Qualche tempo fa avremmo parlato di Bienoise – Alberto Ricca all’anagrafe – come qualcuno da tenere d’occhio; trascorrono pochi anni e di acqua sotto i ponti ne passa moltissima, per via dell’attualità musicale così bulimica e frenetica, sì, ma nel caso specifico soprattutto per la competenza e la lungimiranza del musicista piemontese. Non è un caso che Bienoise sia stato selezionato dalla RBMA per rappresentare l’Italia a Tokyo; non è un caso che i suoi primi lavori siano usciti per Concrete Records e White Forest Records; non è un caso che il 2018 l’abbia visto produrre un disco affascinante quanto ingegnoso intitolato “Most Beautiful Design”, uscito sotto la prestigiosa Mille Plateaux… Potremmo continuare ancora – e nella lunga chiacchierata che segue lo facciamo eccome, perché abbiamo trovato un interlocutore affabile che si interroga in prima persona sul qui e ora. La sua arte non può che esserne una splendente conseguenza.
Picasso sosteneva di non aver mai fatto tentativi o esperimenti ma di aver usato di volta in volta il linguaggio/stile che sentiva più appropriato. Ho pensato a questo assunto ascoltando “Most Beautiful Design”, ti ritrovi in queste parole?
Lo trovo un accostamento straordinariamente lusinghiero, ti ringrazio davvero, anche perché, con tutta l’umiltà possibile, devo dire che mi ci ritrovo molto in questo discorso. In tutto ciò che faccio c’è sempre una sorta di esigenza a monte. In questo caso, con “Most Beautiful Design”, ho sfruttato una mia grande passione che è quella di portare al limite gli strumenti, vale a dire vedere cosa succede quando un mezzo arriva al punto in cui non riesce più a fare esattamente quello per cui è stato costruito. Intendiamoci, non è una nulla di originalissimo, questa filosofia è stata sfruttata in migliaia di modi da tanti musicisti, a partire dall’amplificatore in distorsione fino ai dischi rigati degli Oval negli anni ’90, ma ciò che rende il mio studio abbastanza singolare è il fatto che ho lavorato sul file digitale, che trovo essere un formato vituperato rispetto all’analogico, laddove invece ha delle caratteristiche che, belle o brutte, rimangono comunque uniche.
Sostanzialmente in “Most Beautiful Design” hai composto dei brani in formato mp3 e li hai poi, per così dire, “scarnificati” il più possibile, per vedere cosa sarebbe successo.
Di più ancora, l’idea era vedere se fosse possibile utilizzare in maniera espressiva questa tecnica di sottrazione di informazioni dal file digitale. Gli mp3 a bassa qualità hanno già questo spettro sonoro un po’ sgranato, e abbassando ulteriormente il bit-rate, e quindi la velocità di trasmissione, si ottiene un risultato che mi suggeriva qualcosa, quindi sono andato avanti e avanti in questo processo, fin dove sono riuscito a giungere. La composizione stessa è asservita alla bassa frequenza di ascolto.
Hai sottratto frequenze fino a trovare l’essenza del suono?
Ho scoperto che la bassa fedeltà, anziché cancellare, perché comunque si opera un tipo di filtraggio al ribasso, rivela altro; in pratica non è uno svelare, ma un’operazione che concretamente aggiunge qualcosa alla traccia finita.
Il risultato da te ottenuto è stato così leggero da poter essere infilato in un floppy disk.
Sì, non ricordo esattamente com’è andata perché lavoro a “Most Beautiful Design” dal 2013, però resomi conto della leggerezza dei file mi è venuta in mente questa possibilità, quindi oltre che in formato mp3, che reputo il file della condivisione per antonomasia, il lavoro è uscito su floppy disk. Lo stesso titolo fa riferimento proprio al floppy e lo scelsi quando lessi un articolo interessante sul suo design, che è fatto così bene da non lasciare margine di errore nel suo utilizzo, lo puoi infilare nel lettore solo in un verso, in sostanza è stato progettato affinché l’esperienza dell’utente fili il più liscia possibile, a differenza ad esempio del cd che puoi inserire nell’apparecchio di riproduzione anche capovolgendolo.
(I floppy disk, ciascuno con la sua grafica personalizzata a cura di Sélva; continua sotto)
Non sei nuovo a formati inconsueti per i nostri giorni. L’anno scorso il progetto musicale che condividi con Davide Amici, Merchants, è uscito su cassetta.
È vero ma in quella occasione fu anche un’esigenza dettata dall’etichetta, la Yerevan Tapes, che fa uscire solo musica su cassetta. Sai, avevamo pensato ai cilindri di cera all’inizio, ma è andata diversamente (ride, NdI). Tornando seri, anche pensare a un’uscita su cassetta è stata una sfida, ogni formato suona diversamente e lo si può comprendere ascoltando Merchants in digitale e subito dopo su supporto fisico. Le differenze sono minime ma ci sono.
