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[tab title=”Italiano”]Non è possibile parlare di UK techno senza nominare la Blueprint Records e l’influenza che la label londinese ha esercitato negli ultimi due decenni. Fondata nel 1996 da James Ruskin e Richard Polson nel cuore della scena underground della capitale britannica, Blueprint è nata come piattaforma musicale per una ristretta cerchia di produttori: gli stessi Ruskin e Polson (e il loro duo Outline), Oliver Ho e Surgeon. Dopo la prematura scomparsa di Polson, la label ha interrotto la sua attività fino al 2009, anno in cui Ruskin ha ripreso il progetto Blueprint mantenendone la forte identità – innegabilmente costruita sulla qualità piuttosto che sulla quantità – ma ampliandone gli orizzonti, coinvolgendo infatti alcuni dei nomi chiave della scena britannica: oltre ai veterani Regis e Mark Broom, Sigha, Lakker e Samuel Kerridge, per citarne solo alcuni. In occasione del ventesimo anniversario del suo labour of love, James Ruskin ce ne racconta l’evoluzione con uno sguardo al futuro.
Innanzitutto buon compleanno! Blueprint Records ha appena compiuto vent’anni e i festeggiamenti vedono in uscita (a fine maggio) una compilation di tracce 100% unreleased, “Structures And Solutions“. Potresti dirci qualcosa su questo disco? La tracklist rivela alcuni nomi chiave dell’etichetta e figure leggendarie della scena techno britannica accanto ad artisti più giovani e debutti su Blueprint. Come hai scelto gli artisti coinvolti? L’idea era quella di rappresentare il sound Blueprint e la sua evoluzione negli anni?
Volevo riuscire a realizzare qualcosa che fosse un po’ diverso dalla solita compilation tutta rivolta al passato e trovare però il modo di includere gli artisti coinvolti fin dalla fondazione dell’etichetta insieme ai nuovi ingressi e agli artisti che volevo fossero parte del disco. L’idea di concepire questo progetto integrando le persone che sono state il cardine del nostro percorso insieme ad una nuova generazione di produttori mi è sembrata la via perfetta per inaugurare un nuovo capitolo della nostra storia. C’era un rischio ed era quello che alla fine venisse fuori una raccolta troppo disomogenea di tracce: invece, appena la compilation ha preso forma, è stato subito chiaro che ci fosse una coesione che avrebbe potuto svanire del tutto essendo coinvolti produttori così diversi.
Hai appena pubblicato “Burning Heretics” di Oliver Ho, che nel 1996 fece il suo esordio personale proprio su Blueprint, con la seconda uscita dell’etichetta. Sembra quasi uno specchio, un’occasione per guardare agli inizi e vedere come si sono evolute le cose. Potresti raccontarci l’atmosfera in cui nacque Blueprint? Qual era l’idea di sound che stava alla base del progetto? In che modo il rapporto con Richard Polson e poi con Oliver Ho diventò una piattaforma per svilupparlo?
Il mio rapporto con Richard era nato molti anni prima che Blueprint fosse anche solo concepita. Vivevamo a stretto contatto, passando molto tempo nei negozi di dischi e nei club. Tramite delle date saltuarie che facevo come dj nei primi anni Novanta entrai in contatto con delle persone che avevano messo su dei piccoli studi e questo incontro fu un catalizzatore perché io e Richard iniziassimo a pensare di fare musica. Poco dopo iniziammo a investire in attrezzature quei pochi soldi che riuscivamo a mettere insieme, cosa che quindi ci portò a fare un paio di dischi e a collaborare con una casa di distribuzione che potesse agevolarci nell’avviare la nostra label. All’epoca c’erano così pochi canali per quello che volevamo realizzare che fondare un’etichetta ci sembrò la strada più logica per andare avanti e per avere pieno controllo sul nostro lavoro. Mentre eravamo in piena pianificazione, per puro caso incontrai Oliver tramite un amico comune e lo convinsi a partecipare, dopo avergli spiegato il nostro progetto e avergli chiesto di inviare una demo. Non avevamo alcun senso del business nè esperienza nel lavorare autonomamente, ma quello che facevamo ci dava la possibilità di canalizzare i nostri sforzi e dedicarci alla musica con le nostre regole e sotto il nostro controllo. Avevamo mezzi sufficienti per registrare le tracce, un’etichetta per farle uscire e una rete per diffondere la nostra musica, così in un intervallo di tempo piuttosto breve ci ritrovammo ad essere totalmente indipendenti.
