso il pubblico è presente e caldo, sembra che quasi l’intero festival si sia spostato nel main stage. Poi capita questa cosa: mi accorgo, sul finale dello show, che al mio fianco c’è un non vedente, regge con entrambe le mani un bastone da vista ed è immobile a guardare il niente davanti a sé, in mezzo ad un oceano di persone che si muovono e si spingono e saltano e riempiono quasi ogni spazio vitale. Questo ragazzo è dentro il suo buio eterno, il volto senza espressione puntato verso la schiena del ragazzo davanti e il concerto a cinquanta metri. In un istante qualcosa mi si spegne nello stomaco rattristendomi, non possono fare a meno di continuare a osservarlo, stupidamente timoroso che capisca che sono così interessato a lui. Questo ragazzo è nel silenzio e nell’immobilità del suo niente. Sul palco ci sono i visual e vengono sparate fiamme alte sei metri, manco fosse il concerto degli Iron Maiden, fontane di fuochi d’artificio e un generatore di corrente appeso ad una decina di metri d’altezza sputa lampi di energia, donando uno spettacolo meraviglioso. Bjork balla scoordinata insieme alle sue coriste su scarpe con suola dieci centimetri. Uno spettacolo per gli occhi, che fa alzare mani al cielo, ma questo ragazzo accanto a me è bloccato, resta ad ascoltare perché è l’unica cosa che può fare, poi a un tratto sorride, senza cambiare posizione e senza un motivo apparente, il ragazzo cieco al mio fianco sta sorridendo. Io capisco tutto e vorrei abbracciarlo mentre accarezza il manico del suo bastone, che è la sua guida e la sua protezione, quel bastone sempre puntano avanti a sé, qualche centimetro davanti a suoi piedi, dove c’è una vita intera che scorre e sempre scorrerà senza mai rivelarsi, celata da quell’oceano di oscurità che, però, non potrà mai nascondere la musica.
Chiude le danze uno dei due Kalkbrenner, quello che non ha fatto film; Fritz. E’ ispiratissimo, forse anche galvanizzato dall’oceano di persone per cui sta suonando, si sbatte e scuote il pubblico, mentre tutto scorre sempre più veloce e già ci si sgranchisce le gambe per gli aftershows, e dunque, per “chi scrive l’articolo” è tempo di sedersi e riposare qualche minuto, perché la notte è lunga.