Hell Yeah Recordings è da annoverarsi fra le miriadi di etichette indipendenti italiane, ma non cadete in errore. Hell Yeah non è un progettino fatto da casa, dal dj di turno che non vede l’ora di avere visibilità e nemmeno un gioco di vanità. Hell Yeah è l’artigianato artistico discografico portato avanti da un one-man-band chiamato Marco Gallerani aka Peedoo, un discografico old school che si è fatto strada tra le mutazioni del mercato, ha piegato il digitale trovando il modo di sopravvivere di musica ma soprattutto di nutrirsi di essa. La sua passione ci ha regalato tante piccole gemme sonore, tra gli altri ci sono i Tempelhof, i Margot… non ultimo l’EP di Dimitri From Paris con DJ Rocca. Eh si, Hell Yeah è un bel portagioie, un tesoretto di produzioni eclettiche, tutte frutto di scelte di gusto del Peedoo. E così, ve la butto lì, c’è anche un bel progetto che sta portando avanti sul fronte dj set, da seguire, Balearic Gabba Sound System, un viaggio psichedelico, uno story telling che trasuda cultura musicale. Hey! Il suo motto è ‘Expect the Unexpected’, vi va?
Come hai iniziato?
Nel ‘94 avevo vinto una borsa di studio in marketing della regione Emilia Romagna insieme alle camere di commercio e IFOA di Reggio Emilia. Non avevo fatto il servizio militare, avevo scarsissimi risultati a scuola ma ero riuscito a convincerli che volevo creare un import-export di dischi. Mi pigliano e vado ad abitare a Reggio, era il periodo del Maffia, frequentavo il Link. L’ultimo dei due anni, dovevo fare una ricerca di mercato sulle aziende dell’Emilia Romagna e ho scelto le etichette indipendenti. Andai all’Irma, all’Expanded, la Bianca, Arsenic… Intervistavo la gente che faceva quello di professione, sugli scambi appunto con l’estero. La dance made in Italy è stata fatta all’estero in quel periodo: da Whigfield, Eins Zwei Polizei e Gigi d’Agostino. Poi dovevo fare lo stage di un mese e scelsi l’Expanded che accettò anche perché quello che curava l’internazionale, ovvero i rapporti con le etichette straniere, se n’era appena andato. Io in quel mese lì poi, li aiutai a fare un trasloco, perché si stavano spostando. Poi però iniziai a mettere la teoria in pratica: è un mondo nel quale ci devi stare dentro per capire come funziona. Non è matematico: ci vuole passione, culo, un attimo di conoscenza… se ne sai di marketing non è detto che poi hai un buon orecchio per la musica.
Come ti sei fatto notare?
L’Expanded veniva da un anno di successi, 5 pezzi in Top 10 italiana, come Africa Bambaataa con “Just Get Up And Dance”, Ramirez con “El Gallinero”, dopo aver passato anni a lavorare nel rock underground. Infatti è proprio grazie ad un team di produzione (uno che sta in studio, musicisti, dj) di Trieste che hanno iniziato a fare la dance italiana che in quel momento era nuova. Qualsiasi cazzata nel ‘96 vendeva almeno 2 o 3 mila copie e poi facevano i soldi con le licenze (do i diritti per un territorio, tipo Francia, a un’etichetta di Parigi. E io ho una percentuale sulle tutte le vendite). Io seguivo proprio la parte Royalties, mi incontravo con altre etichette, facevo sentire i dischi nuovi o si prendevano artisti stranieri, al contrario. Nel ‘98 iniziai ad essere in buoni rapporti con un certo Santos che usciva per Mantra Vibes, etichetta di Expanded di Mr Marvin insieme al suo socio Christian Hornbostel, che oltretutto faceva il programma 100% rendimento su Radio Italia Network. Mi misi in combutta con Santos, il cui primo disco venne suonato da Norman Cook, ci passavamo i dischi da ascoltare, grandi telefonate, usciamo con “La Ra Ra Ri”, pezzo che per 3 minuti sembra house e poi esplode sta cantilena commerciale cantata da Sabino Contartese. Era un modo per farlo piacere anche ai dj underground infatti Ralf lo inserì su Discoid, una rivista che girava intorno al Disco Più di Rimini, nella sezione curata da lui ‘Touch and Go’ e poi finì anche al terzo posto della Deejay Time di Albertino. Continuamo nell’avventura e nel 2000 tiriamo fuori “Camels”. Disco estate di Ibiza e Top 10 in Inghilterra, nonché ultimo disco strumentale presente in una chart inglese. Solo per l’Inghilterra pagarono 250.000 sterline di anticipo un’etichetta del Ministry of Sound. Andavamo tutte le settimane in Inghilterra e il primo dj set di Santos è stato al Fabric e il primo disco lo mise a 45 invece che a 33. E mi ricordo anche che arrivò il manager dei Daft Punk per Decked Out. La prima domanda che ci fece fu: ‘volete volare sempre in business o per l’Europa va bene anche l’economy?’. Da qui il rapporto con l’Expanded cambiò e iniziai a decidere i dischi non solo a livello internazionale, nonostante fossi sempre stato quello che aveva l’impronta più underground. Mi sentivo di avere il controllo della situazione e non ero più schiavo della dance made in Italy; potevo rischiare un po’ di più. Ero in fotta con la breakbeat, big beat e nel 2007 “Mantra Breaks”, sotto etichetta di Mantra Vibes, vinse come migliore etichetta del genere (fatto dagli inglesi eheh).