Quegli anni, la prima metà dei Novanta, furono cruciali per la scena techno britannica: la transizione dai free party ai club, il Lost di Steve Bicknell e la connessione con gli Stati Uniti. Ricordi quello scenario? In che modo quei party influenzarono la tua ricerca musicale? Quanto fu importante l’influenza di Mills, May, Hood in quel contesto?
Nei primi anni Novanta c’erano davvero pochi posti dove andare e Lost era la nostra casa in quel periodo: era il posto dove andavamo per sentire la musica che volevamo, in un ambiente che funzionava. Un ambiente incentrato sulla musica e sulla carica che generava, non c’era bisogno di spazi luccicanti e luci elaborate, in quanto avrebbero sminuito ciò che contava veramente. C’era quasi una certa brutalità che credo filtrasse attraverso alcune delle radici industrial che erano alla base di quel nuovo filone della techno. Andavamo al Lost il sabato e poi il lunedì si andava da Fat Cat Records a Covent Garden a cercare la musica che avevamo ascoltato, questo era il rito. Non avevamo internet per trovare quello che cercavamo, per essere informati dovevamo stare nei club e nei negozi di musica e ascoltare quei pochi show radiofonici che se ne occupavamo. Jeff Mills e Robert Hood suonavano lì [al Lost] regolarmente ed è lì che li ho visti entrambi per la prima volta. Esercitavano chiaramente un’influenza su di noi, insieme a Steve [Bicknell], e l’impatto di quel periodo ci ha spinti avanti… Tutti noi volevamo sentire i nostri dischi suonati al Lost!
In quel periodo emerse anche il “Birmingham sound”. In che modo la connessione con Surgeon e Regis e con tutto il fenomeno Downwards influenzò la direzione che Blueprint stava prendendo?
Non penso che nessuno di noi stesse guardando in una direzione particolare, in quanto la nostra programmazione era a breve termine, tutta focalizzata sulla release immediatamente successiva. Tony [Anthony Child aka Surgeon] fu fondamentale nel riunire tutti noi e lo stimolo più importante fu il fatto che malgrado venissimo da città diverse, il supporto reciproco era immediato: quello che contava per noi era produrre e pubblicare il disco successivo così da portare avanti la nostra mission. C’era un piccolissimo nucleo di persone che, attraverso questo filo conduttore comune, sostenevano il lavoro gli uni degli altri e si era creato un vero senso di solidarietà. Da quando le nostre strade si sono incrociate – praticamente subito – abbiamo continuato a lavorare insieme in vari modi fino ad oggi.
Nel 2006, dopo la triste scomparsa di Richard Polson, Blueprint prese una pausa per poi tornare in attività nel 2009. Quell’interruzione ha in qualche modo cambiato il tuo approccio come label owner? Com’è stato rivolgersi ad un mercato e ad una scena che in quegli anni erano cambiati profondamente?
