Se almeno un minimo amate la techno e la frequentate con cognizione di causa, molto semplicemente Jamie Roberts aka Blawan non può non essere un vostro eroe. Inevitabile farsi una bella chiacchierata con lui: si è parlato del suo album d’esordio, ma anche di Italia, di come lui con la dubstep in fondo non c’entrasse quasi nulla nonostante quanto si dicesse ai suoi esordi, e di come Berlino sia molto meglio di Londra. Detto da un inglese.
Allora: direi che oggi non ci sono tanti dubbi sul fatto che tu sia un artista essenzialmente techno, però se uno ha un minimo la memoria lunga si ricorderà che il tuo nome è venuto fuori prima di tutto associato alla Bass Music anglosassone e addirittura alla dubstep…
Vero, vero.
Oggi pare bizzarro, all’epoca invece pareva una cosa sensatissima.
Sai cosa, io di mio sono sempre stato molto più incline alla musica in quattro quarti – techno, sì, ma anche house, all’inizio inizio facevo anche molti esperimenti in chiave house – e di dischi realmente vicini alla dubstep o a quello che vogliamo definire UK Bass ne è uscito uno. Uno solo. Quello su Hessle Audio. Insomma, sono stato infilato a forza in una determinata scena sulla base di un unico disco…
“A forza”, eh?
(ride, NdI) Sì, esatto. E’ che io non ho mai voluto far parte di quella scena, non è mai stato un mio desiderio, non è mai stata una mia esigenza. Il punto è: ero un grande fan di Hessle Audio a prescindere, però ecco, guardando a me stesso come produttore mi sono sempre sentito relativamente lontano dal loro tipo di percorso sonoro. Quel disco lì, che poi loro hanno fatto uscire, era giusto un esprimento, un mio incuriosito tentativo di vedere fino a che punto potevo piegare il mio suono verso quel tipo di traiettorie – cercando comunque di restare coerente. Le successive uscite su R&S hanno rimesso un po’ a posto la prospettiva…
(l’esordio di Blawan su Hessle Audio; continua sotto)
Ok, ma chi c’era dietro questa “forza”, dietro questa relativa forzatura? Il pubblico? I media?
Molto banalmente, se il tuo primo disco esce per una label che di suo spinge soprattutto un determinato tipo di suono, è abbastanza naturale che tu all’inizio venga identificato con quel suono lì. Insomma, nessun complotto: semplicemente una casualità. Di musica ne avevo fatta anche prima, ma la mia primissima release reale è stata quella su Hessle Audio, era praticamente impossibile sentire altro di mio, capire in modo appropriato quale fosse il mio suono.
Ora il problema non si pone: perché tu hai una tua propria etichetta, la Ternesc.
Oddio, non la chiamerei proprio “etichetta”, sarò onesto. E’ più che altro una piattaforma per far uscire il mio personalissimo materiale. Non ho al momento intenzione di pubblicare roba d’altri, chiamarla etichetta è un po’ eccessivo. Magari in futuro cambierò idea ed inizierò a strutturarla di più, non lo escludo a priori, per ora però va bene così.
Ad ogni modo, questo significa che per far uscire la tua musica, la scelta migliore che hai valutato è stata quella di farlo “da soli”, attraverso una label (o piattaforma…) controllata al 100% da te.
Sì, esatto. E ti dirò, io credo che in questo periodo storico potrebbero e forse dovrebbero fare un po’ tutti così: è così facile, oggi, mettere su una propria label, se hai proprio un minimo di esperienza… Il rischio, a non averla, è che comunque tutta una serie di decisioni anche importanti non passano più da te e questo, insomma, può essere molto frustrante. Io davvero raccomanderei a tutti quanti di far uscire da sé il proprio materiale, oggi.
Tra l’altro, correggimi se sbaglio, poco dopo che sei apparso sul mercato la techno ha avuto un improvviso, travolgente ritorno… qualcosa di impronosticabile fino a cinque minuti prima.
Vero, vero.
Il fatto che la techno sia diventata, o tornata ad essere, così clamorosamente di moda credi sia stato complessivamente un fenomeno negativo, che ha inquinato la scena? O semplicemente è questione di cicli, ed è inutile innervosirsi troppo?
Che sia questione di cicli, è indubbio; ma è anche indubbio che quando un genere musicale diventa popolare, in qualche modo la musica che a cui dà vita viene intaccata. Perché quando c’è attenzione attorno ad un genere entrano in campo i soldi, e quando entrano in campo i soldi entrano in campo dinamiche legate alla sfera commerciale. E’ inevitabile, è normale. Cioè, se vedi che le cose ti funzionano inizi a farci la bocca e a volere che funzionino sempre di più, per stare sull’onda positiva; di conseguenza fai musica sempre più studiata per prendere più date, date più pagate, suonando in posti sempre più significativi. Tutto questo cambia il suono di un genere, in un determinato periodo. C’è poco da fare. Un sacco di cambiamenti estetici nell’arte hanno come motivazione la componente economica che entra in gioco in certi meccanismi.