Perché Hell Yeah?
Volevo iniziare un rapporto, attraverso un distributore tedesco che si chiama Intergroove, che voleva essere più “techno”. Dischi di Oliver Koletzky, Santos remixato dagli Radioslave… usciamo con 6 dischi fino a che nel 2008 Giovanni Natale, mio boss in Expanded, con l’arrivo del digitale, perse un po’ la passione ma anche i numeri, e decise di gestire solo il suo catalogo. Mi chiese se volessi continuare autonomamente, aiutandomi un po’ con l’amministrazione ma il rischio sarebbe stato tutto mio. Unica cosa che potevo portarmi via era Hell Yeah e lo ammetto, il nome non mi faceva impazzire e non mi rappresentava molto, ma ho iniziato a vederla come un’etichetta contenitore, che non fa un genere preciso. Quello era il periodo più scuro della discografia, ero passato dal lusso al momento in cui ognuno poteva fare un disco. Non mi sono dato per vinto e ho costruito un mio catalogo, puntando su uscite che possano generare guadagno anche in un futuro. Bisogna rimboccarsi le maniche e continuare, perché in questo mestiere non sai mai: il prossimo disco potrebbe essere quello che ti fa la svolta.
Quanto costa fare un disco?
Se vuoi fare l’uscita in digitale 0. Fai la tua etichetta che ti costa 0, sei distribuito ovunque insieme ai dischi delle major. Non ci vogliono particolari accorgimenti, ecco perché ce ne sono così tante. Però è da sottolineare che anche per il digitale sta iniziando a valere la regola della selezione naturale.
Quindi come si guadagna con l’etichetta?
Vendita dei dischi, degli mp3 e dalla gestione dei diritti. Poi c’è la pubblicità, la promozione e il management a 360 gradi. Quando ho iniziato le etichette facevano le etichette, uscendo con dischi e edizioni musicali. I dj si vendevano le serate. Oggi non c’è più discografia pura, è davvero difficile. E non esistono nemmeno tanti artisti che riescono a vivere di solo musica. Io lavoro per far si che i miei artisti si licenzino dai loro primi lavori per concentrarsi solo su questo.
Qual è stata l’uscita con cui hai avuto più successo? E quella di cui, per qualche motivo sei più fiero?
Partiamo dal presupposto che come mi dicevano i discografici vecchia scuola io sono uno che fa i dischi che vorrebbe ascoltare. Mi piace poi seguire il principio dell’Expect the Unexpected, mi piace sorprendere e fare uscire lavori differenti fra loro. Quindi detto questo, di certo le mie prime uscite hanno venduto di più perché il periodo era più favorevole. “Music From The Heart” di Oliver Koletzki è quello che forse ha avuto maggiore successo commerciale. Un disco che ascolterò sempre è quello del 3iO, di cover jazz di classici della musica dance alternativa, anche se non ha funzionato troppo dal punto di vista delle vendite.
Come scegli gli artisti?
Se ti trovi bene in trattoria, sei già a metà dell’opera. Prima se frequentavi negozi di dischi, incontravi gli artisti, e nascevano connessioni. Proponevi di collaborare, avere un rapporto di stima e fiducia reciproca, poi si tenta di alzare l’asticella.
Chi cura le grafiche di Hell Yeah?