Davvero non sapevo come l’etichetta sarebbe andata avanti dopo la morte di Richard e ci volle un po’ di tempo dopo il break per realizzare quanto le cose fossero davvero cambiate! Non credo che il mio approccio fosse radicalmente diverso ma percepii la necessità di muovermi al passo con i tempi e avere un approccio leggermente più strutturato, affinché la label, e in fondo quello che Richard e io avevamo iniziato, potesse continuare a crescere e affinché si creassero le condizioni per espandere il roster e lavorare con una nuova generazione di producer che portassero avanti la musica. È stato importante prendere atto di come la gente volesse fruire della musica, anche se era completamente diverso rispetto a quello a cui ero abituato e con cui mi ero confrontato fino al passaggio ai media digitali. Inoltre una parte del panorama musicale intorno alla techno si era indirizzato verso qualcosa che aveva davvero poca importanza per me, ma come scena siamo riusciti a riorganizzarci e invertire la rotta.
Dopo il riavvio il roster dell’etichetta è stato significativamente ampliato, includendo da un lato alcuni dei nomi più interessanti emersi nella scena UK anno dopo anno, dall’altro le tue prolifiche collaborazioni con Regis come O/V/R e con Mark Broom come The Fear Ratio. Il catalogo oggi comprende una certa varietà di approcci stilistici alla produzione, ma tutti accomunati da un’atmosfera, da una qualità, da qualcosa che rende davvero tutte le uscite parte di un insieme coerente. Cos’è quel “qualcosa” nella tua mente? E come condiziona la tua demo policy e il processo attraverso cui selezioni i nuovi talenti?
Mi è stato chiesto tante volte cosa io cerchi in una demo e cosa sia quel “qualcosa” e ad essere sincero non è nulla che io possa spiegare o quantificare. Ci sono state così tante volte in cui mi è stata inviata una demo presentata come un lavoro ispirato al “Blueprint sound”: in queste occasioni in genere finisco con il chiedermi cosa sentano quando ascoltano la nostra musica perché queste demo sono proprio quelle tendenzialmente più lontane dalla coesione a cui ti riferivi. Naturalmente ci sono eccezioni in questo ma in generale è un approccio che funziona poco, a meno che il produttore non esprima ciò che ha in mente, piuttosto che focalizzarsi su quella che ritiene essere l’aspettativa. Quello che conta per me è una certa onestà nel fare musica: penso sia fondamentale che l’artista creda in quello che sta facendo ma sia al tempo stesso consapevole che è molto più importante trovare la propria identità piuttosto che avere un disco in uscita il prima possibile. Mi sono sempre sentito a disagio nel dover giudicare il lavoro di altri artisti, proprio perché qualsiasi musica è intrinsecamente soggettiva. Questa è probabilmente la parte più difficile della gestione di un’etichetta – soprattutto da quando il roster ha iniziato ad espandersi oltre i membri originari – ma il motore che spinge avanti la label è proprio il processo di collaborazione e confronto con gli artisti nella realizzazione ciascuna uscita.
Credo che “Post-traumatic Son” di O/V/R (e la trilogia di remix che lo ha seguito) sia una pietra miliare nella rinascita dell’etichetta e insieme un disco chiave della techno contemporanea, un “instant classic” direi. Sei d’accordo? Quali sono i dischi che senti come i più rappresentativi del lavoro di Blueprint negli ultimi anni?
È difficilissimo individuare le uscite più rappresentative proprio perché penso ci siano state tante pietre miliari ma ogni release nel catalogo dell’etichetta è rappresentativa di determinati periodi di questi vent’anni di Blueprint e ognuna ha una storia. “Post-traumatic Son” è stato comunque un disco importante, è uscito proprio nel periodo di transizione della label dopo l’interruzione ed è certamente uno degli highlight per me, per diverse ragioni. Tutti gli elementi si sono intregrati perfettamente e la fotografia di Bud’s MacLachlan per ciascun 12” ha legato la natura claustrofobica della musica all’aspetto visuale, mi è sembrato fosse necessario. Essere riusciti ad associare tutti gli aspetti in modo che funzionassero e dialogassero gli uni con gli altri è quello che mi ha colpito di questo disco quando lo abbiamo realizzato.
Recentemente avete celebrato il ventesimo anniversario di Blueprint al Berghain? Com’è andata? E più in generale, qual è il concept delle label night che organizzate ormai da alcuni anni? Come curate questi party?