La cosa ha riguardato anche te?
No.
No?
Per fortuna no. Sai cosa mi ha salvato?
Dimmi.
Aver sempre pensato alla mia carriera in termini non di successo, ma di longevità. L’idea di avere una grandissima fiammata in cui tutti mi chiamano e tutti mi cercano per poi invece scomparire, è per me assolutamente orribile… qualcosa in cui non voglio incappare per nessun motivo.
Gente che non insegue le fiammate e i trend del momento sono di sicuro i tuoi amici Analogue Cops.
Oh, eccome, eccome.
Ecco, so che siete molto amici. Ma come vi siete conosciuti?
Sono praticamente le prime due persone che ho incontrato nella scena! Ci siamo incontrati ad una serata, anzi no, peggio ancora, ad un after, e da lì è nata un’amicizia strettissima. Nei miei primi show, loro erano lì a supportare, sempre. Nove anni dopo, siamo ancora legatissimi.
Beh, hanno provato a spiegarti cosa significa essere italiani, cos’è l’italianità?
(ride, NdI) Sì sì, eccome! Ne ho imparate tante di cose su questo argomento, da loro! Guarda, tra il 2011 e il 2012 andavo a Padova spessissimo, per stare da loro. Non mordi e fuggi, occhio: erano permanenze che potevano durare anche due settimane. Anzi, c’è stato un periodo che passavo proprio due settimane in Inghilterra e due settimane da loro, due settimane in Inghilterra e poi ancora due settimane da loro… Hanno giocato un ruolo importantissimo nel mio sviluppo musicale. Da loro ho imparato veramente tanto. Come scrivere la musica, come approcciarla…
Ok, allora: com’è l’Italia?
Beh dai, prima ancora di incontrare loro l’avevo conosciuta da turista e sì, le solite cose, il cibo, le bellezze geografiche, i monumenti, ovvio, no? Ma poi ho imparato meglio ad apprezzare la gente. Il calore delle persone. In Italia, quando conosci qualcuno ci diventi subito amico, entri subito in connessione: anzi, molto facilmente da voi se trovi un amico il rapporto in pochissimo tempo diventa stretto, profondo, praticamente come acquisire un nuovo parente stretto. In Inghilterra tutto questo è inimmaginabile, credimi!
E a Berlino, dove stai ora?
Mah, qui arriva gente da tutto il mondo. C’è un po’ di tutto. Però, a dirtela tutta, esco molto poco. Sto per lo più in studio. Per me Berlino è un posto dove star tranquillo.
Peraltro, ho letto una tua intervista di nemmeno troppo tempo fa in cui ti definivi una persona molto “impaziente”.
Vero.
Ah, può essere una cosa complicata, se fai il musicista.
Eccome se può esserlo! Se fai proprio il musicista, poi, è una caratteristica che ha molto più conseguenza negative di quelle positive. Però ecco, questo è il mio carattere, e dubito cambierà.
Sei stato tanto impaziente anche durante la lavorazione di “Wet Will Always Dry”, il tuo primo album?
Stranamente, no. Per farlo mi sono chiuso in studio per un po’ di tempo, senza mancare neppure un giorno. La lavorazione è andata avanti in modo sorprendentemente liscio, naturale, scorrevole. Davvero, io per primo ero sorpreso di quanto fosse facile completare il disco. Tutti i pezzi sono sempre andati al loro posto in modo immediato e spontaneo. E’ stato tutto incredibilmente semplice.
A proposito di semplicità: la techno, volendo, è una musica semplice. O almeno, fatta di pochi elementi. Esiste il rischio che ad un certo punto si arrivi al livello in cui tutto è stato detto, tutto è stato fatto, tutto è stato ricombinato per quanto possibile, e insomma nel campo della techno non ci sarà più nulla di nuovo da dire?
Il rischio c’è.
Sì, eh?
Potrebbe accadere, sì. La techno ora arriva a compiere trent’anni e beh, non sono pochi. Tanti o pochi che siano, significa ad ogni modo che al teorico punto di saturazione creativa comunque ci stiamo avvicinando. Ma c’è una cosa che mi fa vedere le cose da una prospettiva ottimistica: la techno, più di altri generi musicali, è molto legata in modo fisiologico alla tecnologia, al progresso tecnologico. Pensaci, ogni innovazione tecnologica ha generato dei nuovi suoni: la 909, la 808, la 303, i synth, poi i software… e non sappiamo che altro arriverà. Ma qualsiasi cosa arrivi, ci sono buone possibilità che influenzi il suono, di questo genere musicale, aprendo nuove prospettive. C’è quindi una risorsa in più, rispetto al dover dipendere dalla sola scrittura.
