Che anno è stato – almeno musicalmente parlando – il 2017?
Sappiamo che può sembrare un paradosso, e per certi versi lo è, ma forse è ancora presto per dirlo. Capiremo solo fra qualche anno la portata storica di alcuni titoli ritenuti fondamentali già pochi mesi dopo la loro uscita e solo allora sarà chiaro se si trattava di vero innamoramento o infatuazione momentanea.
Quel che è certo è che in un momento storico in cui escono davvero tanti dischi, non sono mancati i titoli notevoli. Quelli che forse – appunto – saranno destinati a superare la prova del tempo. Che poi, se anche non fosse così, è davvero importante?
Qui di seguito trovate i migliori album del 2017 secondo la redazione di Soundwall.
Ognuno dei nostri collaboratori ha avuto il compito di selezionarne due, senza vincoli di genere o stile. Unica regola: non si potevano scegliere dischi già scelti da altri.
Il risultato è questa lista, in ordine alfabetico, davvero variegata e che a modo suo prova a riassumere la ricchezza colorata che, quella sì, ha davvero contraddistinto il 2017.
Buona lettura!
30/70 “Elevate”
Alessandro Montanaro
“Elevate” dei 30/70 è una delle più fresche e recenti conferme della ribollente scena musicale di Melbourne che molti potrebbero collegare a rappresentanti più conosciuti come Harvey Sutherland e Hiatus Kaiyote. Grazie a “Rhythm Section” e Bradley Zero, il collettivo a maglie larghe capitanato dalla mesmerica voce di Allysha Joy è pronto a farsi conoscere nel Vecchio Continente. “Elevate”, infatti, è un compendio della scena nu-soul che sta facendo breccia anche qui e all’interno troviamo elementi funky, fiati cosmici, ritmiche R&B e spezzati hip-hop che trovano coesione e sviluppano un album solido. Freschezza, spiritualità e groove il mantra per un album dall’ascolto spensierato e dal piede battente.
Alessandro Cortini “Avanti”
Emiliano Colasanti
Un disco che indaga nelle infinite spire della memoria.
Iniziare-perdonare-aspettare-nonfare-vincere-perdere-finire come metafora della crescita basata sul ricordo. La vita vissuta fino alla morte.
L’infanzia che diventa imprinting e bagaglio culturale/emozionale capace di influenzare tutto quello che avverrà in futuro.
Musica dell’anima, soul ma nel senso letterale e non del genere musicale.
Hauntology, direbbero quelli bravi, musica ambient, direbbero quelli vecchi. Un album bellissimo, diciamo noi.
Antwood “Sponsored Content”
Giulia Scrocchi
Antwood si posiziona con merito in quel movimento di artisti distopici che trovano espressione tramite suoni in HD; rappresentanti cybernetici di una iper-realtà sempre più a contatto con le tecnologie, raccontata con una narrativa in continua evoluzione.
Se da una parte “Sponsored Content” vuole essere un urlo sotto un cielo cyberpunk, dall’altra Tristan Douglas vuole lanciare un’accusa ben più reale contro l’ubiquità degli annunci e la mercificazione dei contenuti online, contro quel potenziale lato oscuro che annebbia intorno al web 2.0.
“Sponsored Content” ammalia: arieggia una specie di perversione. E’ un album deviante, ove una sorta di terrore digitale riecheggia su atmosfere paranoiche, parentesi dark ambient e squarci illbient.
E poi… poi con “Human” tutto cambia e tutto finisce.
Arca “Arca”
Giulia Matteagi
Il lavoro di Alejando Ghersi è dolce e violento al tempo stesso, è un’ode all’amore e a tutte le facce di una natura umana tormentata, da quella bestiale alla più fragile. La voce di Arca è la vera sorpresa, così profonda e languida, così imperfetta e sofferente. Si tratta di un provocatore che ha dalla sua un’anima immensa e grande talento.