Organizziamo una label night al Berghain ogni anno da diversi anni ormai ma questa è stata particolarmente speciale, è stata la celebrazione di questo traguardo, nonché la prima data del tour per il ventesimo anniversario. L’organizzazione di tutte le label night è relativamente semplice, lavoriamo con promoter e club in modo da stabilire una line-up che vada bene per tutte le persone coinvolte. Lavoriamo con più autonomia con gli eventi a Londra che infatti sono realizzati direttamente da noi dall’inizio alla fine e sono quelli che tendenzialmente sono più costosi, ma comunque l’idea è sempre quella di realizzare un evento completo e articolato che rappresenti Blueprint, la storia e lo stato dell’arte della techno.
La tua routine sembra piuttosto intensa, articolata tra la gestione dell’etichetta, il tempo dedicato alla produzione e le date come dj (e i relativi spostamenti). Come interagiscono questi ruoli nella tua vita? Ce n’è uno che preferisci?
Amo ognuno di questi aspetti ma per ragioni profondamente diverse. Direi che la gestione e l’amministrazione dell’etichetta è l’aspetto per il quale sono meno attrezzato, in quanto l’organizzazione non è certo uno dei miei punti di forza, ma malgrado tutto il caos e l’incertezza la label è sopravvissuta per tutto questo tempo e attraverso periodi caratterizzati da enormi cambiamenti nel sistema. Bisogna essere realistici rispetto ai propri obiettivi ed essere pronti ad abbracciare diverse idee e diverse modalità di espressione del proprio messaggio e, cosa più importante, mantenere il proprio valore e la propria identità e avere sempre un obiettivo in quello che si fa. Il tempo speso per gli spostamenti per gli eventi è probabilmente l’aspetto che mi piace di meno, è decisamente un tempo che trascorrerei volentieri facendo altro. Ci sono alcuni periodi in cui mi ritrovo diviso tra il djing e la produzione e può essere veramente difficile, soprattutto quando sei nel bel mezzo di un progetto importante, hai raggiunto una certa continuità creativa e vuoi solo continuare a lavorare senza interruzioni. In definitiva però sono due aspetti intrinsecamente legati per me, esistono come un unicum e si alimentano a vicenda.
Come label owner hai vissuto direttamente gli alti e bassi del mercato del vinile, la sua cosiddetta rinascita e i suoi effetti, come ad esempio i ritardi nella stampa. Come descriveresti la situazione attuale e le tue conseguenti scelte a proposito di formati?
Credo fosse solo una questione di tempo perché gli amanti della musica e i collezionisti tornassero o iniziassero a collezionare un oggetto tangibile, con un valore visivo e tattile. Il vinile rappresenta certamente un approccio ritualistico all’acquisto e all’ascolto della musica e questo aggiunge così tanto all’esperienza, coinvolge e appassiona le persone in un modo in cui il download di un file non potrà mai fare. Il processo attraverso cui cerchi, compri e infine metti un disco sul piatto lo rende la fruizione un evento. L’aspetto negativo di questa nuova ribalta è l’effetto che i ritardi nella stampa hanno su piccole etichette indipendenti, fiorite proprio grazie all’immediatezza, che trovano soffocante trovarsi a dover programmare tutto con così largo anticipo. Prima avevamo tempi di attesa di più o meno quattro settimane, ora sono diventati di tre mesi. Poi, se un’uscita va bene, abbiamo l’incubo della ristampa, con tempi di attesa che uccidono l’andamento dell’uscita, perché il mercato diventa saturo e le major monopolizzano i pochi pressing plant che rimasti. Dobbiamo sperare che ci si ricordi di come le piccole etichette indipendenti abbiano mantenuto in vita i plant, mentre le major abbandonavano il vinile, ma ne dubito.
