Sono le 20:15. Mi trovo qui all’aperto, nel bel mezzo del giardino del Michelberger per mantenere un minimo il contatto con la gente, con la vita di Berlino e con il suo freddo. Sì, fa freddo, ma oggi è stata una giornata troppo importante per rinunciare a raccontarvi dei nostri movimenti. Dentro, nella hall, la gente già muove le spalle a tempo di musica, chiacchierando e sorseggiando drink. C’è un pianoforte a coda in un angolo, sopra di questo è stata allestita una consolle di tutto rispetto, padroneggiata da una ragazza che lavora solo ed esclusivamente con i vinili. La notte berlinese sta già iniziando a scaldarsi. Ma clicchiamo sul tasto “rewind” e ripartiamo da questa mattina, sarà una giornata profondamente incentrata sull’aspetto economico del festival e sulle problematiche che la realtà musicale tedesca sta incontrando…
Sveglia alle nove, neanche il tempo di un caffè e siamo subito al Business Location Center. Ci siamo, siamo pronti a cercare le risposte alle domande che ci siamo posti nei giorni precedenti; domande sulla reale situazione dell’economia musicale tedesca, sulle relazioni che legano e separano l’arte dal music business – dell’impressionante line-up della festa di chiusura parleremo più tardi.
La location del nostro meeting è semplicemente impressionante, rigorosamente costituita di elementi in vetro, metallo e legno. Entriamo nella sala dove si terrà il nostro primo incontro della giornata. Sembra una specie di G8! E’ chiaro da subito che non siamo lì semplicemente per fare due chiacchiere con i vertici della Berlin Music Agens (agenzia che detiene il terzo posto nel mercato musicale mondiale) e di altre società che tengono in pugno il mercato tedesco. Si comincia parlando di come in Germania i prodotti fisici (vinili, cd, tape…) dell’industria musicale vadano ancora molto forte; l’83% di coloro che investono in release lo fanno proprio acquistando CD, vinili, cassette e via discorrendo. E solo il 17% di questi lo fanno tramite internet, questo per capire perché i negozi di dischi tedeschi vanno ancora così forte: la Germania ancora adora l’analogico! In ogni caso nel 2005 l’mp3 inizia a farsi strada silenziosamente. Anche qui però, con il tempo, inizia a mettere in crisi le case discografiche: di tutti coloro che scaricano musica in formato digitale solo il 27% lo fa in maniera legale (spendendo in media 18 euro all’anno), il restante 73% lo fa con i metodi che tutti conosciamo. Nonostante queste problematiche, l’industria musicale tedesca è tutt’oggi inarrestabile; sono ancora in moltissimi quelli che lavorano nel campo e Berlino insiste nel promuovere questo suo lato, dando vita a nuove università musicali, organizzando conferenze, continuando a plasmarsi sui continui e profondi cambiamenti che caratterizzano questa realtà. Con i numeri abbiamo finito e penso siano veramente utili a noi quanto a voi per capire realmente la situazione. Sir Simon Denis Rattle (il famoso direttore d’orchestra britannico) disse a suo tempo: “Berlin is 60% German, 35% New York and 5% Jungle”. Ricollegandoci proprio a questa affermazione abbiamo discusso di come si possa stare dietro alle infinite evoluzioni di questa città. Secondo Christine Carboni, Senior Manager di Berlin Partner GmbH, è proprio quell’ultimo 5% che rende la città così unica. Chiediamo a questo punto come sia possibile accostare società di questo tipo alla giungla berlinese, una giungla inarrestabile e incontrollabile. Ci viene detto che arte/creatività e business non sono due realtà che lavorano in maniera separata, bensì cooperano al fine di raggiungere gli stessi obbiettivi. Ad esempio ci viene detto che il Tresor era il top 10 anni fa e che tutto girava intorno a quel club, arte, iniziative e music business. Poi è arrivato il Berghain, quello che oggi è considerato il più importante club techno (e non solo) del mondo; conseguenzialmente a codesto cambiamento il music business berlinese ha spostato la sua attenzione su questa nuova venue… Stanno forse cercando di dirci che l’arte è totalmente libera di evolversi e mutar forma e che il business si muove solo successivamente e in maniera consequenziale? Potremmo stare a ragionare e discutere di questo punto per ore, lasciamo però decidere a voi se soffermarvici un attimo o meno (quando subentra la moneta sappiamo tutti che le cose non sono così evidenti come vorrebbero farci credere).