Carl Brave x Franco 126 “Polaroid”
Antonio Fatini
Polaroid è diventato un “instant classic” perché è riuscito a fotografare contemporaneamente un momento storico e ad empatizzare con la sua generazione, senza specificare davvero quale essa fosse. Prima i video da milioni di visualizzazioni, poi le date sold out con gli “enti”, gli “enta” e gli “anta” pronti a cantare a memoria strofe piene di romanità, questo 2017 ha portato Carl Brave e Franco 126 da Trastevere alla vetta.
Clap! Clap! “A Thousand Skies”
Maurizio Narciso
Per produrre “A Thounsand Sky” Cristiano Crisci ha raccolto frammenti sonori dalle fonti più disparate, con l’intento di dare forma ad una propria geografia sonora/esistenziale che tenesse conto delle radici italiane lungo le via dell’Appennino centrale. Oltre al concetto affasciante che si cela dietro al disco, c’è il genio di un produttore che fa convergere con estrema naturalezza sonorità wonky con la spiritualità primitivo-rituale della world music. Un disco di “future roots” made in Italy.
Clark “Death Peak”
Divna Ivic
Uno di quei dischi che non ti seducono letalmente sin dall’inizio. Ma che più ascolti e più ti rendi conto di amare. Detto, fatto – caduti nella trappola dell’Ammmore 2017!
Techno, folk, cori angelici, death metal, ambient, sperimentazioni varie ed eventuali per un horror vacui warpiano che non può lasciare indifferenti. Inizialmente, per una dose massiccia di melodie e romanticismo in passato non così vicine a Clark. In secondo luogo, perchè è un album maturo, raffinato, di forte carattere e squilibratamente equilibrato quanto i migliori esiti della Warp degli anni d’oro.
Colin Stetson “All This I Do For Glory”
Viviana Gelardi
Con una cadenza da Sacre Scritture, accade che in un essere umano – sulla natura umana sarebbe lecito interrogarsi – convergano il Genio e la Tecnica, l’ispirazione ancestrale e l’immensa padronanza del mezzo. Accade che, forse senza saperlo, siamo contemporanei di una di queste convergenze, quella che porta il nome di Colin Stetson, sassofonista statunitense classe ’77. Come tra Jaco Pastorius e il basso, tra Stetson e il sassofono (alto, basso e tenore) scorre un’energia divina: nelle mani e sulla bocca di questo ‘human after all’ il sax è il massimo del sax e allo stesso tempo non è più solo sax. In “All This I Do For Glory”, primo lavoro solista di Stetson dal 2013, l’attenzione è tutta sullo strumento e sul rapporto viscerale che lo lega al suonatore, che ne è insieme schiavo e manipolatore. Concepito come un’unica composizione di 40 minuti, l’album è Stetson al 101%, suonato, registrato dal vivo senza loop né overdubbing, mixato e prodotto da lui stesso. ‘Human after all’, Stetson è un sassofonista drammaticamente umano, brutalmente fisico nell’emettere quegli incredibili volumi di aria con tecniche di respirazione circolare, nell’intonare quei canti spettrali che ricordano un po’ Yorke, nel picchettare con le dita su uno strumento che diventa melodico e percussivo insieme. “All This I Do For Glory” è uno straordinario incontro di virtuosismo e creatività, di tecnica prodigiosa e idee potenti: come indicato dallo stesso Stetson, il riferimento è ad Aphex Twin e Autechre e i temi sono quelli dell’ambizione, dell’eredità, dell’aldilà. Il risultato va oltre temi e riferimenti: è un’opera che è già senza tempo, è per la gloria.
Four Tet “New Energy”
Costanza Antoniella
Non siamo gli unici ad averlo decretato uno dei migliori album di questo ricchissimo 2017. “New Energy” è esattamente quello che ci voleva nella rosa di produzioni di spessore che ci ha regalato Four Tet nell’arco della sua carriera. È potente e contemplativo al tempo stesso, è la colonna sonora di chi cerca la pace attraverso il suono, è la calma di chi ha bisogno di rifugiarsi nella musica per non sentire più i rumori del mondo che lo circonda, è la forza di affrontare al meglio un nuovo giorno. È, in un’unica parola, incantevole.