Questo ventesimo anno è già stato piuttosto pieno, con il debutto di Rommek, il ritorno di Surgeon dopo quasi due decenni e il già citato EP di Oliver Ho. Cos’altro c’è in cantiere per Blueprint nel 2016?
Naturalmente abbiamo la compilation che uscirà a fine mese, mentre il prossimo EP è un remaster di uno dei 12” di Oliver Ho del 1999, “Awakening The Sentient”. Questo disco fu un precursore del primo album di Oliver Ho, “Sentience”, ed è un’istantanea di quel periodo che di certo ha ancora il suo valore. A seguire c’è il nuovo EP di O/V/R, il primo dopo “Post-traumatic Son”, che uscirà a luglio. Poi abbiamo il mio 12” “Consipiracy EP” completamente rimasterizzato che includerà il remix di Surgeon che era stato pubblicato separatamente con la prima delle LTD series di Blueprint. Rumah & Progression continueranno le LTD series e la programmazione proseguirà con nuovi 12” e ristampe per il resto dell’anno.[/tab]
[tab title=”English”]It is not possible to talk about UK techno without mentioning Blueprint Records and the influence the London label has been wielding in the last two decades. Founded in 1996 by James Ruskin and Richard Polson at the core of the London underground scene, Blueprint was conceived as a musical platform for a close circle of producers: Ruskin and Polson themselves (and their duo project Outline), Oliver Ho and Surgeon. After Polson’s premature passing, the label suspended its activity until 2009, when Ruskin resumed the Blueprint project preserving its strong identity – clearly built on quality rather than quantity – but widening its horizons by involving some of the key names of the british scene: the veterans Regis and Mark Broom and then Sigha, Lakker and Samuel Kerridge, just to name a few. On the occasion of the 20th anniversary of his labour of love, James Ruskin recalls its evolution with a look into the future.
First of all, happy birthday! Blueprint Records is now twenty years old and celebration sees a compilation of 100% unreleased material, “Structures And Solutions“, coming out in late May. Could you tell us something about this record? The tracklist shows some key names of the label and legendary figures of the British techno scene alongside with young artists and Blueprint debuts. How did you choose the artists involved? Was there the idea of representing the Blueprint sound and its evolution through the years?
I wanted to be able to put something together a little different from the usual retrospective compilation and find a way to incorporate the artists that have been involved since the labels inception, with the newer signings and artists that I have wanted to be involved. I thought the idea of bringing together the core people from our history and a new generation of producers for this project was something that I felt was the perfect way to go into our next chapter. There was a danger that in the end it could have ended up a disparate collection of tracks but what I found interesting was as the compilation took shape it was clear there was a cohesion that could have been completely lost with so many different producers involved.
You just released “Burning Heretics” by Oliver Ho, who debuted on Blueprint in 1996 with the label’s second release. This seems a mirror to look back to the start and see how things developed. Could you portray the atmosphere in which Blueprint was born? What was the really essential idea of sound behind the project and how did the relationship with Richard Polson and then with Oliver Ho become the base to create it?
My relationship with Richard began many years before Blueprint was conceived. We lived close to one another and spent our time in record shops and clubs. Through doing the occasional DJ date in the early 90’s I came into contact with people that had small studio set ups and this was the catalyst for myself and Richard to start looking at making tracks. Shortly after this we began pouring what little money we could get together into equipment which then led to us releasing a couple of records and becoming involved with a distribution company that could facilitate us putting together our own label. There were so few outlets for what we wanted to record back then that this seemed the logical way to move forward and be in complete control of our output. By pure chance while planning the label I met Oliver through a mutual friend and persuaded him to come on board after explaining our plan and getting him to send us a demo. We had no business sense or history of working for ourselves, but what we did have now was an outlet to channel our efforts and work with our music under our terms and control. We had enough equipment to record tracks, a label to release on and a network to get the music out there, so in a fairly short space of time we had become totally self sufficient.