Con Merchants avete cercato di evocare, attraverso la musica, delle regioni terrestri indefinite, dai confini sfumati, vero?
Sì, siamo partiti con un’idea di musica sostanzialmente techno, anche se poi sono entrate dentro anche molte influenze dub, noi l’abbiamo chiamata techno apolide questa musica, in cui l’aggettivo apolide è di fondamentale importanza, nel senso che ci siamo sforzati di non far percepire all’ascoltatore nessuna etnia particolare, non viene in mente nessun luogo specifico del mondo ma solamente quest’aura di vaga world music, che però non si capisce da dove arrivi.
Alla luce di quello che ci siamo detti finora, sono tentato di farti una domanda “marzulliana”: quanto pesa la musica oggi? Un floppy disk pesa meno di una cassetta, per non parlare di un file mp3… che peso o, meglio, valore diamo alla musica?
Questa è un’ottima domanda, a cui però è molto difficile rispondere. Proprio poco tempo fa parlavo di questo tema con diversi amici musicisti e ci siamo ritrovati tutti uniti nel disgusto di tanta musica che oggi pare solo tappezzeria sonora. So che sembra un po’ un discorso da vecchi, ma lo streaming musicale oggigiorno è costante, per non parlare dell’inquinamento sonoro che troviamo in ogni dove, ovunque andiamo c’è della musica, tra l’altro non sempre appropriata al contesto in cui la si ascolta, perché è spesso scelta da un algoritmo. Tutto ciò si traduce in un continuo flusso di informazioni e quindi di stimoli non richiesti.
Mi viene in mente il futurismo, che agli albori del ventesimo secolo trovò la sua ispirazione nelle cosiddette città dei rumori. Cosa accadrebbe se un compositore riprendesse le lezioni di Luigi Russolo ispirandosi all’oggi in cui il rumore globale è soprattutto già musica?
Hai detto una cosa molto interessante, eh, mi hai ispirato a tal punto che tra due anni faccio uscire un disco su questa cosa che hai appena detto! Non so proprio che tipo di musica potrebbe venir fuori dalla sintesi di questa schizofrenia sonora che c’è in giro, magari qualcosa che sta tra Burial e Chino Amobi, un collage sonoro post-moderno… boh.
Facciamo piuttosto un passo indietro. Mi interessa conoscere la tua formazione. So che hai studiato musica ma che hai anche una laurea in lettere e filosofia, giusto?
Ho studiato pianoforte per una decina d’anni ma in maniera del tutto deviata, perché chiedevo al mio maestro di insegnarmi l’improvvisazione o l’arrangiamento anziché impegnarmi a studiare i brani classici. Per fortuna lui comprendeva le mie esigenze e mi ha sempre saputo dare ciò che chiedevo. La musica elettronica è arrivata a metà di questo percorso, quando ho acquistato il mio primo sintetizzatore e quindi ho iniziato a registrare pezzi col computer, per poi costruire qualcosa partendo da quelle tracce, che poi è sostanzialmente ciò che faccio ancora oggi, il mio modus operandi non è cambiato molto nel tempo. Poi, sì, mi sono laureato in lettere e filosofia, più precisamente il mio corso verteva sul linguaggio dei media con una precisa attenzione al cinema, perché non so se sai che sono un fanatico di cinema, forse più ancora che della musica…
Addirittura?
Sì, è quasi un caso che io lavori nella musica, nel senso che seppure io ami molti generi artistici differenti, per il cinema provo davvero qualcosa di profondissimo. Ad ogni modo nella mia musica cerco sempre di costruire una narrazione, anche se magari questo aspetto non è immediatamente percepibile all’esterno, ma per me c’è. Quindi sono riuscito comunque a creare una specie di ponte tra le due arti.
In che momento la musica è diventata preminente su tutto il resto?
La musica c’è sempre stata nella mia vita, tra lo studio in gioventù, poi la frequentazione di varie band, eccetera, quindi non so dirti quando è diventata la cosa principale… comunque dopo la laurea ho fatto un anno di corso a Roma di scrittura musicale per lo schermo, e questa qui è stata sicuramente una tappa importante del mio percorso. Il mondo delle colonne sonore è una roba assai complessa e quindi non mi ci sono mai buttato appieno, anche perché mi dava fastidio ad esempio quando la gente mi diceva che i miei pezzi somigliavano a delle colonne sonore, perché per me la musica deve comunque avere una dignità che va oltre l’accompagnamento di qualcos’altro. Quindi mi sono iscritto al conservatorio di musica elettronica a Como e lì mi sono reso conto davvero che la musica era la mia strada.