Godblesscomputers “Solchi”
Costanza Antoniella
Dell’ultima fatica di Lorenzo Nada ne abbiamo parlato sia noi che lui. Non poteva quindi mancare in questo carousel di fine 2017 una menzione al suo ultimo album che ne afferma talento e capacità. “Solchi” è tutta la musica bella che ognuno di noi si merita. È un lavoro ben riuscito, con collaborazioni di spessore che esaltano l’italianità di tutto il progetto ed è sicuramente uno dei migliori dischi usciti quest’anno. Se non l’avete ancora fatto, sentitevelo e siate pronti a non stancarvene mai.
Ibeyi “Ash”
Mirko Carera
Un manifesto del nuovo/vecchio femminismo. Le Ibeyi elaborano il lutto che segnava profondamente il loro esordio, per aprire finestre su un mondo decadente. Tra cultura Oruba e Lauryn Hill, il sophomore è un rnb scarno e minimale che strizza l’occhio all’hip hop, sfiorando soltanto un’ elettronica leggerissima. Un risultato prevedibilmente clamoroso.
Indian Wells “Where The World Ends”
Mattia Tommasone
Inconsciamente o meno, ammettiamo che ci capita di avere uno sguardo diverso quando giudichiamo la musica di un artista italiano: a volte snobbiamo dischi per esterofilia, altre volte invece sembra quasi che essere nostri conterranei ci permetta di chiudere un occhio più facilmente.
Poi ci sono quei casi di dischi così belli, così completi, da essere totalmente indipendenti dalla provenienza geografica: non ce ne frega niente di dove sia nato Pietro Iannuzzi, “Where The World Ends” è un viaggio in cui ci tuffiamo sempre volentieri e che finisce sempre troppo presto.
Jamiroquai “Automaton”
Mirko Carera
Chi se lo sarebbe mai aspettato? Chi lo avrebbe sinceramente mai detto? Alzi la mano chi non ha mosso sospetti o arricciato il naso quando Jason Kay ha annunciato “Automaton”. Invece no, il folletto oggi un po’ imbolsito e segnato da una vita di eccessi e da un’età che avanza pubblica un disco perfetto, liscio, scorrevole, ritmato, che arriva a fine anno con immutata voglia di essere ascoltato ancora e ancora e ancora. “Automaton”, non ha nulla da invidiare alle pubblicazioni che lo hanno preceduto e per numero ascolti diventa a mani basse uno dei dischi dell’anno.
Jlin “Black Origami”
Maurizio Narciso
E’ un piccolo, grande, miracolo di equilibrio sonoro questo secondo disco sulla lunga distanza della giovane produttrice americana che risponde al nome di Jerrilynn Patton. C’è un ritmo dall’impatto “fisico”, mutuato dalla gloriosa scena footwork di Chicago, ma anche un mirabile lavoro di cesello produttivo, che definisce i contorni di una musica HD (virata tribale) con strizzatine d’occhio all’IDM. Un lavoro che cresce di ascolto in ascolto e che fissa su supporto, oltre che il qui e ora musicale, anche un pizzico di futuro.
Joe Goddard “Electric Lines”
Antonio Fatini
Se ti chiami Joe Goddard e sei tra i fondatori degli Hot Chip e della Greco Roman, il tuo primo album non puoi davvero sbagliarlo: le sfumature che si nascondo tra le righe del suo “Electric Lines” sono tante, dai riferimenti ai feat. Goddard pesca ovunque e la sua storia glielo permette. Uno degli album più solidi dell’anno.
Kelly Lee Owens “Kelly Lee Owens”
Federico De Feo
Nel mondo della musica elettronica, spesso, gli album di debutto sono un’autentica dichiarazione di stile e scopo estetico.