Ma tra venti, trent’anni ti vedi ancora lì a produrre techno?
Non ne sono così sicuro, ma quello che so è che la techno è dove sta la mia passione. La musica in quattro quarti ha sempre avuto una presa su di me particolare, paragonabile a nient’altro. Ancora oggi, la sento come una musica “perfetta”.
Peraltro, oltre alla release in parte spezzata su Hessle di cui parlavamo all’inizio ti è capitato però di produrre anche roba più downtempo o comunque meno feroce… usando magari altri alias (Bored Young Adults, Kilner).
Vero, ma quando faccio cose più “tranquille” per me è, come dire?, tutto un po’ più difficile. Devo essere davvero in un certo tipo di mood per mettermi a produrla e, in ogni caso, mi viene fuori in modo più faticoso, meno spontaneo e naturale. E questo mood, peraltro, mi viene abbastanza di rado.
Qual è il contesto migliore per ascoltarti? Una sala discretamente grande o un ambiente molto intimo e raccolto?
Beh, direi la seconda. Tendenzialmente non mi piace suonare in posti particolarmente grandi, anche se ovviamente ci sono posti con una capienza sul migliaia di persone – che per me è tanto – in cui mi sono trovato davvero bene, il Berghain primo tra questi. Quindi sì, diciamo che dipende da posto a posto, ma dovendo proprio scegliere da un punto di vista puramente teorico opto senz’altro per un posto piccolo e raccolto.
Ti è mai successo che una serata con te in console palesemente non ingranasse, nonostante tutti i tuoi sforzi?
Fortunatamente non spesso, solo un pugno di volte, ma sì, è successo.
Lì che si fa?
Che vuoi fare? Nulla. Non puoi fare nulla. Devi continuare a suonare. Ci sono serate che nascono proprio così: per quanti sforzi tu faccia, non si crea mai una reale connessione tra te e la pista. Ma lì l’unico rimedio è – continuare a suonare. Non puoi fare altro.
Mi sembra una visione molto zen. Allora non sei solo un maledetto impaziente…
(ride, NdI) Accidenti, hai ragione!
Musica a parte, quali sono le tue passioni?
Ho un cane, adoro fare lunghe camminate con lui. Anzi, spesso ho l’impressione che passi le giornate a fare soprattutto questo (ride, NdI)… Però guarda, a essere onesti la maggior parte del mio tempo la passo, semplicemente, chiuso in studio.
Tempo per esercitarti col tedesco?
Mi tocca, ho una fidanzata tedesca!
Eh, lo so. Per questo te lo chiedevo.
Devo esercitarmi per forza.
E come va?
Diciamo che devo migliorare…
Ah!
Sì, devo migliorare ancora parecchio! Ma – è difficile. A Berlino è difficile. Qua alla fine parlano tutti inglese. Se vai al bar a prendere un caffè, chi sta al bancone molto facilmente sa il tedesco meno di te, quindi si passa subito all’inglese. Mi fossi trasferito a Monaco, ora probabilmente il mio tedesco sarebbe perfettamente fluente…
Ti manca qualcosa, dell’Inghilterra?
Mah. Non lo so. Al momento, credo, nulla. Sarò sincero. Forse un paio di cose, ma… Guarda, il fatto è che in Inghilterra, pur essendoci nato, non mi sono mai sentito realmente “a casa”. Ho sempre viaggiato molto, quando abitavo lì, e per fortuna. Senza contare che l’ultimo periodo passato a Londra non mi era piaciuto proprio per un cazzo, non vedevo l’ora di andarmene via.
Caspita. Come mai?
Londra è tutta “troppo”… Troppo grande. Troppo costosa. Troppo faticosa. Troppo folle, anche. Io arrivo dal nord dell’Inghilterra e lì, insomma, la vita è molto differente. Non che manchino le grandi città, ce ne sono anche la nord, ma la vedi proprio, la differenza nel come si pongono le persone… Chiaro, stiamo generalizzando, questa è la premessa da fare sempre; ma ti posso dire che mediamente la gente di Londra non mi piace granché.
Mentre ora, stai bene.
Sto benissimo. Al cento per cento. Suono in giro. Ho uno studio carino. Sto in una città che mi piace.
Ehi: sta andando tutto bene.
Sì.
Foto di Marie Staggat