Those years, early and mid 90s, were crucial for the British techno scene: the transition from free parties to clubs, Steve Bicknell’s Lost and the connection with the US. Could you recall that musical landscape? How did those parties shape your musical research? How important was the influence of Mills, May, Hood in that frame?
During the early 90’s there were very few places you could go and Lost was our home during this time, it was where we went to hear the music we wanted in an environment that worked. It was an environment that centred around the music and the pressure it created, there was no need for sparkling venues and elaborate lighting as this detracted from what was important. There was almost a brutality to it that I guess filtered through from some of the industrial roots that underpinned this new wave of Techno. We went to Lost on the Saturday, then on the Monday to Fat Cat Records in Covent Garden looking for the music we heard, that was the ritual. We didn’t have the internet to search things out, we had to be in the clubs and record shops and listen to the scarce radio shows who catered for this to be informed. Jeff Mills and Robert Hood would DJ there regularly there and it’s where I saw both of them for the first time. They were clearly an influence on us along with Steve, and the impact that period of time had carried us forward… We all wanted to hear our records played at Lost!
That time also saw the emergence of “the Birmingham sound”. How did the connection with Surgeon and Regis and the whole Downwards thing influenced the direction that Blueprint was taking?
I don’t think any of us were looking at a particular direction, in as much as planning went as far as getting the next record out. Tony was very instrumental in bringing us all together, and what was really interesting was that we were from different city’s but the support was there immediately because what was important to all of us was the next record being made and being released so that we could continue our mission. There was a very small core of people that through this common thread supported each others efforts, there was a real sense of solidarity, and from our paths crossing almost immediately we have continued to work with one another in various ways to this day.
After the sad passing of Richard Polson in 2006, Blueprint took a break coming back in 2009. Did that hiatus change your approach as a label owner somehow? What was it like to face a market and a scene that had changed a lot in those years?
I really didn’t know how it was going to continue after Richard’s passing, and it took a while after the hiatus to realise how much things had really changed! I don’t think my approach was radically different but I saw the need to move with the times and to have a slightly more structured approach so that the label and ultimately what Richard and I had begun could continue to move forward and be in a position to expand the roster and also work with a new generation of producers that will take the music forward. It was important to acknowledge how people wanted to consume music even if it was alien to what I was used to and had been dealing with up until the shift towards digital media. Part of the musical landscape surrounding Techno had also shifted towards something that had very little relevance to me, but as a scene we were able to regroup and turn things around.
Since the restart the label roster has been significantly widened, including some of the most interesting names emerging in the UK scene year by year alongside your prolific collaboration with Regis as O/V/R and with Mark Broom as The Fear Ratio. The back catalogue is comprehensive of a certain variety of stylistic approaches to production, but nonetheless all sharing a vibe, a quality, something that really makes all the releases part of a coherent whole. What is that “something” in your mind? How does it affect your demo policy and the process of picking up newer talents?
People have asked me many times what I am looking for in a demo, and what that ‘something’ is and to be totally honest it’s not anything that I can explain or quantify. There has been so many times when I have been sent a demo that I am told has been created around the ‘Blueprint sound’ and I end up wondering what they are hearing when they listen to the music that has been released because these are the ones that tend to be the furthest from the cohesion that you mentioned. There are obviously exceptions to that but on the whole this approach rarely works unless the major factor is what the producer is feeling, not what they believe is wanted. What is important to me is an honesty in the music and that the artist has a belief in what they are creating but is also aware that it is far more important to fully realise your ideas rather that getting a record released as quickly as possible. I have always found it uncomfortable having to critique another artists work as of course any music is so subjective, and this is probably the hardest part of running the label, especially since the roster began to increase beyond the original members, but the process of working with the artists to realise each release is what pushes the label forward.
I feel that O/V/R’s “Post-traumatic Son” (and the remix trilogy which came after) was a milestone in the resurgence of the label and a key record of contemporary techno too, an instant classic I would say. Do you agree? Which are the records that you feel as the most representative of the Blueprint labour over the past years?