Il debutto omonimo della musicista gallese, Kelly Lee Owens, è un racconto del proprio percorso artistico e del proprio credo, a partire dalla prima esperienza con la band indie-rock The History Of Apple Pie fino all’incontro con Daniel Avery e James Greenwood, meglio conosciuto come Ghost Culture, personaggi di spicco dell’elettronica britannica che l’hanno spinta alla creazione di questo primo album.
Una delle grandi sorprese e peculiarità di questo esordio è la scelta di sonorità prettamente dream pop, che si contrappongono, sostanzialmente, alle influenze techno portate dai due Dj britannici. La musica, come una stringa, si collega alla voce, beatificata nella sua aura di respiro e riverbero.
Le sue canzoni sembrano apparentemente semplici, spesso costituite da pochi strumenti come: uno o due synth, tre o quattro sample di batteria e la sua voce permeata da un riverbero infinito. Ma Kelly Lee Owens riesce a trasformare in sorprendenti delle progressioni sognanti che rapiscono l’ascoltatore in un vortice di brani senza fine.
Kendrick Lamar “DAMN.”
Ludovico Vassallo
Ogni album di Kendrick Lamar è l’album di Kendrick Lamar. Tutto vero. Così come è altrettanto vero che questo album è molto più immediato e compatto rispetto al precedente “To Pimp A Butterfly”. Sotto la superficie di DAMN. c’è energia convertita in canzoni come DNA., ELEMENT. e HUMBLE., ci sono le tenebre di PRIDE. e LUST. così come la mega hit in featuring con Rihanna LOYALTY. Non sorprendetevi allora se vi diciamo che Kendrick Lamar è il migliore rapper al mondo: è un incredibile narratore capace di parlare a tutti, dal grande pubblico ai suoi vicini di casa a Compton, con un hip hop autentico e prezioso. Altri 15 anni così King K!
King Krule “The OOZ”
Alessandro Montanaro
Per descrivere il King Krule di “The OOZ” potremmo prendere a prestito le parole di De Andrè: “un uomo onesto, un uomo probo, tralalalalla tralallalero”. Ma forse è solo un uomo affetto da una forma positiva di sindrome di Werner capace di maturare lo spirito lasciandone intatta la parvenza efebica, o forse è solo la regione MC1R del cromosoma 16, resta il fatto che il King è un’eccezione.
Onesto dicevamo, uomo dicevamo, tralalalalla tralallalero confermiamo. Onesto come le bordate nei testi che soffiano o strillano sul microfono, uomo perché capace di darne forma e controllarle, tralalalalla tralallalero perché sfugge dalle commiserazioni che fanno tanto post-tutto e che solo un 20enne e poco più riesce a buttare via come una cicca morsicata rimasticata impregnata di saliva. Il 23enne londinese con “The OOZ” è riuscito a dar vita al proprio ecosistema kingkruliano partendo da una miriade caleidoscopica di influenze: è un album porcaputtanamente maturo per la lucidità oscura e non depressa che trasmette. Se una descrizione deve esserci, vi dico quello che mi è successo: in rotazione da ottobre, continua a girare e la puntina ha scritto questo: abarico : agit-prop : algido : blue(s)zola : concreto : duttile : errante : favente-mozionale : fubbioso : gaglioffo : ginger : mellifluo : mesmerico : politropo : probo : solipsista : spolmonato : straziante : subacqueo
LCD Soundsystem “American Dream”
Damir Ivic
Semplicemente: il miglior disco degli LCD Soundsystem, punto. Un disco uscito dopo che: 1) hai smesso da eoni di essere la moda o novità del momento 2) ti sei sciolto 3) ti sei rimesso insieme perché boh. Un trittico che ammazzerebbe un cammello, ma non Murphy. Che diventa sempre più lugubre e disilluso in un sacco di sfumature, sì, ma dà al suo progetto una chiarezza, una profondità, una forza sonora mai vista. E in un’epoca in cui quelli saputi dicono che l’album è morto come formato ed esistono solo i singoli, “American Dream” è un disco praticamente senza singoli. Ma un monumentale capolavoro nel suo insieme.