Conclusosi questo nostro primo impegno, abbandoniamo il Business Location Center per dirigerci verso il wunderbar Restaurant del Berghain (pareti grezze in perfetto stile Berghain, tavolini in legno e classiche tovaglie a quadretti. Sì, è per questo che dico wunderbar!). Prima però facciamo una pausa al Cafe CK in Marienburger Straße per rivendicare il caffè che ci era stato negato la mattina. Arriviamo al Berghain. Appena di fronte alla facciata principale dell’edificio il ricordo di quel posto ricoperto dalla neve il 24 Dicembre del 2010 mi invade la mente. Con il sole, con la pioggia, con la neve, con la grandine, che sia aperto o che sia chiuso il Berghain non perde mai il suo fascino, è innegabile. Appena arrivati al ristorante già erano presenti Steffen Hack e Ulrich Wombacher, i fondatori del Watergate club e ideatori del BerMuDa. Il discorso di apertura riporta nuovamente l’attenzione sull’attuale scena musicale berlinese. La situazione è un po‘ più grave rispetto a quella che ci avevano presentato al Business Location Center, solo che ora a parlare sono gli artisti, i club owners e gli organizzatori di eventi. Negli ultimi anni Berlino ha subito un profondo cambiamento che ha messo in grave difficoltà l’industria musicale e il booking. I club hanno bisogno di sostegni economici statali (mentre invece, come dicevamo ieri, sono spesso sfruttati per rigenerare le casse statali). Si inizia a sentire sempre più il gap fra i locali che hanno un nome e quelli che non ce l’hanno. Allo stesso tempo la quantità di artisti che la città produce e cresce continua ad aumentare. Ci viene detto che Berlino continua ad essere una città molto vicina, nella mentalità e nella teoria musicale, al sound dei Kraftwerk, e che ce ne vorrà di tempo prima che si cancellino quelle tracce.
Veniamo lasciati con queste parole, iniziamo quindi il pranzo. Noi sediamo proprio accanto ad Adam Port in un tavolino da 5 persone. Dopo aver superato le presentazioni e i classici temi per rompere il ghiaccio, Adam sfodera tutta la sua simpatia! Ci perdiamo in una conversazione sui club italiani, quindi sul Rashomon, sul Goa, sul Brancaleone, sull’Amnesia e sui superclub come il Cocoricò. Port adora l’Italia perché a suo parere il nostro modo di esternare che la festa ci piace è il più energico e il più estroverso in assoluto. Ci dice che sarebbe veramente interessante capire perché nel nostro Paese l’elettronica va così tanto. Insieme abbiamo buttato lì qualche idea ipotizzando ad esempio che ciò fosse dovuto al fatto che nonostante tutto siamo sempre stati un popolo contaminato da altre culture (soprattutto al sud), e che quindi culturalmente parlando amiamo le novità. Sarebbe interessante però ricercare le origini storiche di questa nostra passione (scommettete che sotto sotto c’è lo zampino di artisti come Battiato, artisti che non hanno mai amato confini geografici e artistici?!). Ma torniamo a Berlino. Port ci ha fatto una rivelazione sconcertante: Berlino, stando alle sue parole, non è assolutamente una città che ama il cambiamento e le novità. Non è una città che ama sperimentare alla luce del sole, non ama cambiare, preferisce invece creare racconti sulle sperimentazioni degli anni passati e sulle grandi novità che effettivamente portarono nel panorama internazionale. Gli artisti si devono fare da sé e la città non gonfia il petto se uno dei sui pargoli porta avanti un progetto inusuale, al contrario storce il naso ci dice Port. Il discorso sulle differenze fra la Berlino del passato e quella del presente viene poi ripreso da Steffen Hack e Ulrich Wombacher. I due ci spiegano come molti cambiamenti siano dovuti al fatto che in passato, dopo