È il 5 maggio 2014, e l’intera famiglia reale Knowles-Carter è presente al Met Gala. Sfilano sul red carpet, si fanno fotografare, sorrisi e glamour. Più tardi, le telecamere di sicurezza di uno degli ascensori dello Standard Hotel riprendono Solange Knowles, sorella di Beyoncé, che aggredisce a pugni, calci e insulti il cognato Jay-Z, al secolo Shawn Carter. Beyoncé assiste alla scena, e tutto nel suo linguaggio del corpo suggerisce che dia ragione alla sorella.
Per la prima volta, uno dei matrimoni più solidi e patinati dello showbiz statunitense mostra segni di cedimento. C’è qualcosa che non va. O forse Solange è matta e Beyoncé lo sa, Jay-Z lo sa, tutti lo sanno e non sanno che farci.
23 aprile 2016, esce Lemonade, e il mondo dice: ah. Allora.
Sul supposto autobiografismo di questo album – distribuito, va detto, solo su Tidal, piattaforma di cui Jay-Z è azionista – è stato già detto di tutto. Fino dal titolo, che sembra fare riferimento al detto popolare “When life gives you lemons, you make lemonade”, invito alla resilienza e al fare del proprio meglio con quello che si ha, aggiungendo zucchero a quello che altrimenti sarebbe un succo aspro e imbevibile, Lemonade è un lavoro profondamente personale, un’esplorazione della crisi di un matrimonio, ma soprattutto del rapporto fra una donna afroamericana e gli uomini che ha intorno. Quando Lennon – in tempi più innocenti – cantava Woman Is the Nigger of the World, stava involontariamente collocando le donne di colore in fondo a qualsiasi scala gerarchica possibile: donne, e anche nere.
Il femminismo rivendicato da Beyoncé negli ultimi anni diventa sempre più personale e sempre più politico con ogni uscita. I lieti gorgheggi di Love on Top sono stati accantonati, sostituiti da un perentorio invito alle signore: let’s get in formation, ‘cause I slay. Formation, che chiude l’album, è sembrata ad alcuni posticcia, una rottura della continuità di Lemonade. Invece è il finale, la chiave interpretativa, il momento in cui Beyoncé si svela come voce narrante collettiva. Non Beyoncé ma la donna tradita dal suo uomo in una comunità che deve fare i conti con un machismo devastante. Beyoncé ma anche sua sorella, sua madre, tutte le donne insultate e calpestate. When you love me, you love yourself, love God herself, recita il testo di Don’t Hurt Yourself: Dio è donna.
Lemonade, nel suo essere un album a suo modo intimo, qua e là addirittura nudo e diretto (Quanto io narrante ci potrà mai essere in Hold Up? “Let’s imagine for a moment that you never made a name for yourself/Or mastered wealth, they had you labeled as a king/Never made it out the cage, still out there movin’ in them streets/Never had the baddest woman in the game up in your sheets/Would they be down to ride?”) non trova uno specchio tanto nel delirio egolalico di The Life of Pablo di Kanye West quanto nell’urlo liberatorio di To Pimp a Butterfly di Kendrick Lamar (ospite anche di Lemonade), un album che nel suo rivendicare la dignità del maschio afroamericano lo fa spesso a scapito di quella delle donne, come fa notare Raquel Willis su Cuepoint. Lemonade restituisce una voce e un modello a chi pensa di non avere altra scelta che subire, a chi si addossa la colpa dei torti subiti (Nine times out of ten, I’m in my feelings/But ten times out of nine, I’m only human/Tell me, what did I do wrong?) e si auto-assolve (Feel like that question has been posed/I’m movin’ on/I’ll always be committed, I been focused/I always paid attention, been devoted/Tell me, what did I do wrong?)
Se è impossibile parlare di Lemonade come del disco delle corna (a dispetto dell’ossessione dei media americani verso l’identità di “Becky with the good hair”, la ragazza bianca dai capelli morbidi: amici americani, chissenefrega?) è anche grazie al film che lo accompagna, in cui ogni scelta, ogni dettaglio riportano al vero tema centrale, quello della dignità della donna afroamericana, dell’orgoglio delle radici (abiti e styling del film mescolano look di grandi marchi a stampe africane e decorazioni fatte dall’artista nigeriano Laolu Senbanjo, come spiega bene Ludovica Lugli su Il Post). Alla cricca delle biondine magre reginette della scuola di Taylor Swift, Beyoncé oppone Serena Williams, Zendaya con i suoi cornrows (le trecce aderenti alla testa), Quvenzhané Wallis e Amandla Stendberg e i loro capelli naturali (ciao, Becky with the good hair), sua madre Tina Knowles-Lawson, e il marito che le ha ridato serenità dopo il divorzio da Mathew Knowles, le madri dei ragazzi neri uccisi dalla polizia perché neri e ancora in attesa di giustizia, e la poetessa inglese di origine somala Warsan Shire, che ha scritto i versi che dividono i dodici capitoli del film.
Lemonade è un viaggio attraverso la rabbia e la liberazione, un viaggio di riconciliazione che termina con un avvertimento: non subiremo più. Né oggi, né domani, né mai.