Torniamo su “Most Beautiful Design”, che è uscito per la Mille Plateaux, l’etichetta su cui hanno registrato, tra gli altri, Oval, Tim Hecker, Gas, Alva Noto, Frank Bretschneider, Vladislav Delay… Ci racconti com’è andata?
Questa cosa per me è completamente fuori di testa, ancora non riesco ad abituarmi all’idea. Qualche tempo fa ero alla ricerca di un’etichetta per “Most Beautiful Design” e a un certo punto mi ha scritto un ragazzo che assieme ad Achim Szepanski, il fondatore di Mille Plateaux, voleva rifondare la Force Inc., l’etichetta sorella che pubblicava cose più spinte tipo Alec Empire. Conoscevano le mie robe più vecchie, che erano praticamente breakcore, e mi chiesero un pezzo per una compilation di ripartenza. Amavo anche la Force Inc. quindi accettai subito ma gli feci ascoltare anche ciò che sarebbe diventato “Most Beautiful Design”, che contiene sicuramente molte influenze della musica anni ’90 che ascoltavo su Mille Plateaux, Oval su tutti, che amo smisuratamente. A quel punto mi hanno risposto di aver in testa di rifondare anche quell’etichetta, ma che lì il discorso era più complesso. È finita che dopo un mesetto mi hanno ricontattato dicendo di aver rifondato Mille Plateaux e che sarei stato la prima uscita! C’è poi una nota davvero divertente in questa storia, perché se vai a vedere il numero di catalogo che hanno dato a “Most Beautiful Design” è “MP 1”, perché all’epoca partirono dal numero 3 per qualche strano motivo, quindi vengo prima degli Oval (ride, NdI).
Affrontiamo un altro tema che mi sta particolarmente a cuore: sperimentazione VS fruibilità. Ci pensi a questo rapporto oppure ti concentri sulla prima componente?
Non avrei fatto un disco con delle melodie se non avessi voluto che il disco fosse anche fruibile. Rimane un discorso molto complesso per quanto mi riguarda, è chiaro che se avessi voluto fare un disco che arrivasse a tutti sarei ripartito da “Meanwhile, Tomorrow” e avrei riprodotto in qualche modo quella formula, ma non amo fare questa cosa, non mi interessa seguire le mie orme, a meno che non abbia qualcosa di nuovo da aggiungere. Non mi preoccupo della fruibilità di ciò che faccio, ma ammetto che i dischi di Bienoise non sono difficili, magari la componente di sperimentazione più audace la canalizzo in altri progetti, oppure dal vivo si può calcare di più la mano, diciamo che mi sento appagato perché riesco ad aver un buon controllo sulle cose che faccio.
Mi piacerebbe entrare “virtualmente” nel tuo studio di registrazione. C’è qualcosa che ti ispira e favorisce il processo di scrittura?
Ho uno studio casalingo che in questo momento mi dà molte soddisfazioni, ma è letteralmente un laboratorio, non immaginarti una roba da produttore con una scrivania, la scheda audio e due casse, che comunque ci sono, eh, ma rappresentano la minima parte di un ambiente grosso in cui posso montare una batteria al centro della stanza per registrarla o appendere cose al soffitto se ne ho bisogno. Mi fa comodo così, anche perché spesso registro cose con altra gente e non potevo avere uno spazio angusto. Poi il lavoro vero e proprio è abbastanza disordinato, diciamo che parto da un concetto o da un’idea musicale che mi arriva da un campione oppure da un nuovo metodo di scrittura che sperimento. Non ho alcun pre-set di Ableton o robe che mi permettono di essere veloce, infatti ogni mio lavoro si protrae molto nel tempo prima del termine.
Una provocazione: musica da club VS musica per la testa. Come fai ad affrontare con la stessa ragione sociale dei mondi così diversi? Alcuni cambiano nome… Non so, penso ad esempio a Nicolas Jaar con il suo moniker All Against Logic.
In tanto mi dicono che dovrei avere più moniker, ma fin dall’inizio ho fatto la scelta di non avere nomi diversi per fare cose diverse, vorrei essere percepito, per così dire, “tridimensionale”; mi sta bene che ci sia un po’ di confusione su quello che effettivamente faccio, nel senso che un disco è dubstep e l’altro ambient, però secondo me comunque si coglie una linea di fondo comune, indipendentemente da qual è il genere specifico dell’uscita. Cerco assolutamente di unire tutte queste anime perché in ogni mio brano esplora un certo bisogno, di conseguenza tutti saranno abbastanza diversi l’uno dall’altro.
Torniamo quindi al Picasso citato nell’introduzione.
Eh, già (ride, NdI). Ma soprattutto non vorrei essere percepito come quello che fa quella cosa lì e basta. Nei miei ascolti c’è di tutto, alcuni giorni iniziano ascoltando Venetian Snares, poi mentre mangio ascolto Anna Oxa e il pomeriggio mi faccio dei grandi viaggi di spettralismo degli anni ’80. Per questo per me oggi parlare di differenza tra musica da club e IDM non ha senso…
Speravo mi dicessi questa cosa, sono del tutto concorde! A proposito, anche in occasione del Club To Club 2018 hai dimostrato che si possono mischiare molto le carte. La tua esibizione è stata piena di chiaroscuri e variazioni inaspettate.