It’s really difficult to pinpoint releases that are most representative, as I think there has been a lot of milestones, but each release in the labels catalogue represents snapshots of certain times in Blueprint’s twenty year history, and each release has a story. “Post-traumatic Son” was an important record though as it was at the transitional time of the label after the hiatus, and is definitely one of the highlights for me for various reasons. All of the elements came together perfectly, and Bud’s MacLachlan’s photography for each 12 tied the claustrophobic nature of the music with the visual aspect and feel it needed. Being able to get all of the aspects together so that they work with each other is what is struck me about this record as we put it together.
You recently celebrated Blueprint’s 20th anniversary in Berghain. How was it? And more generally, what is the concept of the label nights you have been doing for a few years now? How do you curate these parties?
We have had a Blueprint label night at Berghain every year for several years now but this one was particularly special as it was the celebrating this milestone and was also the first on the 20th anniversary tour. The curation for all the nights is relatively simple in that we work with promotors and venues to incorporate the roster of artists in a way that works for everyone involved. We have more scope with the London events as these are arranged by us from the ground up, and these tend to be more expansive, but the idea is to always have a cohesive night that represents Blueprint, the history and the current state of Techno.
Your schedule seems to be quite intense, switching from label management to studio time and traveling for gigs. How do these roles interact in your life? Do you enjoy one of them the most?
I enjoy every aspect but for very different reasons. I would say label management is the side of things that I am least equipped for as organization is certainly not one of my strong points, but through all the chaos and uncertainty the label has survived for this length of time and through periods that saw huge changes in the industry. You have to be realistic with your goals and be prepared to engage different ideas and ways of putting your message across and most importantly remain relevant and continue to have a purpose in what you are doing. The time spent in transit getting to gigs is probably my least favourite aspect as that is definitely time I would rather be doing other things. There are certainly times that I am torn between djing and production particularly if you are in the middle of a big project and have hit a certain flow and want to push forward without breaking away as this can be difficult, but essentially for me the two are intrinsically linked and exist as a whole and also feed off of each other.
As a label owner you have experienced the ups and downs of the vinyl market, it’s so-called renewal and its effects such as pressing delays. How would you depict the current situation and your subsequent choices about formats?
I think it was only a matter of time before music lovers and collectors returned to, or began collecting something that is tangible and has a visual and tactile value. Vinyl is certainly a ritualistic approach to buying and listening to music, and this adds so much to the experience, it involves and engages people in a way that downloading a file never can, the process you go through to purchase, and ultimately place the record onto a turntable makes it an event. The downside to this resurgence is the effect that the pressing delays have on small independent labels that have thrived on spontaneity and find it suffocating having to schedule so far in advance. We used to have something like a four week turnaround but now we are looking at three months, we then have the nightmare of repressing if a title goes well, with turnaround times killing the flow of a release as the market becomes swamped and the majors monopolise the few plants that are left. We have to hope that it is remembered that the small independents kept the plants alive whilst major labels abandoned vinyl, but I doubt it.
This 20th year has been pretty full already, with the debut of Rommek, the return of Surgeon after almost two decades and the above-mentioned EP by Oliver Ho. What is next for Blueprint in 2016?
We obviously have the Compilation which will be released next month, then the next EP is a remaster of one of Oliver Ho’s 12’s from 1999, ‘Awakening The Sentient’. This record was a precursor for Oliver’s first album ‘Sentience’ and is a snapshot of that time that certainly retains its relevance. Following that there is a new O/V/R EP, the first since ‘Post-Traumatic Son’ that will be released in July. We then have a completely remastered 12 from myself ‘Conspiracy EP’ which will include the Surgeon remix that was released separately on the first of the Blueprint LTD series. Rumah & Progression will also continue the LTD series and the schedule will be continuing with new 12’s and reissues for the rest of the year.[/tab]
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