Il logo lo ha disegnato Neverending detto anche Rocco Pezzella detto anche il Boghe. Lui ha curato le prime uscite. A me piace avere un’identità grafica rispetto ad un artista, diventa una strategia aziendale e da continuità. Le mie etichette preferite come Mo Wax o Wall of Sound portano avanti questo tipo di discorso. Te ne accorgi soprattutto quando hai fatto 30 o 40 uscite, quando le vedi tutte in fila su Beatport, per esempio. In questo modo io creo anche una vetrina, do la possibilità agli artisti di esprimersi. Ho poi incontrato Andrea Amaducci, in un periodo in cui avevo la testa piena di thc (questo lo puoi scrivere tanto Damir Ivic ha scritto che prendevo le pastiglie) lui è un artista di Ferrara e abbiamo iniziato a lavorare insieme a stretto contatto. All’inizio su 300 copie di vinili, 300 erano fatte a mano, quindi diverse ed originali, sono delle vere opere d’arte! Era un lavoro però impegnativo, soprattutto quando cerchi di mantenere una frequenza alta di uscite dei dischi. Oggi, tutto quello che è Hell Yeah ha la sua firma. Abbiamo anche rifatto il logo, per una compilation per il Giappone, ed è fatto come un collage e l’obbiettivo è introdurlo come logo ufficiale. Le uscite di Balearic Gabba Sound System invece sono curate da Federico Lanaro, artista di Rovereto, che è stato capace di concretizzare la visione di questo progetto.
Nuove uscite? Nuove collaborazioni?
E’ uscito da poco il disco di Dimitri From Paris e DJ Rocca ‘Disco Shake’, è un disco onesto, è un disco che vuole essere disco, è un disco disco. C’è il remix di Tom Moulton che ha inventato il remix, amico di Dimitri: é riuscito a coinvolgerlo ed è un onore averlo dentro. E’ uscito poi il disco ‘Hoshi’ di Tempelhof con Gigi Masin, from Venezia, che ha fatto 2 album tra gli ‘80 e i ‘90, campionato anche da Björk. Nel 2013 è stato coinvolto in una ristampa di best of di un’etichetta di Amsterdam e lui è tornato prepotentemente in auge. I Tempelhof hanno grande successo di critica, il live poi è fantastico, si sono cimentati in questo disco più ‘diurno’ perché loro di solito sono molto più dark. Mini album di Telespazio, progetto di Fabrizio Mammarella, che per me è uno dei dj più bravi della nuova generazione in Italia, da lui imparo sempre qualcosa, mi tira sempre fuori dei dischi che non conosco. C’è una stima reciproca tale che stavolta non fa uscire il disco sulla sua etichetta Slow Motion ma sulla mia. Ci sarà un disco di Enzo Elia con Rockerillo, cantante jazz italiano molto famoso. Ci sarà l’album di Luminodisco, artista di Roma, che si chiamerà Understory.
Hai un progetto come dj. Il Balearic Gabba Sound System. Raccontaci un po’.
Quando avevo 18 anni suonavo musica gabber, techno mi piaceva un sacco picchiare come un forsennato ma se volevo metter dischi dovevo aspettare le 3.30. Poi diciamo che passano gli anni e arrivi ad avere un gusto più raffinato così ho scoperto José Padilla, Jon Sa Trinxa, loro parlano di un caleidoscopio di generi, di mettere i dischi in un modo che apparentemente non ci sta ma in realtà prende una forma. Poi questi dj negli anni ‘80 a Ibiza dovevano avere una grande cultura musicale, conoscere tutto ciò che andava nei diversi paesi europei e in qualche modo convogliare il tutto in un solo dj set. E’ un po’ da questa concezione che nasce ‘Expect the Unexpected’ anche nel dj set: ho capito, soprattutto nel periodo in cui facevo i warm-up, che era importante rallentare e anche fare conoscere alle persone musica nuova e creare un percorso coerente. Balearic Gabba Sound System si ispira un po’ al progetto U.N.K.L.E. di James Lavelle della Mo Wax che aveva DJ Shadow a fargli la musica. Anche io ho voluto creare un collettivo di persone che hanno una visione comune: c’è Enzo Elia, Everest Parisi, Bjørn Torske che è la nostra guida spirituale, poi Prins Thomas ci chiede di fare un disco. C’è pure mio fratello nella bio ma perché fa da mangiare. E’ il Sound System all’inglese, dove più teste possono raggiungere più risultati.
[Hell Yeah sclero collage by Andrea Amaducci]