Lee Gamble “Mnestic Pressure”
Viviana Gelardi
I meccanismi della memoria e la pressione dei ricordi potrebbero essere al centro di un dibattito di neuroscienze e studi cognitivi ma Lee Gamble li ha tradotti in musica, usando un linguaggio sonoro universale che parla all’inconscio meglio di qualunque pubblicazione scientifica. Da sempre interessato ad un’interpretazione neurofisiologica della musica, al processo mentale innescato dall’ascolto – “the stuff that’s rattling around in your head” per usare le sue parole – Gamble fa il suo esordio su Hyperdub con un lavoro che potrebbe far fallire diversi psicanalisti e trasformare alcuni (selezionati) dancefloor in tappeti volanti in viaggio tra sogni e ricordi. “Mnestic Pressure” è un disco sperimentale, è ambient, è IDM, è techno, è jungle, in diversi momenti è decisamente UK. È un caleidoscopio incredibilmente equilibrato di suoni astratti e introspettivi e di ritmi incalzanti e irrequieti. Ascoltarlo è un continuo alternarsi di déjà-vu musicali e sonorità che sembrano provenire da secoli avvenire. È un nesso circolare tra passato e futuro che entra di diritto tra le migliori uscite dell’anno.
Michael Mayer “DJ-Kicks”
Federico Raconi
Con questo autentico monolite, il boss di Kompakt rimette ancora una volta Colonia sulla mappa, ricordandoci che un mixtape spesso e volentieri può valere come e quanto un album in termini di itinere musicale. Mayer, dal primo all’ultimo disco, vi porta a spasso per la Speicherstadt, vi apre le porte di casa sua e vi offre un giro di Birds di fronte ad un camino scoppiettante prima di rispedirvi, brilli ed intontiti, alla vita di tutti i giorni quando il treno termina la corsa.
Mount Kimbie “Love What Survives”
Federico De Feo
Mentre i lavori precedenti dei Mount Kimbie potevano riportare alla mente la meticolosa ed effervescente elettronica dei Boards Of Canada e Four Tet, Love What Survives, suona e vibra di un primitivo post-punk e krautrock. Circuiti di mixaggio e sudore, chitarre distorte e matrice sintetica, suscitano toni metallici che ricordano kalimba pizzicate, evocando la produzione discografica della Rough Trade Records, nei primi anni 80, che si muoveva tra il punk, chitarrocentrico, verso timbri più esotici. Ma la vera svolta epocale dell’album, arriva dalle collaborazioni con James Blake, King Krule e Micachu che spingono la musica del duo londinese verso qualcosa di ancor più grande.
Mura Masa “Mura Masa”
Francesca Bortoluzzi
C’è poco da fare, il 2017 è stato l’anno in cui il fenomeno Mura Masa si è fatto conoscere. Presentandosi con una faccia del tutto nuova rispetto a “Someday Somewhere”, capace di reinventarsi e di plasmarsi alle tendenze, con “Mura Masa” il giovane ha definito il suo ruolo nella scena internazionale, grazie a una moltitudine di collaborazioni intelligenti, fra le quali uno splendido featuring con A$ap Rocky, col quale ha dato nuova vita a Lovesick, di due anni precedente.
Nosaj Thing “Parallels”
Francesca Pugliese
Dopo aver perso anni di lavoro a seguito di un furto, “Parallels” segna un lento riavvio verso un suono nuovo.
Quello che colpisce non è però un cambiamento radicale, che effetivamente non c’è, ma la semplicitá e la bellezza limpida che l’album rispecchia.
Introspettivo, avvolgente, a tratti minaccioso e cupo, Nosaj thing usa a distanza di due anni da “Fated” il modo piú semplice per lasciarci intontiniti lí a sentire ogni brano che si sgroviglia nella sua (troppa? Perché mai?) ripetitivitá e dolcezza, lasciando peró spazio anche a bassi caldi, groove intensi e beat hip hop.