Diciamo che per il Club To Club di quest’anno la mai parte razionale voleva fare terrorismo sonoro, perché alle nove e mezzo in una giornata in cui poi suonerà Aphex Twin se fai, per dire, house, diventi dj warm-up e non volevo assolutamente essere percepito così. Inoltre volevo inserire nel set della roba proveniente da “Most Beautiful Design”, il che non è facile perché quello è un disco più da installazione sonora che da club. Però nella mia testa, quella lì era la sfida! Quando salgo sul palco solitamente non sono emozionato, ma a Torino quest’anno è stato diverso, pensa che quando sono sceso dal palco sono scoppiato a piangere. Il calore del pubblico è stato incredibile, quindi questa cosa mi ha incoraggiato a fare anche più del solito. Dal vivo mi porto dietro un settaggio che mi lascia moltissima libertà, posso fare grossomodo ciò che voglio, dal passare i brani così come sono a destrutturarli completamente.
(Bienoise dal vivo; continua sotto)
Volevo fare con te un’altra riflessione, quella sull’odierna esposizione di musica elettronica. Un tempo ad ascoltarla eravamo dei nerd, oggi te la propinano anche all’interno di una qualunque catena commerciale di abbigliamento.
Anche questo è un tema su cui rifletto spesso, perché è chiaro che è meglio sdoganare completamente un genere anziché relegarlo in una minuscola riserva indiana che parla a dieci persone. A questo punto però la nostra missione deve essere quella di fare cultura, non ci si può più permettere di non essere sempre al top della qualità possibile in ciò che proponiamo.
L’arte del campionamento. Sento che è una pratica importante nella tua produzione e vorrei che me ne parlassi.
Sì, assolutamente. Ma qui si va proprio su un discorso di pelle, di sensazioni, non so dirti esattamente perché lo faccio, non c’è una scelta consapevole o concettuale dietro. Preferisco sicuramente il campionamento alla sintesi, perché ti dà immediatamente un carattere di un certo tipo… mi affascina questa sorta di patina che viene fuori alla fine, come girare un film con diverse pellicole e poi riunire il tutto. Se ci pensi il glitch stesso è campionamento, devi registrare ogni singolo errore perché non riuscirai mai a ricrearne uno tale e quale.
Cosa ti piacerebbe fosse più presente nella musica contemporanea?
A livello sonoro oggi escono delle cose che sono assolutamente avanti e che riescono anche a parlare a tanta gente, per esempio per me il disco dell’anno è quello di Sophie, che è riuscita ad allacciare alla componente musicale/estetica un messaggio potentissimo e contemporaneo al cento per cento. Per non parlare di Arca, ci sono tante persone che riescono a portare avanti la loro arte con una naturalezza sconcertante. La cosa che invece sento mancare, e mi riallaccio anche al discorso sui formati di cui abbiamo parlato prima, è un completo distacco rispetto al media fisico. La musica che deve durare 40 o 60 minuti è una cosa che ci portiamo dietro dai 33 giri e dai cd, laddove una persona che acquista un disco vuole che questo sia pieno di musica, altrimenti poi crede di aver buttato via i suoi soldi. Oggi questa cosa non ha più senso e mi chiedo perché non si facciano più cose tipo quella di Liberato: che piaccia o meno, è un’operazione in cui non esiste il disco ma una serie di singoli con video, quello è il suo formato! Mi piacerebbero brani che trascendessero ogni tipo di dimensione, tipo gli Autechre che vanno in radio e propongono otto ore di musica inedita. Oppure ancora il bellissimo progetto di Holly Herndon e Jlin in cui dei suoni/stimoli passano attraverso un’intelligenza artificiale che a sua volta tira fuori musica.
Invece cosa possiamo aspettarci da te per il prossimo futuro?
Per la prima volta posso rispondere a questa domanda con un “non lo so”, perché solitamente ho sempre un archivio pieno di roba su cui lavoro, ma attualmente c’è giusto una cosetta che uscirà a breve e che piacerà molto, ma non voglio anticipare nulla se non che si tratta di un lavoro breve. Più in là invece mi piacerebbe unire tutte le cose che ho fatto in un’estetica nuova, è un processo faticoso, ma ci sto lavorando; sarà alta e bassa fedeltà, minimalismo e breakcore e chissà quante altre cose.
Chissà poi in quale non-formato uscirà…
Hai ragione, mi prenderò del tempo per pensarci.
Foto di copertina di Dan Wilton e foto nel testo di Martina Carbonelli