la caduta del muro, la città si sia creata la propria cerchia di artisti. Tutto era illegale, dai bar alle feste, anche perché non c’erano i soldi per fare altro, quindi è come se si fosse creato un microclima musicale ed i grandi artisti internazionali in linea di massima non venivano invitati per il semplice fatto che erano troppo costosi. Con il passare del tempo la notizia dell’esistenza di questo famoso microclima si è iniziata a diffondere. Da quella realtà originaria ad oggi è, metaforicamente parlando, un attimo. E’ proprio per questo che il Berghain preferisce starsene da parte; certo, con il tempo quest’atteggiamento è anche diventato un elemento caratteristico del club. I due fondatori del Bermuda continuano parlando in maniera più approfondita del Festival, ci spiegano come questo sia una grande opportunità per artisti di ogni livello perché a tutti è data la possibilità di partecipare. Sono tre i piloni su cui si basa il Bermuda: il primo è il Bermuday cioè appunto i workshop, le installazioni, le conferenze e le esibizioni. Il secondo è il Bermunight, quindi tutti i club che si attivano in maniera costante per queste 4 notti, club che il festival cerca di lasciare più liberi possibile al fine di mantenere invariato il clubbing style della Berlino di tutti i giorni, dando così la possibilità di viverlo alle migliaia di visitatori. Il terzo pilastro è il Fly Bermuda, il “rave” dell’ultima notte. Ci viene detto senza peli sulla lingua che questo ultimo atto del festival è fondamentalmente un modo per recuperare i soldi investiti nelle 4 giornate precedenti. A questo punto uno dei reporter chiede: “Perché allora non invitate David Guetta?”. Steffen Hack risponde prontamente dicendo che innanzitutto Guetta costa una cifra vergognosa, ma soprattutto, è vero che il Bermuda è aperto a tutto, ma anche qui ci sono dei limiti!
Dopo aver scambiato altre due parole con Adam Port di fronte al Berghain, e aver scoperto che ama veramente il nostro megazine, ci incamminiamo verso l’hotel per iniziare a prepararci fisicamente e mentalmente alla penultima nottata della nostra permanenza berlinese. Abbandono il Mac sul tavolino per venirlo a riaprire domani mattina appena di rientro dai due locali più importanti di Berlino… Staremo a vedere!
Ore 8:15 am del 5 Novembre. Siamo appena rientrati. Giusto qualche parola. Il Berghain ci ha letteralmente rapito e rinchiuso per tutta la notte. Appena lasciati i giacchetti voliamo alla sala invasa dalle Funktion One… Alva Noto sta facendo il delirio, l’audience impazzisce! Neanche il tempo di vedere il suo viso e arriva “Uni Acronym” con tanto di video annesso. Poi sempre al Berghain arrivano Daniel Miller (cassa scura e dritta) e Kangding Ray (una fantastica trappola per la mente). Il set che però ha rapito il nostro cuore ieri notte è stato quello del newyorkese Keith Denis al Panorama Bar! Musica nera nell’anima, organi jazz, vocal soul pazzeschi e chitarre fusion che sembrava veramente fosse nascosto da qualche parte Pat Metheny con la sua semiacustica… Ed è proprio quando Keith giocava con quei fraseggi e con quelle blue notes che rubava pezzi della nostra anima. Intorno alle 5 e mezza di mattina sentiamo entrare il giro di basso di “It’s a Crime” remixata da Caribou… A quel punto noi e tutto il Panorama Bar iniziamo a ballare con ogni muscolo del corpo! Ne abbiamo fatti di incontri e chiacchierate interessanti ieri notte.
Domani per il Gran Finale ve ne racconteremo delle belle, vi racconteremo di come il vero berlinese doc vede e vive il BerMuDa, di quali siano i nuovi locali underground di Berlino… E ovviamente vi racconteremo il GRAN FINALE!
Pics by Chiara Ernandes