Un album da sentire senza fretta, che può sorprendere e farsi apprezzare.
Not For Us “To Discover And Forget”
Francesca Bortoluzzi
To Discover and Forget è uno di quegli album sofferti, ma in grado di raccontare non solo una storia, ma la crescita intellettuale di un’artista. Fra sensualità e sonorità ben calibrate e pensate, l’album risulta completo e fluido, in un gioco fatto da un’alternanza decisa di pieni e vuoti, dove a prevalere, dal punto di vista dell’impatto, è il silenzio.
Empatico, deciso, ammaliante e, a tratti, lirico: tutto questo è Not For Us; per me, uno dei migliori produttori che il panorama italiano ha da offrire.
Oobe “Amarcord”
Giulia Matteagi
Chitarre glam e synthwave caratterizzano l’innegabile estetica nostalgica di questo lavoro, passato ingiustamente in sordina. Ci sono dentro i vecchi Telefoni Tel Aviv, i Queen, gli Heterotic di Paradinas e tanto talento a definire un suono retrofuturista in chiave IDM.
Pessimist “Pessimist”
Giulia Scrocchi
L’album di debutto di Pessimist trova spazio nel catalogo della Blackest Ever Black, etichetta londinese emigrata poi a Berlino. “Pessimist” cattura l’attenzione perché è uk-step downtempo con voraci tinte techno warehouse. E’ un film in cui soundscape dark ambient abbracciano casse e drum riverberate, dove i synth provenienti dalla drone music raccontano di un’atmosfera drammatica, intensa ed avvolgente.
Ron Trent “Word, Sound & Power”
Federico Raconi
Quando censisco un disco, da bravo dj da cameretta, ho l’abitudine di prendere da parte le tracce che mi sembrano meritevoli in modo da poterle usare poi durante i set. In tutta la mia vita non credo mi fosse mai successo di dover spostare interamente un disco da 24 tracce. Una raccolta che è il manifesto della grandezza di un produttore spesso sottovalutato e mai davvero finito sotto i riflettori che meritava durante i suoi tanti anni di carriera.
Run The Jewels “Run The Jewels 3”
Ludovico Vassallo
Terzo capitolo discografico della coppia più irriverente e sfacciata che il cosmo hip hop abbia sfornato negli ultimi anni, RTJ3 è l’ennesima meraviglia del duo statunitense formato da Killer Mike e El-P. L’album è un carro armato sonoro che ti investe e non lascia scampo alle tue povere orecchie, date un ascolto al trittico “Legend Has It”, “Call Ticketron” e “Hey Kids” e fateci sapere se ne uscirete vivi. Questo album ha tutto il necessaire che cercate in un disco rap: beat intensi, belli e saturi, contenuti e metriche da paura. Un consiglio: ascoltatelo dall’inizio alla fine senza sentire il bisogno di saltare una o più tracce. Ve ne potreste pentirete amaramente.
Sampha “Process”
Francesca Pugliese
Forse una delle voci più belle che abbiamo sentito quest’anno, capace di essere dolce e carezzevole, ma anche forte ed incidente. Sampha riesce con “Process” a donare al suo suono una rara espressivitá, venuta fuori e concretizzatasi dopo anni di collaborazioni in una da poco nascente carriera solista. Dieci brani che elegantemente rimandano a sonoritá soul ed R&B conditi di electro, ed un filo conduttore che va da picchi di estrema sensibilitá concentrati sul piano-voce a brani indorati di percussioni elettrizzanti, strumenti a fiato, suoni ambientali e rumori elettronici come l’eccezionale “Kora Sings”. Tutto prende parte ad un profondo processo emotivo tradotto in un album che, a detta nostra, é probabilmente impeccabile.
San Diego “Disco”
Mattia Tommasone
Se nel 2017 ci siamo occupati tanto di indie italiano e di vaporwave il merito è anche molto di San Diego, che seguiamo con attenzione da quando era poco più che un paio di tracce su Youtube che campionavano la sigla di “È Quasi Magia Johnny”. Proprio sul finire dell’anno i video sono diventati un album organico e freschissimo, di quelli che ascolteremo volentieri anche per tutto il 2018 e che difficilmente ci toglieremo dalla testa tanto presto.
Si Begg “Blueprints”
Damir Ivic
E’ per certi versi una scelta “politica”: scegliere l’album di Si Begg significa (ri)mettere i riflettori su un artista ingiustamente dimenticato (tant’è che lui si è messo a fare soprattutto colonne sonore e sound design, nell’ultimo decennio) autore di un album che si infila in teoria nel filone che va di moda oggi tra l’intellighenzia techno (ambient-e-dintorni, diciamo), ma lo fa con piglio personalissimo, con una striatura electro “aerea” molto personale. Il tutto esce poi su Shitkatapult, rencentemente in fase di rilancio: ora non se la ricorda nessuno, ma era uno dei caposaldi di Berlino – prima che Berlino diventasse inflazionatamente di moda.
Tyler, The Creator “Flower Boy”
Divna Ivic
Anche se il titolo originario dell’album avrebbe inizialmente dovuto contenere altre due parole – “Scum Fuck” (…) – il ragazzaccio dell’hip hop quest’anno ha deciso di sorprenderci non poco. Il suo è un album tanto sentimentale quanto maturo, con gustose atmosfere neo-soul alla Erykah Badu e delicati giri di synth da 100% presabbene. La sua solita attidudine abrasiva risulta certamente limata da ospiti come Frank Ocean e Kali Uchis, ma la carica esplosiva è ancora bella vistosa. E super accattivante.
Various Artists “Mono No Aware”
Emiliano Colasanti
Quello del mono no aware è un concetto estetico giapponese che esprime una forte partecipazione emotiva nei confronti della bellezza della natura e della vita umana, con una conseguente sensazione nostalgica legata al suo incessante mutamento. O almeno questo è quello che dice Wikipedia e il bello è che pur non avendoci capito molto è esattamente la sensazione che si prova ascoltando questa raccolta messa insieme dalla PAN e che prova a tracciare una linea su quella che potremmo definire la scena intorno alla musica d’ambiente del 2017.
Un disco, a modo suo, perfetto e coerente e che si fa addirittura fatica a considerare come una compilation. Contiene alcuni momenti altissimi tra cui la stupenda traccia d’apertura Fr3sh di Kareem Lofty e Limerence di Yves Tumor che per chi scrive è davvero una delle perle di questo lungo e bizzarro anno che abbiamo appena vissuto.
Various Artists “The Sound Of Mercury Rising Compiled With Love By DJ Harvey”
Matteo Cavicchia
Rockstar del dancefloor come pochissimi altri al suo livello, DJ Harvey ci porta qui a spasso per il suo mondo magico attraverso una selezione colta ed emozionale come solo i suoi dj set sanno essere. Compilation imperdibile e senza tempo.
Various Artists “Welcome To Paradise (Italian Dream House 89-93) Vol. 1”
Matteo Cavicchia
Basterebbero “Calypso Of House”, “Paranoia” e “Holy Dance”, il vero capolavoro di questo stupendo e ricchissimo various a giustificare la spesa: “Welcome To Paradise (Italian Dream House 89-93) Vol. 1” è una delle uscite – se non l’uscita – più succose e ricche di contenuti che gli amanti dei dancefloor di qualità potessero desiderare quest’anno. Nessun’idea rivoluzionaria per la testa? Che ci vuole, ristampiamo il meglio! E qui di materiale spesso, anzi spessissimo ce n’è in abbondanza. Amanti di “Suoeno Latino”, poche storie: questa bomba assemblata dalla Safe Trip di Young Marco non può essere lisciata e se l’avete fatto…beh, cazzi vostri!